approfondimenti
EUROPA
Com’è cambiata l’Europa dalla pandemia a oggi
Le prossime elezioni europee saranno l’occasione per scongiurare il rischio di un’ulteriore deriva verso le destre e contrastare le nuove politiche di austerità, preservando la stagione di solidarietà tra forze sociali inaugurata dalla pandemia
L’obiettivo minimo di una sinistra europeista matura avrebbe dovuto essere la trasformazione dell’UE in un vero soggetto capitalistico su scala continentale, dotato – oltre all’euro – di una sua governance unitaria e con la capacità di riconfigurare la costituzione materiale del modello sociale europeo in un processo pur non privo di contraddizioni e violenza, sul modello di quanto è accaduto durante la costituzione di altre unità monetarie.
Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo chiudevano il loro libro L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e sanitaria auspicando la creazione, una volta usciti dalla pandemia, di un’economia della produzione sociale frutto di una radicalizzazione dell’idea del New Deal e il mantenimento di alcune politiche, come i controlli centrali per l’approvvigionamento, attuate durante l’emergenza sanitaria. L’obiettivo sarebbe stato la trasformazione del sistema produttivo e la realizzazione di una social production economy dove la socialità è già iscritta immediatamente nella produzione e nella circolazione di ciò che costituisce la ricchezza.
La svolta venne favorita inizialmente dalla crisi sanitaria che è riuscita a far comportare la BCE da prestatore di ultima istanza di banche e stati sia in modo diretto che attraverso lo shadow banking. I protagonisti di questo cambiamento sono stati Mario Draghi e Angela Merkel.
L’altra grande innovazione portata dalla pandemia fu il Next Generation EU per il periodo 2021-2026. Si tratta di uno stimolo senza precedenti per le nostre economie sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Parliamo di oltre 806,9 miliardi tra risorse proprie del piano e di altri fondi europei
Metà di queste risorse sono sovvenzioni e non prestiti e la Commissione Europea ha contratto i prestiti sui mercati finanziari a nome di tutta l’UE. Oltre a questa mutualizzazione del debito senza precedenti, il piano segue un trasferimento asimmetrico delle risorse con l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze sorte prima della pandemia e rafforzare l’industria europea nel segno delle due transizioni, quella digitale e quella verde. Inoltre le risorse tengono in considerazione il calo reale del PIL nel 2020 e la disoccupazione tra il 2015 e il 2019.
Progetti scollegati, a gestione nazionale
Il principale limite di questo piano è l’assenza di un significativo coordinamento su scala europea visto che le risorse stanziate sono rimaste in capo ai singoli stati e alla loro interpretazione delle priorità da perseguire. Le istituzioni europee non hanno ancora preso atto dell’esistenza di un sistema industriale europeo figlio della ristrutturazione del capitale oligopolistico tedesco che ha creato catene del valore transnazionali estese sopratutto verso l’Est Europa con l’intento di individuare l’Estremo Oriente come punto di sbocco dei macchinari e beni di consumo di alta qualità della Germania.
Il sistema industriale europeo, quindi, esiste già ed è composto da diverse capacità produttive tra loro interdipendenti. Se ne sono accorti molto presto gli inglesi dopo aver portato a termine la Brexit. Questo dato di fatto implica che transizioni come quella verde non possono che essere declinate a livello europeo con delle strutture sovranazionali a oggi assenti. Il confronto con il piano di Biden negli USA è impietoso se partiamo da questi limiti. L’amministrazione Biden ha originariamente proposto il piano d’investimento più grande dalla fine della Seconda guerra mondiale con l’intento non solo di ripristinare il PIL perso a causa del COVID-19 ma anche di cambiare la politica industriale e non solo con un progetto simile al New Deal. In termini di quota percentuale del PIL parliamo del 10% contro il 7% europeo ma con uno stimolo distribuito su un decennio.
