approfondimenti
OPINIONI
Colonialismo italiano, di cosa parliamo quando parliamo di rimozione?
Lo studioso e ricercatore Miguel Mellino parla di alcuni momenti dell’approccio marxiano e terzinternazionalista al problema coloniale, segnalando lacune e contraddizioni. Mellino sarà docente al prossimo appuntamento del nostro corso di Dinamoschool “Colonialismo ieri e oggi”
Riportiamo qui la parte finale, ancora non pubblicata, di una più ampia intervista dal titolo Italiani prava gente, che Miguel Mellino ha rilasciato a Franco Coppoli per “Cobas. Giornale dei comitati di base della scuola”, aprile 2021, nelle cui prime due parti (pubblicate) analizza la presenza della mentalità coloniale nella scuola e nella storiografia italiana e l’esigenza di decolonizzare lo stesso antirazzismo alla luce della presa di parola diretta da parte della seconda generazione di migranti nel nostro Paese. Qui vengono presi in esame alcuni momenti dell’approccio marxiano e terzinternazionalista al problema coloniale, segnalando talune lacune e contraddizioni per un cui esame più approfondito si rimanda a Marx nei margini (ed. Alegre, 2020), ricordando soprattutto le importanti considerazioni di Rosa Luxemburg, nella sua Introduzione all’Economia politica, pensato tra l’altro come un testo di divulgazione dell’analisi marxiana, sul rapporto tra conquista coloniale, genocidio, espropriazione delle terre indigene e nascita del capitalismo, benché lo faccia nella prospettiva “storicistica” tipica di questo primo marxismo.
Marx ha diverse volte messo in evidenza nella sua opera quanto dicevamo prima, e cioè che senza la schiavitù non ci sarebbe stato lo sviluppo del capitalismo – le sue enunciazioni Miseria della filosofia sono rimaste piuttosto presenti: «la schiavitù diretta è il cardine del nostro industrialismo attuale, proprio come le macchine, il credito, ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna». Cosi egli ha posto le basi per studi e ricerche che avrebbero fatti po altri, si può dire, ma fino agli anni ‘30 e 40’ del XX secolo, quando cominciano a prendere voce i primi marxisti neri – come O. Cox, E. Williams, C.L.R James, G. Padmore, R. Wright – l’interesse per schiavitù non fa parte di un ragionamento articolato dentro il marxismo. E Marx stesso poi non ha ulteriormente approfondito questo ragionamento.
Anche perché Marx, checché se ne dica, vedeva il modo di produzione schiavistico, così come i suoi simili e derivati, certo come qualcosa di strutturale nella genesi storica del capitalismo industriale, ma li considerava pur sempre fenomeni residuali rispetto allo sviluppo capitalistico più autentico. La “teoria moderna della colonizzazione”, il 25° capitolo del libro I, è indicativa di come Marx pensasse questi fenomeni. Su questo punto, bisogna anche ricordare che Marx era favorevole all’immigrazione di coloni dall’Europa negli USA perché avrebbero accelerato il processo di sviluppo economico. Nel marxismo c’è sempre stato, dunque, un limite di filosofia della storia, di eurocentrismo si può anche dire, per quanto riguarda l’analisi della storia e del capitalismo: perché negarlo? Non serve a nulla nasconderlo o giustificarlo. E non poteva essere altrimenti, forse. Marx ha scritto la sua opera sulla scia delle rivoluzioni del 1848 in Europa e del primo sviluppo industriale in Inghilterra e in Europa. Se avesse scritto a Kingston, Buenos Aires o Hong Kong avrebbe scritto diversamente.
(immagine da commons.wikimedia.org)
Sappiamo poi che Marx era più interessato a cercare di elaborare la forma idealtipica del modo di produzione capitalistico che non ad altro, e dietro questo ragionamento, purtroppo, agiva una versione della storia piuttosto teleologica, europea e occidentale, in cui la storia veniva concepita non solo come un epifenomeno della storia dell’Europa – è anche questo il senso della sua celebre indicazione di metodo «L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia» – ma anche come uno sviluppo in cui la diffusione globale del modo di produzione capitalistico avrebbe “universalizzato” la sua stessa forma di sfruttamento e di organizzazione della società, ovvero avrebbe portato il mondo verso l’omologazione sociale e uniformazione, anziché verso una progressiva differenziazione, e quindi gerarchizzazione geografica, come poi è in realtà accaduto. Nel Manifesto del Partito comunista lo dice chiaramente: «L’Inghilterra mostra agli altri paesi il proprio futuro». Sappiamo che questo Marx giovane è molto diverso da quello degli anni successivi, ma forse questa idea gli è sempre un po’ rimasta nella testa, nonostante alcuni ripensamenti che andavano in altra direzione. Negli ultimi anni della sua vita, come è stato più volte notato, ha cominciato a rivedere in parte questa visione, benché non abbia mai scritto di “imperialismo”, interessandosi allo sviluppo del capitalismo “periferico”, per così dire, in paesi come Grecia, Turchia, Irlanda, Cina, Russia.
