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Cercasi Baruch disperatamente… Vermeer e Spinoza ad Amsterdam

La ricerca delle (scarse) tracce di Spinoza ad Amsterdam e l’epocale esposizione del suo gemello Vermeer al Rijksmuseum, con due avventurose ipotesi sui modi infiniti immediati e mediati del primo e sul rapporto tra finestra e luce nel secondo.

Con l’interramento tardo-ottocentesco dello Houtgracht e la conseguente creazione di Waterlooplein viene profondamente alterato quel pezzo di quartiere ebraico di Amsterdam dove si trovavano sia la casa natale di Spinoza che la sinagoga portoghese dove fu pronunciato lo herem contro di lui il 27 luglio 1656 e nel 1640 era stato scomunicato, crudelmente punito e riabilitato il subito dopo suicida Uriel da Costa – exemplar humanae vitae.  All’angolo della piazza, dove ora sorge una chiesa cattolica neo-classica, Mozes en Aäronkerk, succeduta a una coppia di luoghi di culto clandestini seicenteschi installati in edifici ebraici, era la collocazione più probabile della casa, tanto che sul selciato antistante è stata posta una targa o pietra d’inciampo con una frase del Filosofo. Del brutto monumento sul lato opposto della piazza meglio non parlare. Poi ci sono delle panchine tematiche che lo ricordano, ma in genere i riferimenti spinoziani espliciti sono rari e solo la Spinozastraat sull’ultimo canale centrale, il Singelgracht, lo cita. Ovviamente durante l’occupazione nazista era stato rinominata dal sindaco collaborazionista. Forse, però, le tracce del Filosofo ­ – che era ombroso e attento a cancellarle – vanno cercate nel dominio del materiale-impalpabile per eccellenza, la luminosità acquatica della città, che confluisce con i suoi canali e stagni nel mare e dove la luce esterna si accorda con quella interiore, lumen naturale che non ha nulla di trascendente, in quanto appartiene al Deus sive Natura

Un’immagine del quartiere ebraico di Amsterdam a inizio novecento.

Il quacchero William Ames, in missione di reclutamento in Olanda, scrive il 4 aprile 1657, poco dopo lo herem, a Margaret Fell, moglie del fondatore della setta George Fox e teorica dell’inward o inner light, purificatrice di ogni iniquità senza altra conversione esteriore: «C’è un ebreo ad Amsterdam che è stato espulso dagli altri ebrei, poiché non riconosce alcun altro maestro se non la luce». Spinoza, cui pure alcuni attribuiscono la traduzione in olandese di un opuscolo della Fell per la conversione degli Ebrei, restò sempre assai cauto sul carattere salvifico della luce interiore, popolare come innerlijke licht anche presso i suoi amici Collegianti e adottata con tonalità razionalistiche anche dal suo traduttore Balling nella Het licht op den kandelaar. Spinoza conosce perfettamente gli antecedenti mistici (l’esclar di Margherita Porete) e si tiene lontano dalle future derive pietistiche in termini di Hellsehen e clairvoyance. La sua è una luce naturale (“acquatica”, abbiamo detto) e il suo programma è illuministico, tutto a partire da una genealogia complessa che qui il caso di delineare con sintetica approssimazione e di mettere in parallelo con il vero equivalente materiale che abbiano trovato per Spinoza, i quadri di Jan Vermeer raggruppati temporaneamente per la grande mostra nel Rijksmuseum durante la primavera di quest’anno.

Nella tradizione tardo-antica e medievale (sia cristiana che arabo-giudaica) l’intelletto potenziale dei singoli uomini o della specie umana è attivato e illuminato dall’intelletto agente, luce emanata da Dio o figura indipendente spesso identificata con l’anima del cielo della Luna, il più vicino agli uomini, o in modo ancor più pop con un angelo specificamente addetto, che in genere è Gabriele, l’angelo dell’Annunciazione cristiana o, con nome arabo, Jibril, della Rivelazione profetica, quello che detta il Corano a Maometto. Non mancano equivalenti nell’angelologia iranica, armena ed ezida, per non parlare di tutte le varianti gnostiche. In Avicenna, oltre ad attivare l’intelletto, l’intelletto agente ha anche funzioni ontologiche come dator formarum. Insomma, progredendo nella formulazione del proprio pensiero l’approccio neo-platonizzante sbiadisce e con esso l’Angelo e le sue cento e cento ali così che ogni persona e cosa sia parte integrante della Sostanza e acceda dall’interno al suo movimento e alla sua luce, esperendo nell’attività quotidiana e nel moltiplicarsi delle relazioni gradi sempre maggiori di perfezione. 

E veniamo a Vermeer. Una discreta quota della sua esigua produzione è dedicata al tema all’Annunciazione. Con il piccolo dettaglio che mancano la Vergine e l’Angelo, sebbene il pittore, nato protestante, si sia plausibilmente convertito alla religione cattolica della ricca moglie Katharina. Dell’Annunciazione abbiamo lo schema rinascimentale e la scomparsa delle figure caratterizzanti segnale la completa laicizzazione del processo – parallela a quella constatabile nel coevo Spinoza. Non c’è Angelo-messaggero ma solo la sua luce, che entra rigorosamente dalla finestra in alto a sinistra, chiusa o socchiusa – la stessa del suo studio a Delft –, c’è il pavimento prezioso, di borghesi mattonelle a scacchi e non più sontuosamente marmoreo come in Simone Martini o in Sandro Botticelli, c’è una donna giovane in trepida attesa. A volte legge una lettera – il messaggio sostituisce il messaggero e d’altronde Gabriele è anche patrono dei postini –, a volte la sta scrivendo, altre volte aspetta e basta. È la perfetta ricezione, come il messaggero è luce disincarnata, che scende obliqua dall’alto, senza più bisogno di un’allegoria trascendentale personificata. Ricordiamo che, per avere luce in una camera (Spinoza, KV, I, dialogo fra Teofilo ed Erasmo), si apre una finestra che di per sé non fa luce, ma tuttavia permette che la luce entri in quella camera. Il pittore – che si muove nella Natura naturata con l’immaginazione* – tratta la condizione finita che rende possibile l’irruzione della luce, che sola appartiene alla natura immediata e infinita di Dio. L’Angelo non è più necessario, i committenti protestanti di Delft non si scandalizzeranno e Katharina, che gli consente di acquistare i preziosi pigmenti per i colori, se ne farà una ragione. Il gemello Baruch (nato nello stesso anno) era arrivato alle stesse conclusioni, prudenzialmente senza sposarsi dopo il fallimento con Clara a casa Van den Enden.