Il piano doveva includere molte misure sociali come anni di college e scuola materna gratuiti o una riduzione dei costi per l’assistenza all’infanzia. Alla fine sono stati approvati solo i fondi per le infrastrutture mentre quelli sociali hanno incontrato la scontata ostilità dei repubblicani di Trump e di parte dello stesso Partito Democratico, ovvero la fazione “moderata” che ha giudicato eccessivo uno stimolo del 10% per una perdita del PIL del 3% o 4%. Si tratta di quello che Bellofiore e Garibaldo hanno chiamato keynesismo privatizzato di seconda generazione.
Con la pandemia sono tornati gli investimenti pubblici ma essi sono accompagnati da una valorizzazione di criteri e priorità privatistiche che non intaccano in alcun modo la precarietà del lavoro e della società
Occorreva riqualificare a sinistra questo intervento attivo dello Stato ma su tutto questo scenario è piombata la guerra in Ucraina che secondo Raúl Sánchez Cedillo sta portando all’accelerazione di contraddizioni già presenti nella nostra società. Pensiamo solamente alla crisi migratoria, alla crisi ecologica oppure al protezionismo.
Una chiave di lettura esterna alle rispettive veline di propaganda per quanto riguarda l’invasione russa dell’Ucraina è quella proposta da Emiliano Brancaccio nei suoi due libri, il primo, scritto con il suo gruppo di ricerca, intitolato La guerra capitalista: Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, e il secondo Le condizioni economiche per la pace. Nel primo volume viene recuperata la marxiana legge sulla centralizzazione dei capitali. Viene inizialmente sviluppata da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista per poi essere definita nel secondo volume del Capitale come una legge generale del movimento della società.
Brancaccio sottolinea questo aspetto perché il rifiuto dell’individuazione di leggi generali nella nostra società è una caratteristica centrale del pensiero irrazionale che viene chiamato geopolitica. Molti dei suoi esperti italiani fanno di questa grave mancanza un vanto. Invece l’economista napoletano ci riporta direttamente a Marx per comprendere le motivazioni della guerra in Ucraina e non solo.
Per prima cosa occorre definire questa legge _ e per questo ci rifacciamo a un notevole testo di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano 2022:
«La centralizzazione capitalistica si può descrivere così: la feroce competizione tra capitali genera continuamente vincitori e vinti, con questi ultimi che a lungo andare vanno in bancarotta e vengono liquidati oppure assorbiti dai primi, a colpi di fusioni e acquisizioni. Pertanto, il controllo del capitale tende a concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi vincitori della guerra di mercato. È questa la centralizzazione, tendenza generale nel meccanismo di sviluppo e di crisi del regime di accumulazione capitalistica»
Lo schema valido per i singoli capitalisti è esteso alle nazioni, divise in un blocco di debitori e uno di creditori. Il primo è il blocco anglo-americano che trascina dalla sua parte anche l’Europa. Gli USA, come viene spiegato in Le condizioni economiche per la pace, sono passati dal libero mercato e l’illusione di poter governare la globalizzazione al protezionismo perché hanno preso atto del fallimento della centralizzazione speculativa coloniale. Si tratta del processo alla base dell’insolita longevità dello squilibrio economico sino-americano.
Da un lato la Cina comprava le obbligazioni americane poco remunerative, consentendo agli americani di finanziare il loro debito e nel frattempo di espandere le proprie milizie negli scenari di guerra all’estero, dall’altro lato gli USA potevano investire sulle più redditizie imprese cinesi all’estero. Il risultato è un’economia fortemente indebitata che importa molto ed esporta poco e che ha accumulato un enorme debito, si parla di 18 miliardi di dollari, l’80% del PIL, sopratutto nei confronti del principale creditore mondiale, ovvero la Cina.