Sintomatico di questo ripensamento è, per esempio, il supporto al nazionalismo irlandese anticoloniale, rispetto a una sua sottovalutazione nei primi scritti, in cui affidava la liberazione dell’Irlanda alla classe operaia inglese. C’è un ottimo testo di Enrique Dussel, argentino vissuto in Messico, L’ultimo Marx, tradotto per Manifestolibri, che si concentra proprio su questi aspetti, su questa revisione del suo pensiero, del Marx “maturo”, per così dire. Si tratta di linee di ricerca di Marx che poi verranno rielaborate dai primi marxisti neri, dal marxismo newyorkese di Paul Baran, Paul Sweezy e Harry Magdoff negli anni ‘40 e 50’, e infine dalla teoria della dipendenza e dal secondo marxismo nero negli Stati Uniti (quello degli anni ‘60).
Detto questo, si può dire che il limite di Marx fosse aver scambiato un momento contingente nella storia del capitale per sua una tendenza costitutiva o teleologica. Ma forse non poteva fare altrimenti, data quella che si può chiamare la “problematica filosofica” entro cui si muoveva. Da questo punto di vista, è interessante riprendere una delle critiche più raffinate che C. Robinson rivolge a Marx nel suo Black Marxism, e che non viene quasi mai presa in considerazione nell’imponente dibattito in corso, soprattutto negli Stati Uniti, sulle sue teorie riguardo la struttura razziale del capitalismo (non vista da Marx) e gli apporti della tradizione radicale nera nel rendere visibile il rapporto simbiotico esistente tra capitalismo, cultura europea e razzismo: secondo Robinson, infatti, il limite fondamentale di Marx nella comprensione del capitalismo è stato l’aver operato entro il dispositivo di dominio coloniale e razziale più efficace e sottile messo a punto dalla “civiltà europea” per la propria supremazia: la filosofia occidentale.
È una critica che vale la pena di riprendere, soprattutto alla luce dei ragionamenti promossi dalle prospettive postcoloniali e decoloniali su ciò che hanno chiamato “geopolitica della conoscenza e del sapere”.
(foto di Tano D’Amico)
Come valuti la corrente, il pensiero e la storia dell’operaismo rispetto a tutto questo?
L’operaismo oscilla tra queste due visioni: da una parte il Tronti di Operai e capitale è tutto dentro il Marx più puro, quello del Capitale e dei Grundrisse, dove il conflitto è fra capitalisti e proletari e si fa dentro la fabbrica, ovvero nello snodo più avanzato del modo di produzione capitalistico. Su questo aspetto, Tronti segue quella tendenza “universalista” e “storicistica” del marxismo e del capitale che a noi oggi appare non solo eurocentrica e coloniale, ma soprattutto fuorviante. È piuttosto noto il disprezzo nutrito allora da una parte dell’operaismo per il terzomondismo – e in certe casi a ragione, date alcune delle versioni più popolari di tale ideologia.
Il suo ragionamento metteva del tutto in secondo piano la globalità del modo di produzione capitalistico, intesa qui come una combinazione di diversi modi di produzione, per dirla con l’Althusser di allora – e che soprattutto a quei tempi appariva organizzata a partire da una divisione internazionale del lavoro gerarchica piuttosto chiara – per concentrarsi sulla lotta operaia nelle grandi realtà industriali, soprattutto del mondo più avanzato. Oggi le cose stanno diversamente e quella divisione internazionale del lavoro, se vogliamo comunque mantenere il termine tanto per capirci, non segue più le linee dei confini nazionali di un tempo, ma è divenuta qualcosa di più complesso.
