approfondimenti
MONDO
Cisgiordania sotto attacco: un reportage sulla resistenza palestinese
È in atto un attacco in Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano come non si vedeva dai tempi della Seconda Intifada, nel 2002. Jenin e Tulkarem, centri della resistenza palestinese, sono stati presi come target, andando a distruggere buona parte dei servizi e dei beni di prima necessità, come acqua, elettricità
L’occupazione illegale israeliana della Palestina è un processo sociale, politico, economico che dura da 76 anni. Dal 7 ottobre 2023 l’attenzione internazionale è aumentata su questo processo. La stampa mainstream italiana verbalizza, identifica e visualizza perfettamente le vittime israeliane. Le vittime palestinesi, ben più numerose, sono numeri, passivi e impersonali. Gli accordi di Oslo, definiti da Edward Said come la Versailles Palestinese, rappresentano una svolta storica imprescindibile per poter comprendere la storia recente della Palestina. Rappresentano un processo di espropriazione, all’interno di un progetto di controllo e di disciplinarizzazione delle vite palestinesi.
Il 26 gennaio 2024 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha chiesto a Israele di fare tutto il possibile per «prevenire possibili atti genocidari» nella Striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari. La comunità internazionale occidentale, a un anno dall’inizio della guerra a Gaza, è inerme. Per lo stato sionista, la Palestina rappresenta un nemico “esistenziale”. Il principio sul quale si fonda lo stato sionista era quello della forza, considerata unica possibilità di crescita e di autodeterminazione, anche dal punto di vista della narrazione. Basti pensare a come la strategia del noi, inteso come popolo ebraico abitante la terra palestinese, contro il loro, il mondo circostante, specialmente quello arabo, sia dirimente ancora oggi, basandosi su una narrativa anche leggendaria.
Pensiamo al mito di Masada, mito fondativo negli anni della formazione dello stato israeliano, che venne ripreso dagli intellettuali sionisti come simbolo della forza d’animo del popolo ebraico e venne esplorato per la prima volta da spedizioni semi-clandestine dopo che era rimasto abbandonato per secoli.
Nel periodo in cui ero presente in terra palestinese, tra l’ultima decade di agosto e la prima di settembre, sono sopraggiunti diversi eventi importanti. L’attacco in Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano come non si vedeva dai tempi della Seconda Intifada, nel 2002. Jenin e Tulkarem, centri della resistenza palestinese, sono stati presi come target, andando a distruggere buona parte dei servizi di beni di prima necessità, come acqua, elettricità.
Congiuntamente quest’operazione, chiamata in maniera cinica “Operazione campi estivi”, ha causato un elevato numero di morti, tra cui civili, come una ragazza di soli 13 anni, colpevole di essere affacciata alla finestra della propria abitazione. C’è stato l’attacco condotto da una persona giordana al confine tra Giordania e Cisgiordania (controllato inevitabilmente da Israele), che ha causato la morte di tre soldati israeliani. La guerra genocidaria a Gaza è continuata, senza nessuna tregua.
E poi c’è stata la morte di Aysenur, attivista turco-americana legata all’organizzazione ISM, International Solidarity Movement. Era al suo primo giorno sul campo. Anche io ero parte di ISM, ma non ho mai avuto il piacere di incontrarla. È stata ammazzata a Beita, vicino Nablus, a nord di Ramallah, durante una manifestazione, che si tiene ogni venerdì in questa località. Brutalmente uccisa da un cecchino, colpita in piena testa. Il foro è fuoriuscito, portandosi via organi interni al cervello. 26 anni, era sposata.
Partiamo da qui. Per disegnare una piccola finestra su quello che accade nella zona meridionale della Cisgiordania, a sud di Al-Khalil, nell’area di Masafer Yatta.