Il timore americano riguarda un cambio di marcia dei cinesi. Invece di accontentarsi delle obbligazioni poco redditizie potrebbero iniziare a orientare l’esportazione di capitali verso l’acquisizione diretta delle imprese americane. Per questo, a partire dalla Grande recessione che ha iniziato a creare enormi difficoltà nel finanziamento del debito pubblico americano, gli USA hanno iniziato a proporre il protezionismo e con esso il friendshoring.
Sopratutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina gli americani hanno accorciato le catene del valore delle proprie imprese nell’ottica di dover iniziare a fare affari solamente con i paesi amici mentre bisogna tenere alla larga i paesi nemici. I cinesi contestano questo unilaterale cambio di passo degli USA e pretendono il rispetto delle regole della globalizzazione sfidando l’egemonia americana sul mondo
Passare dal libero scambio al protezionismo non è qualcosa che possa avvenire in maniera indolore, con tutti gli altri paesi del mondo disposti ad accettare l’indirizzo proveniente da Washington. Questo è il motivo dietro lo scoppio della guerra in Ucraina. La Cina e il suo alleato russo fanno entrambi parte del blocco dei creditori e sfruttano questo conflitto per tastare il terreno della tenuta dell’egemonia mondiale americana sul pianeta.
Anche la guerra a Gaza, pur nella sua diversità rispetto al conflitto ucraino, può essere letta tramite lo schema proposto da Brancaccio. Il Medio Oriente è stato destabilizzato dal tentativo americano di inglobare nel proprio blocco i paesi arabi produttori di energia e materie prime tramite la normalizzazione dei rapporti di Israele promossa dagli Accordi di Abramo che teneva fuori dalla discussione la risoluzione della Questione Palestina.
Quale spazio economico europeo?
In questo scenario, dice Brancaccio, non ha alcun senso la risposta europea che si è accodata al protezionismo americano. Il nostro continente non rispetta pienamente i parametri dei paesi debitori, anzi, al suo interno c’è un paese creditore importante come la Germania. Scontiamo l’assenza di una politica estera unitaria e autonoma da quella di Washington. Il più lucido analista di questa debolezza è l’ex-presidente Mario Draghi. Recentemente sul sito Etica ed Economia è uscito un lucido commento di Elena Granaglia sulle due proposte di riconfigurazione dello spazio politico europeo avanzate da Enrico Letta e dall’ex presidente della BCE.
Il primo, nel rapporto Much more than a market-speed, security, solidarity, afferma che il mercato unico deve evolvere verso uno spazio compiutamente europeo, smettendo di essere un semplice sbocco per le merci. Per questo propone regolazioni comuni per quanto riguarda unione bancaria e del mercato dei capitali e la costruzione di imprese e beni pubblici europei. Letta propone di trattenere i 33 trilioni di euro di risparmi privati di cui il 34,1% immobilizzata nei depositi bancari o diretta verso gli USA rafforzando i fondi europei e gli investitori istituzionali europei per sostenere la doppia transizione. Per quanto riguarda l’industria bellica, viene suggerito di sostenere il lavoro europeo invece di comprare le armi dagli USA.
La visione di Draghi è più conflittuale rispetto a quella di Letta. Invita gli europei a non farsi vicendevolmente concorrenza, prendendo atto dell’esistenza di quel sistema industriale europeo di cui parlavano Bellofiore e Garibaldo, perché occorre ragionare come un corpo unico nel mercato globale. Da un lato la Cina vuole catturare tutte le catene del valore delle tecnologie verdi, dall’altro gli USA propongono il keynesismo di Biden all’interno e il protezionismo all’esterno. Entrambi indeboliscono l’Europa che deve attuare una strategia volta a dotarsi di input e risorse senza aumentare le dipendenza mentre vengono protette le nostre industrie.
Abbiamo inoltre bisogno di imprese europee capaci di competere con quelle americane e cinesi. Diversamente da Letta che reputa le PMI essenziali per l’ossatura dell’economia europea, per Draghi sono una zavorra.
