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Cercando “qualcosa di meglio”
Con gli strumenti della storia orale, in “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri”(ed. Pendragon), Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri raccontano la biografia partigiana di Otello Palmieri che, dopo aver partecipato alla Resistenza, viene ingiustamente accusato nel ‘48 di aver ucciso un ex fascista e fugge in Cecoslovacchia. Da lì comincia una peregrinazione in Europa, senza mai smettere di interrogarsi sul significato e le possibilità della Rivoluzione
Ormai da qualche decennio il racconto della storia dei “grandi uomini” ha ceduto il passo a ricerche su contesti e figure minori, nella consapevolezza che la Storia passa anche attraverso le loro storie. È questo il caso del libro Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri, dei due storici Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri. Un po’ come con Asce di guerra di Wu Ming e Vitagliano Ravagli, siamo qui di fronte a un “oggetto narrativo” costituito da un’indagine di microstoria che si è valsa degli strumenti della storia orale. In primo luogo, della voce dello stesso protagonista del volume: il non più giovane ma ancora lucidissimo Otello Palmieri.
Classe 1927, Otello Palmieri è originario di Oliveto, un piccolo paese dell’Appennino bolognese. Nel 1944, forse prima, forse dopo essere rocambolescamente fuggito da un rastrellamento nazista nel corso del quale vengono catturati (e in parte uccisi) più di 80 partigiani e simpatizzanti della Resistenzadella sua zona, Otello decide di «andare nei partigiani», unendosi alle file comuniste. Diventa così «Battagliero», soprannome dovuto non tanto a un’indole bellicosa quanto alla passione per il ballo (e il valzer emiliano più noto era proprio il Battagliero).
Ma le speranze di cambiamento, le aspettative per il futuro di Otello non si spengono il 25 aprile 1945: dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 pensa – prima di essere fermato dalle direttive del Pci – che sia giunto il momento della Rivoluzione e tira fuori le armi dai nascondigli in cui erano riposte da tre anni. Per questi fatti irrilevanti Otello Palmieri diventa uno di quelli «incolpati quando hanno attentato a Togliatti» (p. 24), nell’ambito di un generale “processo alla Resistenza” che, dopo l’estate 1948, vide un aumento imponente dei procedimenti giudiziari a carico di ex partigiani per fatti compiuti prima e dopo il 25 aprile 1945.
Nel 1949 Otello Palmieri viene così accusato pretestuosamente di essere autore dell’omicidio dell’oste di Oliveto, l’unico di tutto il paese a essere stato vicino al regime fascista, avvenuto nel dicembre 1945. Una presunta resa dei conti a otto mesi dalla Liberazione. Il Pci non lo lascia però nelle mani della “giustizia” dell’Italia democristiana e lo mette in salvo, facendolo fuggire clandestinamente in esilio in Cecoslovacchia. Otello è quindi uno dei 466 Uomini ex narrati già nel 1993 da Giuseppe Fiori che, come scrivono Mignini e Pontieri sono «”dimenticati anche un po’ dal partito” e da tutti, disillusi e sconfitti dalla storia anzitempo, gente per cui il muro di Berlino è caduto due o tre volte. Forse cinquanta, mezzo secolo di 1989» (p. 23).
È proprio nel racconto dei quattro anni in Cecoslovacchia che emerge uno dei cardini del volume: il rapporto tra l’aspettativa di Otello per un mondo diverso, più giusto, per la Rivoluzione, e la disillusione continua e ripetuta determinata dal confronto con la realtà. In Cecoslovacchia, infatti, Otello comincia a capire non solo che «non era il paradiso che pensavamo noi!» (p. 22), ma anche che «la rivoluzione non sarebbe mai venuta» (p. 104) neanche in Italia.
La disillusione di Otello si reitera talmente tante volte che è difficile anche per lui collocarla in un contesto o in momento preciso. Nel suo racconto, da un certo momento in poi si capisce che la Rivoluzione non si può più fare ed è indifferente se sia perché «la follia paranoica di Stalin ha preso il sopravvento ed è finito tutto» o perché «Stalin è morto, qualcuno ha cominciato a contestarlo, allora la rivoluzione non si faceva più», o per il mancato intervento dell’Urss in difesa della Grecia o addirittura già per le decisioni prese a Yalta nel febbraio 1945 (pp. 98-99). O, ancora, se sia in seguito alla repressione della Primavera di Praga del 1968, a proposito della quale Otello dice «E lì ho incominciato a pensare che le cose non andavano come… come pensavamo noi» (p. 159): il momento in cui il disincanto cessa di essere individuale e si fa collettivo. «Quante volte è tramontata l’ipotesi rivoluzionaria? Quante volte è tramontata per il partito e quante volte per lui?» (pp. 98-99), si chiedono significativamente Mignini e Pontieri.