Masafer Yatta
All’inizio degli anni ’80, l’esercito israeliano dichiarò un’area di circa 30.000 dunam [3.000 ettari] nelle colline meridionali di Hebron, nota come Masafer Yatta, una zona militare limitata e la soprannominò “Firing Zone 918”. All’epoca, decine di famiglie palestinesi vivevano nell’area, da prima che Israele occupasse la Cisgiordania nel 1967. Vivevano in 12 piccoli villaggi, in grotte naturali o artificiali, alcuni tutto l’anno e altri solo stagionalmente, e si guadagnavano da vivere come agricoltori e pastori. Dopo che la loro casa è stata dichiarata zona militare chiusa, le famiglie hanno continuato a condurre la loro vita per lo più indisturbate. Tuttavia, tra l’ottobre e il novembre 1999, l’esercito ha espulso tutti i circa 700 residenti di queste comunità con la motivazione ufficiale che vivevano in maniera illegale all’interno della “firing zone”.
In seguito all’espulsione, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e l’avvocato Shlomo Lecker hanno presentato istanza all’Alta Corte di Giustizia (HCJ) per conto di 200 famiglie di Masafer Yatta. Nel marzo 2000, l’HCJ ha emesso un’ingiunzione provvisoria che permetteva agli abitanti del villaggio di tornare alle loro case e di coltivare la loro terra in attesa di una sentenza sul caso. Il tribunale ha incoraggiato le parti a tenere un processo di arbitrato, condotto dall’ex- capo dell’Amministrazione civile, il generale di brigata (ris.) Dov Zadka. Durante l’arbitrato, Israele ha offerto di spostare gli abitanti del villaggio in un’altra area, molto più piccola, a sud della città di Yatta. Gli abitanti del villaggio hanno rifiutato l’offerta e il processo si è concluso all’inizio del 2005.
Le petizioni degli abitanti del villaggio sono rimaste aperte per anni e solo il 19 luglio 2012, dopo aver ripetutamente richiesto rinvii, Israele ha presentato la sua posizione aggiornata all’HCJ. Nella sua dichiarazione, lo Stato ha annunciato l’intenzione di demolire otto delle 12 comunità all’interno della “firing zone”, che all’epoca ospitavano più di 1.000 persone (Khirbet al-Fakhit, Hirbet al-Halawah, Khirbet al-Majaz, Khirbet al-Markez, Khirbet a-Safai al-Foqa, Khirbet a-Safai a-Tahta, Khirbet a-Taban, Khirbet Jenbah, Khirbet Khilet a-Dabe’). Lo Stato ha dichiarato che avrebbe permesso ai residenti di continuare a lavorare le loro terre all’interno della “firing zone” durante il fine settimana, nelle festività ebraiche e in due mesi non consecutivi all’anno.
Nel gennaio 2013, l’ACRI e l’Att. Lecker hanno presentato nuove istanze per conto dei residenti. Anche in questo caso, l’HCJ ha emesso un’ingiunzione provvisoria che vieta allo Stato di espellere i residenti. Nell’ultima udienza di queste petizioni, il 10 agosto 2020, lo Stato ha ribadito quanto sostenuto negli anni, ovvero che i firmatari non erano residenti permanenti nell’area quando è stata dichiarata “firing zone” e quindi non avevano il diritto di continuare a vivere nelle loro case. Sebbene l’ingiunzione provvisoria, rimasta in vigore nel corso degli anni, vietasse a Israele di espellere i residenti, il lungo procedimento ha di fatto bloccato le loro vite per oltre 20 anni.
Hanno continuato a vivere nelle loro case e a lavorare la loro terra, pur vivendo sotto la costante minaccia di demolizione, espulsione ed esproprio. Allo stesso tempo, Israele ha negato loro qualsiasi possibilità di costruzione o sviluppo. Non avendo altra scelta, i residenti hanno costruito case senza permessi e infrastrutture per le loro necessità quotidiane. L’Amministrazione civile ha risposto emettendo ordini di demolizione e, in alcuni casi, demolendo le strutture e confiscando le infrastrutture. Dal 2006, l’organizzazione non governativa B’Tselem, ha documentato la demolizione di 66 strutture residenziali in queste comunità, che ospitavano 553 persone, di cui 175 minori. Ha inoltre documentato la demolizione di 32 strutture non residenziali in queste comunità dall’inizio del 2012.
