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Colombia: la difesa del territorio, contro la violenza della “pace estrattivista”

Intervista a Tatiana Roa Avendano, attivista colombiana di passaggio per Roma grazie ad un invito dell’associazione Yaku, sulla straordinaria ricchezza delle recenti lotte territoriali colombiane che si sviluppano all’interno dello scenario marcato fortemente dagli accordi di pace con le FARC (conclusi) e con l’ELN (appena iniziati)

Tatiana, ci puoi spiegare di cosa si occupa la tua organizzazione, Censat-Agua viva?

E’ una organizzazione fondata 28 anni fa per difendere la salute dei lavoratori, poi però nel tempo si è evoluta in organizzazione ambientalista. Il nostro lavoro è riconosciuto per quanto riguarda la ricerca, la denuncia, l’accompagnamento alle comunità e la costruzione di alternative. Lavoriamo a livello nazionale e poi in alcune regioni specifiche, Antioquia, Guajira, Santander, Cauca, Meta.

Nel tuo intervento pubblico hai spiegato che il pericolo maggiore determinato dalla pace ottenuta da Santos è che sia una “pace estrattivista”, Cosa intendi con questo termine?

La situazione in Colombia non è estranea a quanto accade in altre parti di America Latina: quello che Maristella Svampa ha definito il “consenso delle commodities”.  L’ America Latina provvede a rifornire di carbone e materie prime Stati Uniti e Europa. Il 60% del petrolio colombiano si esporta così come il 80% del carbone. Il governo colombiano vede nel processo di costruzione della pace la possibilità di entrare in territori rurali interdetti fino a quel momento per via della presenza di movimenti guerriglieri. Non è una mera speculazione, già molti ministri e funzionari hanno dichiarato apertamente che la pace permetterà loro di accedere a nuovi territori. Per questo diciamo che quella di Santos è una pace estrattivista, è una pace pensata per rendere più profondo quel modello e ampliare le frontiere estrattive, costruendo progetti minerari in gran parte del paese, dal carbone in montagna, al petrolio nei Caraibi.

Quali invece gli aspetti più interessanti del processo di pace?

È stato interessante vedere nel negoziato il ruolo di chi come noi non credeva che la via armata sarebbe stata la soluzione. In molti abbiamo sempre rispettato chi avesse fatto quella scelta ma non era la nostra.

Si pensa spesso alla trasformazione economica e sociale della realtà, ma non alla trasformazione culturale. Ci sono due elementi che caratterizzano una trasformazione culturale e che quindi devono caratterizzare la nostra strada futura:

1) Arrivare alla risoluzione di conflitti senza utilizzare strumenti violenti nelle relazioni, e quindi ripensando il modo di gestire le relazioni stesse

2) Concentrarsi sulla nostra relazione con la natura (includendo gli esseri umani). Come la vogliamo pensare? Per mantenerci vivi vogliamo sfruttarla al massimo oppure pensiamo un nuovo modello di società in relazione alla natura?

Inoltre per compiere una trasformazione culturale che superi la polarizzazione della società abbiamo bisogno di altri linguaggi, narrative, espressioni artistiche. Nelle forme tradizionali non riusciamo più ad andare oltre le barriere. Invece cinema, teatro, musica possono riuscire a ottenere un cambiamento, per disarmarci di tanto rancore e ferite e costruire una società più disposta ad ascoltarsi al suo interno.

Il processo di pace infine è la possibilità di vedere altri conflitti e situazioni. Il conflitto armato oscurava l’esistenza di altri conflitti, anche se erano attivi. Molti questioni ambientali emergono chiaramente ora che il conflitto armato non c’è più.

Quale ruolo ha nel processo di pace la ricostruzione di una memoria storica del conflitto?

Il Centro Nazionale per la Memoria Storica ha iniziato un lavoro sul recupero della memoria storica. Si è diffusa proprio ieri una pubblicazione di donne sul rapporto tra conflitto armato e questione di genere. Non si è diffuso un testo unico ma testi molteplici in questi ultimi mesi.

Recentemente poi ha avuto inizio il lavoro della Commissione per la Verità. La Commissione si è creata con 11 persone, ci sono leader sociali importanti, membri di organizzazioni indigene e afrodiscendenti, ci sono intellettuali come Alfredo Molano, c’è pure un militare. Le verranno presentati casi: noi come ambientalisti le porteremo un caso per il riconoscimento della natura come vittima del conflitto armato.

Ci sono organizzazioni sociali che non credono al lavoro del Centro Nazionale, ma stanno ugualmente facendo un loro percorso di ricostruzione della memoria. A volte è più importante il lavoro di base di quello della commissione statale. Il lavoro della memoria è un lavoro in cui è coinvolta gran parte della popolazione colombiana da molti anni e ci saranno molte verità diverse e molte memorie che emergeranno.

Qualcosa caratterizza in modo particolare i negoziati con l’ELN?

Per l’ELN la sfida è creare una maggiore partecipazione della società civile all’interno del negoziato. Ci sono state forme di partecipazione anche con le FARC, ma l’ ELN le ha richieste esplicitamente. Ci sono state udienze aperte in cui diverse parti della società colombiana hanno spiegato come dovrebbe essere questa partecipazione. La sfida è come costruirla rispetto alla presa delle decisioni.

L’ELN non ha parlato di temi di negoziato ma forme di negoziato. Una forma l’ha identificata nella partecipazione più attiva della società civile.