C’è una catena globale di produzione del valore che attualmente sembra a sfuggire alle logiche di quello schema, ma che, dal mio punto di vista, continua a riprodurre non solo conflitti orizzontali (tra nazioni diversamente collocate nelle gerarchie della geografia e della geopolitica capitalistica), ma anche gerarchizzazioni spaziali/produttive e di popolazione non indifferenti. Siamo sempre lontani dagli schemi “astratti” abbozzati dal marxismo classico come destino del mondo. Per tornare a Tronti, quanto detto, non nega la potenza politica del testo, e nemmeno altre sue considerazioni molto importanti, e soprattutto originali, sulla logica economica e politica della lotta di classe operaia.
Ma l’operaismo non era solo questo. Vi era anche un’altra prospettiva o tendenza interna, più interessata all’analisi della composizione organica e tecnica del capitale, e cioè alla messa in luce della differenziazione gerarchica operata dal capitale nella produzione della forza lavoro, che andava proprio nell’altra direzione…
La rude razza pagana…
Esatto, l’operaismo ha in sé questa contraddizione, insita nel marxismo stesso, e non è un caso se in Italia è stato il cosiddetto post-operaismo quello che ha recepito di più, da un punto di vista marxiano, rielaborandolo anche in modo originale, tutto quanto di meglio hanno messo in luce i migliori studi postcoloniali o decoloniali. Personalmente, sono stati proprio questi sviluppi ad avermi avvicinato all’operaismo e alla sua storia, soprattutto a queste riconsiderazioni post-operaiste del modo di produzione capitalistico, alla luce delle trasformazioni degli ultimi venti-trent’anni. Il post-operaismo, a partire da queste rielaborazioni, ha contribuito certamente a decolonizzare il marxismo italiano ed europeo, a renderlo meno “bianco”, per certi versi, anche se alcune contraddizioni, in particolare l’abitudine a posizionarsi sulla tendenza più avanzata del capitale, comunque restano.
(foto di Mila Tenaglia)
La storia dell’autonomia, la teoria dell’esodo di Paolo Virno, le Taz di Hakim Bey o il pensiero di Raul Zibechi mi sembra abbiano in comune con il pensiero di Huey P. Newton e l’esodo nero, il rifiuto dell’assalto al cielo, dello scontro frontale con il capitale e la creazione di zone autonome, la costruzione di mondi altri…
Per quanto riguarda l’America Latina la connessione c’è ed è esplicita, nel senso che buona parte del pensiero “autonomista” di Raul Zibechi o di altre autrici come Silvia Rivera o Rita Segato, così come una parte dei movimenti sociali e indigeni, portano avanti da tempo il discorso della costruzione di spazi comuni autonomi e autorganizzati, con logiche di gestione fondate sulla cooperazione, sull’anticolonialismo, sulla valorizzazione dei saperi tradizionali indigeni alla luce della modernità e sulla lotta al patriarcato e all’estrattivismo, ma soprattutto indipendenti dallo stato-nazione.
A livello teorico-politico, ci sono esperienze di lotta molto concrete e importanti in questo senso, in diversi paesi, dalla Bolivia, all’Ecuador, al Brasile, ovviamente al Messico e alla Colombia, ma anche all’Argentina. A volte, però, come accaduto di recente dopo il golpe in Bolivia contro Evo Morales, questi autori – mi riferisco a Zibechi, Rivera e Segato – prendono un posizionamento non del tutto condivisibile – e con questo non si vuole qui salvare i limiti dell’esperienza del Mas e di Evo Morales. Gli studi decoloniali si propongono un po’ come i portavoce di questi movimenti, anche se anche qui lo spettro dei posizionamenti è stato assai variegato e comunque i movimenti sociali e indigeni non sono riducibili solo a tale posizionamento, diciamo, autonomista.
La galassia è più complessa e cambiante, a seconda poi di come si evolvono le congiunture e i diversi governi. Per tornare alla tua domanda, sì, si tratta di posizionamenti e movimenti più incentrati sull’auto-organizzazione e la costruzione di potere e democrazia dal basso, in modo autonomo, che non attraverso l’occupazione delle istituzioni dello stato, detto banalmente. Poi nella pratica, come sempre, le cose divengono più sfumate, e per quanto riguarda l’America Latina, è difficile dire che essi non si scontrino comunque in modo frontale con il capitale e tutti i suoi apparati, se consideriamo la durezza della lotta all’estrattivismo, alla privatizzazione e finanziarizzazione dei servizi sociali, e alla repressione, spesso brutale, legale e anche para-militare, che queste comunità sono costrette a subire e affrontare.
Immagine di copertina di Zeal Harris da Flickr (dipinto di Jacob Lawrence)