All’inizio di maggio 2022, l’HCJ ha respinto le petizioni, dopo aver accettato ogni singola argomentazione dello Stato. Scegliendo i fatti e basandosi su un’assurda interpretazione legale, i giudici hanno ritenuto che le petizioni debbano essere respinte in toto, poiché sono state presentate molti anni dopo la dichiarazione della “firing zone” e poiché i firmatari si sono presentati in tribunale «con le mani assolutamente sporche», avendo costruito strutture senza permessi nel corso degli anni. Inoltre, i giudici hanno ritenuto che i firmatari non fossero «residenti permanenti» dell’area prima che fosse dichiarata zona di tiro e hanno respinto la petizione. Così facendo, hanno permesso allo Stato di espellere immediatamente i residenti e distruggere le loro comunità.
At-Tuwani
At-Tuwani è un piccolo villaggio a sud di Al-Khalil (conosciuta anche come Hebron). È circondata da colonie, in particolare dall’avamposto illegale di Havat Ma’On, dal quale i coloni portano a pascolare il proprio gregge sule terre palestinesi, spesso scortati e protetti dai coloni-soldato, con l’obiettivo di distruggere gli alberi d’ulivo e le piante presenti.
Nel villaggio di At-Tuwani è presente una famiglia che guida la resistenza in maniera non violenta. La loro storia è ampiamente documentata, anche con strumenti cinematografici. A tal proposito raccomandiamo la visione dei film Tomorrow’s land e Sarura, entrambi diretti dal regista Nicola Zambelli, che trattano la decennale lotta di questa famiglia all’interno di questi territori. La repressione è quotidiana, con incursioni più o meno violente, il tutto con la connivenza o, spesso e volentieri, con il supporto dell’esercito israeliano. Tra le attività delle organizzazioni solidali internazionali (ma anche gruppi israeliani solidali), vi è l’accompagnamento dei pastori durante l’attività di pascolo. All’interno di queste situazioni, molto spesso ci si imbatte in violazioni da parte dei coloni. La nostra attività è chiamata interposizione non violenta, e consiste nel documentare i soprusi.
Gli episodi sono sempre controversi e diversi. Un giorno eravamo al pascolo con uno degli abitanti di At-Tuwani, quando all’improvviso sono arrivati due soldati coloni che hanno dichiarato l’area come “closed military zone”. Alla nostra richiesta di documentazione comprovante questo improvviso cambio di scena, i soldati hanno dapprima chiamato l’esercito e successivamente ci hanno messo in detenzione, che consiste nel costringere le persone a star ferme in un posto senza aver il diritto di muoversi. Questa misura può durare fino ad un massimo di tre ore. Allo scadere delle tre ore, può scattare l’arresto, il quale tende ad avvenire ben prima delle tre ore.
Alla fine ci hanno rilasciato poiché evidentemente non avevano con sé la documentazione necessaria. Un altro episodio avvenuto nel medesimo luogo ha riguardato un’invasione di coloni con il loro gregge nelle terre della famiglia palestinese, il conseguente arrivo di un soldato settler che arbitrariamente ha deciso i confini dentro i quali potevamo stare, contravvenendo alla documentazione attestante i reali confini. Al nostro contrapporci a questa decisione totalmente arbitraria, il colono ci ha indicato come persone afferenti al nazismo, intimandoci a tornare nei rispettivi paesi d’origine.
Questo episodio ci ha colpito molto poiché evidenzia un totale capovolgimento del reale, di fronte al fatto che una persona armata decide sul momento quali siano le dimensioni di un territorio di qualcun altro, attribuendo a una persona che lo sta filmando e non armata, che il nazista sia quest’ultimo. Di situazioni del genere capitano tutti i giorni e dànno il polso di come la propaganda sionista si muova scientificamente all’interno dei territori occupati (oltre che in territorio israeliano).
Um a-Durit
Um a-Durit fa parte di quell’insieme di villaggi che compone la zona di Masafer Yatta.
In particolare ISM in questo momento supporta una famiglia numerosa, la cui abitazione sorge di fronte a un outpost, ovvero una colonia che risulta illegale persino per la legge israeliana. Durante l’autunno del 2023, post 7 ottobre, i coloni hanno distrutto completamente la loro abitazione. Nonostante questo, con grande caparbietà, sono tornati e hanno ricostruito le abitazioni. Di fronte alla loro dimora, l’outpost continua a crescere, giorno dopo giorno.