All’interno del conflitto colombiano la dicotomia città/campagna è sempre stata centrale e non è un caso che, mentre nelle campagne il referendum di Santos ha visto la stragrande maggioranza firmare per il SI l’accordo di pace, così non è stato nelle città. Vale lo stesso discorso per la lotta all’estrattivismo?

In generale direi che la gente della città è molto estranea a quello che succede in campagna, e il referendum lo ha dimostrato. Ma si può dire che i processi di lotta contro l’estrattivismo stanno aiutando a superare questa distanza. Ci sono processi interessanti, ad esempio ad Ibaguè, città nel dipartimento di Tolima. Lì le associazioni ambientaliste si sono impegnate in una lotta assieme a studenti maestri e collettivi universitari contro una impresa mineraria e sono riusciti a costruire un ponte importante tra la campagna, dove ha luogo il progetto, e la città. Sono riusciti a mobilitare 120.000 persone durante una marcia che ha luogo ogni anno il 5 giugno.

Analogamente nella città di Bucaramanga si sta lottando contro un altro progetto di estrazione mineraria e anche lì ci sono state connessioni tra città e campagna in difesa del territorio. L’estrattivismo ha, paradossalmente, creato questi vincoli. La gente delle città vede ancora la campagna in modo strumentale come uno spazio che ti offre beni di consumo quali acqua e viveri, tuttavia anche se ancora in questa forma strumentale almeno un contatto si è creato. A Bucaramanga si è creato un festival in connessione tra attivisti di campagna e di città, in questo festival si sono creati mercati contadini, dibattiti e molto altro.

Cosa intendi per mascolinizzazione del territorio?

In gran parte dei territori dove ha luogo il conflitto per la terra si può dire che il territorio si mascolinizza. Il territorio si distrugge, si inquina, si deviano i fiumi se l’acqua serve alla miniera, si occupa lo spazio e lo si devasta. Nel territorio arrivano centinaia di uomini che lo occupano, che violentano le donne. Queste sono situazioni per certi versi molto più pericolose dello stesso conflitto armato. La gente ha perso il controllo del territorio, ha perso il controllo delle proprie risorse. Comunità e villaggi vedono riempire il territorio da persone straniere e hanno visto i propri corpi violentati. Questo noi la chiamiamo mascolinizzazione del territorio.

Vi è una lettura femminista rispetto al tema della mascolinizzazione del territorio?

Noi donne di Censat e altre organizzazioni territoriali abbiamo creato una Scuola di Donne, organizzata in forma itinerante per il paese. In questa scuola è nato il dibattito sulla mascolinizzazione. In questo contesto c’è stata una riflessione comune anche con donne di altri paesi. Nel 2016 abbiamo parlato con Berta Caceres e altre donne del continente. Le donne latinoamericane lo vedono un fenomeno chiaro e diffuso. La lotta per la difesa del territorio è antipatriarcale anticapitalista e antirazzista perché si uniscono in un insieme di lotte contemporanee che diventano più profonde e importanti all’interno del modello estrattivista.

Come si pongono i gruppi guerriglieri davanti al problema dell’estrattivismo e alle lotte territoriali che lo contrastano?

Anche se non si è spinto a criticare il modello estrattivista, nel discorso che Timochenko (leader delle FARC, ndr) ha fatto quando sono iniziati i colloqui con il governo,  ha comunque menzionato le lotte territoriali che si stanno portando avanti nel paese. Ad alcuni non è piaciuto, si sono sentiti strumentalizzati perché le FARC non sono state mai particolarmente legate alle lotte territoriali contro il modello estrattivista. Tuttavia credo che ci sia una sensibilità maggiore anche se non si comprende ancora la nostra lotta.

L’ELN teoricamente è più vicino a queste battaglie perché ha sempre avuto come bandiera la lotta per la sovranità sui beni naturali.  Tuttavia sovranità non vuole dire necessariamente lotta per difesa del territorio. Per loro nel territorio c’è gran parte del proprio processo di accumulazione politica, anche se non lo riconoscono ancora.

Per quanto riguarda le FARC, alcuni dei loro quadri credono ancora che lo sfruttamento massiccio delle risorse naturali possa portare nuova ricchezza che contribuisca alla pace. Credono ancora all’idea sviluppista che per tanto tempo ha fatto da padrone a sinistra: l’idea che lo sviluppo possa generare ricchezza che si può distribuire. C’è molta ignoranza perché non conoscono ancora il tema, anche se c’è apertura ad ascoltare. Bisognerà vedere cosa accade nei prossimi anni.

Le grandi mobilitazioni in Ibaguè e Bucaramanga hanno obbligato le organizzazioni guerrigliere a porsi delle domande, “perché così tante persone si mobilitano per la difesa di un fiume, una foresta o una palude?” Le mobilitazioni più forti in Colombia oggi sono per la difesa del territorio. I gruppi guerriglieri sono stati costretti ad avvicinarsi a quelle lotte.

Le lotte contro l’estrattivismo hanno una dimensione reticolare in America Latina o non ancora?

C’è una articolazione continentale. Ci sono varie reti come l’Osservatorio sul Conflitto Minerario, oppure  il Movimento Antiminero di Mesoamerica, mentre contro il petrolio c’è l’OIGUA che include i paesi del sud, che dibatte sulla necessità di non estrarre dal sottosuolo. C’è molta solidarietà contro il modello estrattivista perché sta colpendo tutto il continente.