La targa dedicata a Spinoza ad Amsterdam, fotografia dell’autore

La donna in azzurro si accosta alla finestra per meglio decifrare una lettera, la donna con la collana si immerge nella calda luce che irrompe nella stanza, la tanto vista (ma solo per un mese in mostra) donna con turbante e orecchino di perla su fondo nero si volge di tre quarti allo spettatore. La lattaia e la merlettaia non valgono meno dell’astronomo o del geografo. Sono gradi di potenza. Spinoza, che non è mistico né aristotelico-tolomaico, tanto meno creazionista, conserva tuttavia una traccia fantasmatica del ruolo dell’intelletto agente in uno scritto giovanile, la Korte Verhandeling, I 9, 1-3, come attributo del pensiero, figlio, opera o immediata creazione di Dio (Zone, Maakel, of omniddelyk schepzel van God), affine in qualche modo al Cristo del Tractatus theologico-politicus I e IV e allo Spirito di Cristo, l’idea di Dio dalla quale soltanto dipende che l’uomo sia libero (Ethica IV, prop. 68 schol.). Nella sistemazione finale, che ancora risente di un approccio originario emanatistico, la funzione dell’intelletto agente è assimilabile con il modo infinito immediato dell’attributo Pensiero, cfr. Ethica I, prop. 20 e 21. Nell’epistola 64 a Schuller si specifica, con qualche vaghezza, che i due modi infiniti immediati sono l’intelletto infinito di Dio (per l’attributo Pensiero) e la coppia motus et quies, per l’attributo Estensione, il cui modo infinito mediato è l’immutabile, nell’infinito variare dei modi finiti, facies totius universi. Una buona immagine sintetica di quest’ultima potrebbe essere proprio la Veduta di Delft di Vermeer, il mondo sospeso nella camera oscura. Il modo infinito mediato del Pensiero manca, mentre quello immediato è ripreso in Ethica V, 40, schol.: «La nostra Mente, in quanto intende, è un eterno modo del pensare, che è determinata da un altro modo eterno del pensare, e questo a sua volta da un altro e così all’infinito; così che tutti insieme costituiscono l’eterno e infinito intelletto di Dio».

E sunque, alla fine, l’abbiamo trovato, Baruch, In una targa sul marciapiede di Waterlooplein, nei quadri di Vermeer, nei chioschi dove di mangia l’aringa cruda a pezzetti con la cipolla. Non sappiamo se Spinoza mangiasse l’aringa (che peraltro in Olanda era ed è difficile evitare), certo la cipolla la divorava, per l’esattezza la zuppa di cipolle e farro, sua cena abituale, che scandalizzava l’ospite Leibniz avvezzo a ben altri desinari di corte e “cene di lavoro” accademiche. In ogni caso, passeggiando in città e nel Vondelpark, navigando per i canali, sobriamente cibandoci e incantandoci davanti a Vermeer abbiano seguito le sue raccomandazioni: «Usare, dunque, delle cose e, per quanto è possibile, trarre [moderato] diletto da esse è dell’uomo sapiente […] ristorarsi e rinforzarsi con cibo misurato e gradevole e con bevande, così come anche con gli odori e l’amenità delle piante verdeggianti, con gli ornamenti, con la musica, con i giochi per l’esercizio del corpo, con gli spettacoli teatrali e con altre cose di questo tipo delle quali ognuno può servirsi senza alcun danno per l’altro. Il Corpo umano, infatti, si compone di moltissimi individui di natura diversa, che hanno bisogno continuamente di alimento nuovo e vario affinché tutto il Corpo sia in modo eguale adatto a tutte le cose che possono seguire dalla sua natura e, conseguentemente, anche la Mente sia egualmente adatta a intendere simultaneamente molte cose» (Ethica IV, prop. 45, sch.).  

*Sul ruolo produttivo dell’immaginazione in Spinoza e il suo rapporto con Vermeer cfr. D. Bostrenghi, Spinoza e Vermeer: note sull’immaginazione, in Imago in phantasia depicta. Studi sulla teoria dell’immaginazione, a cura di L Formnigari, G. Casertano e I. Cubeddu, Carocci, Roma 1999, pp. 217 ss., ID., Introduzione a Spinoza e la cultura del Novecento. Percorsi attraverso la letteratura e le arti, a cura di D. Bostrenghi, C, Santinelli e S. Visentin, Le Lettere, Firenze 2022, pp. VII-XIV, e R. Diodato, Vermeer, Gongora, Spinoza. L’estetica come scienza intuitiva, Bruno Mondadori, Milano 1997.

In copertina, un dettaglio de La donna con il collare di perle, 1664.