E insieme a questa continua invasione visiva, una parte del territorio antistante la casa della famiglia palestinese, è stata persa. Durante il giorno e la notte ci sono diversi tipi di attacchi, che vanno a costruire una fase di terrore costante all’interno della vita quotidiana di questa famiglia. Gli avamposti sono comparsi dopo il 1993, quando il governo israeliano si impegnò, con l’Accordo di Oslo I, a congelare la costruzione di nuovi insediamenti, nel tentativo di creare un quadro che portasse alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
Secondo il rapporto Sasson del 2005 – commissionato dall’allora primo ministro Ariel Sharon – le autorità pubbliche israeliane hanno svolto un ruolo importante nella creazione e nello sviluppo degli avamposti, nonostante non fossero ufficialmente sostenuti dal governo.
Il rapporto considerava quattro caratteristiche di un avamposto non autorizzato:
1. Nessuna approvazione governativa per la sua creazione
2. Costruito senza uno stato di pianificazione legale o un permesso
3. Non è collegato a un insediamento già esistente
4. Tutti gli insediamenti costruiti dopo gli Accordi di Oslo.
Secondo Peace now, un movimento israeliano di advocacy per la pace, delle 365 colonie presenti all’interno del territorio della Cisgiordania, ben 218 risultano essere degli outpost.
Susiya
Il villaggio palestinese di Khirbet Susiya esiste nelle colline meridionali di Hebron sin dagli anni Trenta del XIX secolo. I suoi abitanti si sono tradizionalmente guadagnati da vivere con la pastorizia e la coltivazione degli ulivi. Nel 1983, l’insediamento israeliano di Susiya è stato fondato vicino al villaggio, su terreni palestinesi che erano stati dichiarati terra di Stato da Israele.
Nel 1986, circa 25 famiglie vivevano a Khirbet Susiya, in grotte e strutture. Quell’anno, l’Amministrazione civile dichiarò la terra del villaggio «sito archeologico»; la terra fu confiscata «per scopi pubblici» e l’esercito israeliano espulse i residenti dalle loro case. Non avendo altra scelta, le famiglie si sono trasferite in altre grotte della zona, in rifugi e tende con strutture di legno inconsistenti che hanno eretto su terreni agricoli a poche centinaia di metri, a sud-est del villaggio originale e del sito archeologico.
L’esercito ha espulso nuovamente i residenti diverse volte, l’ultima nel luglio 2001, poco dopo che i palestinesi avevano ucciso l’israeliano Yair Har Sinai, un residente dell’insediamento di Susiya. Durante l’espulsione, effettuata senza preavviso, i soldati hanno distrutto le proprietà dei residenti, demolito le loro grotte e bloccato le cisterne d’acqua. Nel settembre 2001, a seguito di una petizione presentata dai residenti all’Alta Corte di Giustizia israeliana (HCJ) dall’avvocato Shlomo Lecker, l’HCJ ha emesso un’ordinanza provvisoria che vietava ulteriori distruzioni in attesa di una sentenza sulla petizione. Da un lato, hanno dovuto costruire case e strutture per il bestiame dopo che i militari avevano distrutto quelle precedenti; dall’altro, l’Amministrazione civile si è rifiutata di preparare un piano regolatore per il villaggio, che permettesse ai suoi abitanti di costruire case legalmente e di collegarsi alle reti idriche ed elettriche, e ha respinto le richieste di permessi di costruzione dei residenti. Agli abitanti di Khirbet Susiya non è rimasta altra scelta che costruire edifici temporanei e tende residenziali. L’Amministrazione civile ha poi emesso ordini di demolizione per le nuove strutture che, secondo la loro interpretazione, non erano coperte dall’ordine provvisorio.
Nel giugno 2007, l’HCJ ha deciso di archiviare la petizione, senza pronunciarsi. L’Amministrazione civile ha continuato a emettere ordini di demolizione per decine di strutture a Khirbet Susiya. Nel corso degli anni, i residenti hanno presentato ulteriori ricorsi. Ad oggi la situazione rimane sempre instabile, le persone palestinesi resistono lì, nel tentativo di vivere un’esistenza dignitosa. Durante la mia permanenza, sono stato ospite di questa famiglia che durante i mesi estivi decide di dormire fuori dalla propria abitazione per paura di attacchi da parte dei coloni durante le ore notturne. Infatti in passato hanno subito attacchi con petardi all’interno dell’abitazione. La paura è costante, specialmente durante l’attività del pascolo.