Le scelte dell’Europa sembrano al momento contraddire questi ragionamenti come possiamo vedere analizzando la riforma del Patto di Stabilità e Crescita che venne sospeso immediatamente durante la pandemia. L’accordo al ribasso del dicembre 2023 è un compromesso tra diversi sovranismi che entra in rotta di collisione con il Next Generation EU e la sua logica solidaristica
Questo viene ribadito sempre su Etica ed economia da Andrea Boitani e Roberto Tamborini. L’accordo fa carta straccia della prima proposta di riforma del novembre 2022 in cui la Commissione Europea voleva passare da regole uguali per tutti a percorsi individuali concordati tra Commissione e singolo paese con l’obiettivo di rendere sostenibile il debito pubblico o ridurlo dove fosse eccessivamente alto. L’obiettivo, quindi, non era una generica riduzione del debito ma la sua sostenibilità.
Questo ragionamento era insostenibile per i tedeschi. Nell’aprile 2023 la Commissione fa sua la proposta della Germania di inserire una clausola di salvaguardia per imporre la riduzione annuale di un punto percentuale del rapporto debito/PIL per i paesi troppo indebitati e reintroduce la centralità del saldo primario strutturale con le sue variabili non osservabili che dovevano essere superate nel 2022.
Il governo italiano si è dimostrato altamente incompetente nel non aver provato a smontare questa trappola per il nostro paese ricercando un accordo con gli altri paesi latini indebitati come noi, su tutti la Francia e la Spagna. I Nostri hanno invece ottenuto un’austerità diluita che farà pesare meno l’eventuale aggiustamento annuo richiesto ai paesi molto indebitati passando da 4 a 7 anni.
Lo scontro sul piano di stabilizzazione
«Alcuni pensano che le regole fisse siano la soluzione obbligata del problema della sfiducia reciproca tra i paesi europei. Ma come la storia di questi ultimi venticinque anni si è incaricata di dimostrare, si tratta di una soluzione sbagliata, perché quando si arriva veramente al dunque, risulta politicamente molto difficile imporre il rispetto delle regole a chi davvero non vuole rispettarle (specie se è un paese grande e pesante, come l’Italia) e perché, in molti casi, il rispetto delle regole produrrebbe risultati peggiori del loro mancato rispetto. Questo è chiaramente il caso quando un’economia si trova in recessione e le regole sono pro-cicliche, cosicchè rispettarle aggraverebbe la recessione o alimenterebbe profezie che si autoavverano». È la tesi di Andrea Boitanie e Roberto Tamborini.
I risultati di questo approccio saranno devastanti per i lavoratori europei, come dimostra uno studio della Confederazione dei sindacati europei (CES) redatto dalla New Economics Foundation.
«La maggior parte degli Stati membri dell’UE non sarà in grado di raggiungere i propri obiettivi di investimento in scuole, ospedali e alloggi nell’ambito dei piani per nuove regole di governance economica. I dati stessi della Commissione europea mostrano che gli investimenti nelle infrastrutture sociali europee sono già 192 miliardi di euro all’anno in meno rispetto a quelli necessari per soddisfare le esigenze dei cittadini. Ogni anno è necessario aumentare gli investimenti di 120 miliardi di euro nella sanità, 57 miliardi di euro in alloggi a prezzi accessibili e 15 miliardi di euro nell’istruzione. […] Invece di investire, gli Stati membri sarebbero costretti a effettuare tagli per oltre 100 miliardi di euro nel primo anno di attuazione delle nuove regole fiscali»
Questo scenario di ritrovata austerità impone la massima allerta a tutti i lavoratori e lavoratrici e tutte le forze sociali che lottano per un’Europa sociale e democratica. Le prossime elezioni europee fanno parte di questa partita e il continente corre seriamente il rischio di scivolare a destra, archiviando definitivamente quella stagione di solidarietà che abbiamo intravisto durante la pandemia.
L’immagine di copertina è presa da Wikimedia Commons
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