Otello Palmieri però, ancora oggi, non si rassegna al fallimento dell’ideale:
«Perché subito dopo ci parla di ideali traditi, non di ideali sbagliati. Di noi e di loro, di militanti che ci credevano e di dirigenti che non erano veri comunisti. «Io penso che se fosse stata una cosa proprio come credavamo noi, fosse riuscita! Io penso! Che fosse riuscita! Perché ce n’era tanti ormai… oh, la Cina, la Russia, e-e-e poi ce n’era ancora eh! […] il fatto è che hanno rovinato lì… solo con una cosa sbagliata ’somma, non era vero! Eh!» (pp. 116-117)
Nel 1953 si chiude il processo per l’omicidio dell’oste di Oliveto: mancando le prove della sua colpevolezza, Otello può tornare in Italia. A casa. Ma si tratta di un ritorno che dura poco. Otello Palmieri si sposa dopo pochi mesi con la fidanzata Giovanna e, complice anche una situazione economica poco rosea, insieme decidono di emigrare in Svizzera. Le difficoltà economiche contano, certo, ma Mignini e Pontieri capiscono dalle sue parole che non si trattò solo di questo:
«Battagliero era uscito dalla guerra con la stessa foga di sperimentare, di costruire qualcosa di nuovo. Ma quello che vedeva crescere attorno a sé era sempre più distante dai mondi immaginati bisbigliando nelle stalle, nelle figne o al cimitero di Oliveto. E quando tornò dall’esilio, che la via intrapresa dal partito non fosse esattamente quella sperata era ben più palese di quando partì. […] La sua strada era altrove» (p. 135).
Ancora una volta è il rapporto tra aspettativa e disillusione a guidare le scelte e la vita di Otello Palmieri. Che cerca anche una realizzazione individuale, come operaio specializzato:
«Aveva ribadito che lui voleva fare un lavoro che mi piacesse, in cui si costruisce qualche cosa, o «qualcosa di meglio», come ci dice in un altro momento. Ci mettiamo un po’ a capirlo, ma arriva anche per noi il momento in cui tutto si fa più chiaro. Il suo modo di vivere il lavoro è quello tipico dell’artigiano, anche se per tutta la vita il suo contratto di lavoro lo inquadra come operaio. Per lui, come per un liutaio o un falegname, la soddisfazione c’è solo quando il cervello e la mano lavorano insieme per risolvere problemi sempre nuovi e applicare quelle soluzioni ad ambiti ogni volta diversi, utilizzando gli strumenti giusti o riadattati alla bisogna» (p. 162).
E questa realizzazione Otello sembra trovarla in Svizzera, che arriva a definire «il paese più socialista d’Europa». Qui Otello però smette di fare anche politica, anche se «“Io l’ho sempre pagata la tessera” [del Pci, ndr], […] “la tessera […] l’ho presa sempre, dopo ho preso il Pd”» (pp. 154-155).
È in questo tentativo di non rassegnarsi – nonostante sia impossibile anche per lui considerare il Pd un erede degli ideali rivoluzionari in cui credeva da giovane (ammira Renzi, ma non può non definirlo «un democristiano abbastanza preparato, però!») – che risiede probabilmente tutta l’esemplarità della vita di Otello Palmieri: la storia di una malinconia di sinistra recentemente raccontata in un bel volume dallo storico Enzo Traverso, cioè di quei dubbi che hanno esaurito i tempi dell’utopia. Mignini e Pontieri concludono il volume con parole che non potrebbero essere più significative:
«L’esperienza è il passato che vive nel presente, contribuendo a modellarlo. Ma anche il futuro vive nel presente e lo modella, sotto forma di aspettativa. Ci spinge a pensare che il futuro sarà migliore del passato e, soprattutto, ad agire per cambiare lo stato di cose presente. Il comunismo di Otello è stato questo, è stato vivere una vita strettamente e continuamente legata all’aspettativa. […] Tutto il comunismo inseguito da Otello, nel suo racconto, è contenuto nell’odio tremendo covato nelle stalle di Oliveto, nella paura durante il rastrellamento, nelle notti passate sepolti vivi all’addiaccio, nel riscatto dalla miseria. […] Ora che «è la fine», in un mondo che ha visto il trionfo degli «avversari», il vocabolario che strutturava quelle speranze sembra essersi perduto e lui, deluso dal partito ma non dall’ideale, racconta di un’aspettativa come fosse un’esperienza nascondendo, appunto, quanto spazio ha avuto il futuro immaginato nella sua biografia» (p. 189-190).