Zanouta&Anizan
I villaggi di Zanouta e Anizan si trovano leggermente fuori dalla zona di Masafer Yatta, nella parte più a sud della Cisgiordania. A fine ottobre i coloni, sfruttando l’impunità totale concessa dallo Stato occupante, ha distrutto entrambi i villaggi, che si trovano su due colline, una di fronte all’altra. Gli abitanti hanno condotto una battaglia legale presso l’HCJ, arrivando a un’insperata vittoria. Infatti la Corte ha dichiarato la legittimità al ritorno delle persone palestinesi presso quei territori. Vittoria di Pirro, poiché è stato concesso il ritorno delle persone ma non il diritto a ricostruire.
Inoltre i residenti di Zanuta e Anizan recentemente rientrati, sono stati nuovamente colpiti dalle forze israeliane con nuove pratiche coloniali. Tre settimane dopo essere tornati nella loro terra e nelle loro case, che erano state distrutte dai coloni, dopo aver subito attacchi quotidiani da parte dei coloni e molestie da parte dell’esercito, e dopo che è stato loro impedito di ricostruire le case distrutte o persino di erigere un recinto per il loro bestiame, i cittadini hanno ricevuto un ultimatum dall’Amministrazione civile israeliana. L’ordine dava agli abitanti del villaggio 30 giorni di tempo per accettare quella che definisce una “offerta” di trasferimento altrove, altrimenti le forze israeliane demoliranno le case già distrutte.
Si tratta di un’illusione di offrire una “soluzione” e di una copertura per mostrare alla comunità internazionale che il regime israeliano ha “buone intenzioni” offrendo soluzioni che i palestinesi in realtà non possono accettare. In realtà, il luogo alternativo “offerto” si trova nell’Area C contigua all’Area B della Cisgiordania, continuando così l’attuazione della ghettizzazione dei palestinesi in aree densamente popolate nelle Aree A e B. Inoltre, il luogo è circondato da avamposti con coloni estremamente violenti, mettendo i palestinesi a rischio certo di aumento della violenza dei coloni.
È fondamentale ricordare che i residenti di Zanuta sono stati sfollati con la forza dalla loro terra lo scorso novembre a causa della violenza dei coloni e sono tornati il mese scorso dopo che un tribunale israeliano ha stabilito che potevano farlo sotto la “protezione” dell’esercito israeliano.
Sara M. Roy, economista e studiosa politica americana, ricercatrice associata presso il Centro per gli studi sul Medio Oriente dell’Università di Harvard, con oltre 100 pubblicazioni sul tema della Striscia di Gaza, già nel 1987 elaborò il termine di “de-development”, ovvero di un processo che mina o indebolisce la capacità di un’economia di crescere ed espandersi, impedendole di accedere e utilizzare gli input critici necessari a promuovere la crescita interna oltre un determinato livello strutturale. A Gaza, il de-sviluppo del settore economico ha trasformato, nel corso di due decenni di governo israeliano, l’economia in un ausiliario dello Stato di Israele. Questo fenomeno negli anni è sempre più cresciuto, portando a una dipendenza economica totale della Palestina rispetto allo stato occupante.
Questa dinamica si è ulteriormente esacerbata dopo il 7 ottobre, con molte persone che hanno perso l’accesso al mercato del lavoro israeliano. Questo, insieme a una pervasiva violenza nell’area a ovest del Giordano, ha portato alcuni analisti a parlare di gazificazione della Cisgiordania. Come ha sottolineato il giornalista Amjad Iraqi in un’intervista al “Manifesto” nell’estate del 2023, siamo davanti a un “bantustan definitivo” che ha lo scopo di controllare e indebolire la popolazione nativa in uno spazio assediato, usando armi e tecnologie moderne, con governanti locali a gestire le loro necessità di base, a un costo minimo per la società coloniale che li circonda.
Tutte le immagini sono dell’autore
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno