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Una città che brucia ancora

“Genova macaia” di Simone Pieranni è un viaggio sentimentale nella città ligure che dalla propria infanzia nella periferia di Bolzaneto fino alle piazze del luglio 2001 riannoda i fili di una memoria interrotta insieme personale e politica.

Il peggiore dei contrappassi suona come la notifica quotidiana del fallimento che porta il nostro tag: «I signori nessuno degli anni Novanta oggi ci spiegano come va il mondo». In «Genova Macaia» (Laterza Contromano, 156 pagine, 14 euro) Simone Pieranni racconta una scena che hanno vissuto in molti. L’autore sta scendendo, assieme a migliaia di persone, assieme a tutti noi, lungo via Tolemaide, la strada che costeggia la stazione Genova Brignole. È il 20 luglio del 2001. Scorge, scorgiamo, delle colonne di fumo che si alzano dalla città, più in basso, dove il corteo immenso è diretto. Sta avvenendo quello che ha immaginato per mesi, forse per più di un anno, da quando una generazione si è messa a lavorare sul G8 per regolare i conti. Quel fumo nero che si alza all’orizzonte è portatore di paranoia ma anche di entusiasmo. Perché la città che brucia, anche se è la propria città, ha un fascino inconfessabile. «Mi stavo chiedendo – racconta Pieranni – se il mio corpo sarebbe stato disposto a tanto, a buttarsi in quel cazzo di fuoco che da lì a poco sarebbe divampato». Un contributo all’elaborazione, evidentemente mai avvenuta, di quelle giornate, sta in questo libro. Nella paura e nell’adrenalina per la città che brucia, nell’evento che non ci aspettavamo ma che avevamo preparato.

«Salite da sudare, discese da controllare, parole, parole da buttare». La Genova di Pieranni è un viaggio faticoso e pieno di imprevisti, raccontata con l’approccio giusto, ponendosi al tempo stesso dentro la scena e fuori dalla dimensione locale. Quando, nel corso del suo Viaggio in Italia, Guido Piovene arriva nel capoluogo ligure, descrive una città «fatta a compartimenti stagni». Le pagine genovesi di Pieranni cercano di oltrepassare la tenuta stagna dei diversi ambienti, di sconfinare e aggirare barriere. Avviene anche attraverso l’uso di diversi punti di vista. La città e le sue storie emergono dalla voce di Simone, di suo padre, della nonna e del fratello di suo padre. Personaggi che avevamo già trovato in Settantadue, il Quinto Tipo che era una specie di prequel di questo libro. Lì, raccontando le dialisi e la vita vista da un lettino di ospedale, qui tornando nella città dal quale assieme a tantissima gente è fuggito dopo l’orrore del G8. Andando il più lontano possibile: in Cina. Con lo stesso sguardo ironico e dolente, le stesse «espressioni argute e icastiche» che Piovene ascoltava sessant’anni fa con la coda dell’orecchio camminando per i carruggi. Ne annotò alcune: «Smilzo come un pizzicotto, ha una faccia che fa starnutire, aveva lo sguardo di un gatto rimasto sotto il tram, sembra una frittella buttata nell’olio freddo». Pieranni se ne fa sfuggire di altrettanto gustose, come quel «bar dal caffè bruciato, dove persino le tazzine sembrano stanche».

 

La storia comincia e finisce in un luogo preciso, la stanza degli orrori posta all’inizio del corridoio degli Anni Zero: Bolzaneto. Il quartiere delle origini è quello della macelleria messicana. Simone Pieranni scopre che i luoghi della sua formazione sono i luoghi della barbarie, spazi familiari possono diventare all’improvviso la fonte di ogni incubo e il simbolo della sconfitta. Si prende la briga di ricostruire, seguendone i processi e mettendo in fila le torture facendo il pendolare al contrario. Diventa giornalista, scopre la sua professione, proprio riannodando i fili delle storie passate al setaccio della procura. La rampa che conduce dalla casa di periferia a Genova e da Genova al mondo, la sopraelevata che taglia il centro di Genova e che rappresenta una città stretta tra il mare e i monti, diventa il luogo topico, lo spazio che attraversa la città che a Pieranni sembra «un drago maestoso e preoccupato», come scrive disegnando le mappe della città dal punto di vista della città che doveva aver vissuto suo padre. Da animale cacciatore, nei fasti del Medio Evo, Genova è diventata preda. Terra di bottini, trascurata e ignorata come dicono i genovesi nei loro mugugni proverbiali contrappuntati da momenti di rabbia e di rivolta: la Resistenza, i ragazzi colle magliette a strisce del 1960, forse anche il maledetto G8.

Di tutte le merci che arrivano al porto, che transitano per Genova, qualcosa rimane, qualche briciola cade dal tavolo, perché i camalli avevano l’abitudine di prendersi un souvenir, una specie di dazio e perché l’indotto di ladruncoli della legera viene considerato alla stregua di un rischio calcolato. Fin quando non arrivano i container di nuova generazione, quelli sigillati e inaccessibili, e finisce un’epoca. Resta il clima disilluso e la frase tormentone, speranza malinconica e appiglio autoironico: «Il Genoa quest’anno si salva?». Risposta del babbo: «Se arriva un’epidemia e muoiono tutti gli altri, sì». La colpa, diceva Gianni Brera, è proprio della macaia, la cappa di vento caldo e umido che porta melanconia. Scrive ancora Pieranni, ridiscendendo via Tolemaide nel luglio del 2001: «Ci stavo bene lì in mezzo, con tutte quelle persone che rappresentavano il mio orizzonte sociale; persone di cui mi fidavo, di cui mi fidavo ciecamente e non mi sarei mai più fidato così tanto in vita mia. Questa parte giusta di popolazione è stata annientata, prima fisicamente, poi moralmente, in una ricostruzione che si è colorata via via di tinte complottistiche per arrivare a essere una specie di ricordo per ‘sopravvissuti’».

Non c’è quasi mai il mare in questo libro, anche se Genova tutta intera, oltre i compartimenti stagni, si vede solo dal mare. Ma a Bolzaneto Simone neanche sapeva che fosse tanto vicino, il mare. Il genovese si rifugia nella sua storia, si immerge nelle zone grigie del centro storico e Sottoripa, assiste alla gentrification cominciata con le Colombiadi, quando la conquista dell’America celebrò mezzo millennio. Anche se c’è poco da festeggiare: nel 1492 la conquista di nuovi mercati indebolì quelli vecchi: Cristoforo Colombo non portò bene a Genova. Negli anni Novanta, in ogni modo, ci si accorge che il liberty di piazza De Ferrari e delle vie commerciali diventa appetibile al posto del centro storico, ancora considerato oscuro e poco raccomandabile. Le pieghe della storia prendono strani percorsi. Pieranni si scopre inossidabile come la sua città coi suoi saliscendi: «Genova sa essere inflessibile, nasce nella sua stessa difesa e si allarga per continuare a difendersi», scrive. Scoprendosi d’un tratto quando non te lo aspetti, rischi quasi che ti sfugga quando rivela la formula magica: «Il segreto non è prevedere il futuro ma farsi sempre trovare pronto».