ITALIA
Cariche nell’hotspot di Lampedusa: breve storia di uno strumento di repressione
L’8 marzo una delle persone detenute nell’hotspot di Lampedusa ha ingoiato alcune lamette come forma di protesta per le condizioni in cui versa la struttura e per il fatto stesso di essere trattenuto. A seguito del mancato soccorso da parte delle autorità e nonostante le richieste provenienti dai suoi compagni, alcuni di questi hanno dato fuoco ad una parte della struttura
La polizia ha caricato violentemente i migranti all’interno dell’ hotspot compresi minorenni e nuclei familiari. In questo contesto, continuamente attraversato da forme di violenza nei confronti delle persone illegittimamente trattenute sull’isola, sono state picchiate e hanno riportato lesioni anche una giovane madre e la figlia di 8 anni, provenienti dalla Tunisia e giunte a Lampedusa quasi un mese prima. Tutta la famiglia ha chiesto asilo all’arrivo sull’isola ma, dopo quasi un mese di permanenza all’interno dell’hotspot non vi è traccia della formalizzazione della domanda né si ha notizia di un loro possibile trasferimento. Alcune associazioni presenti hanno denunciato ancora una volta l’atteggiamento intimidatorio e vessatorio delle forze dell’ordine, fornendo molti dettagli relativi a questo ultimo evento, per provare a catturare l’attenzione della stampa e di coloro che si apprestano a governare rispetto alla situazione lampedusana che va ben oltre il limite della dignità umana.
Per capire meglio questa vicenda occorre tornare indietro nel tempo e gettare uno sguardo sulle origini dell’hotspot di Lampedusa, sulla sua attuale funzione e sul rapporto strettissimo che lega Lampedusa e la Tunisia, paese di origine della maggior parte dei migranti che vengono trattenuti in questa struttura.
L’hotspot di Lampedusa è stato istituito presso l’ex CPSA (centro di primo soccorso e accoglienza) dell’isola, nell’ottobre 2015 a seguito dell’Agenda europea per le migrazioni, della Road map proposta dal governo Renzi e delle S.O.P. (standard operating procedures) predisposte dal Ministero dell’Interno in collaborazione con le agenzie europee come Frontex ed Easo ma anche grazie al contributo di agenzie intergovernative come Unhcr e Oim, per implementare quello che è stato chiamato “approccio hotspot”. Il grave paradosso che tiene assieme i suddetti documenti di orientamento, riguarda il fatto che nonostante nessuno di essi abbia valore di legge, la loro pubblicazione ha prodotto l’istituzione di strutture materiali, gli hotspot, e sancito modalità operative, l’approccio hotspot, volte all’identificazione della totalità dei migranti in arrivo e soprattutto alla loro selezione e classificazione nelle categorie dei “potenziali richiedenti asilo”, richiedenti asilo “ricollocabili” e “migranti economici”.
Abbiamo assistito, in questi due anni di operatività degli hotspot, sia in quanto effettivi centri di raccolta e primissima accoglienza successivi allo sbarco, sia in quanto metodo d’approccio alle migrazioni, a storture normative di vario genere, così come a sistematiche violazioni dei diritti umani, inadeguatezza delle strutture, atteggiamenti esplicitamente discriminatori e lesivi delle categorie più vulnerabili. Voci più o meno autorevoli si sono susseguite nelle denunce del sistema hotspot, in parte rimaste inascoltate, per non dire inserite nella giostra mediatica della campagna elettorale permanente di questo paese.
Tra le più gravi violazioni, è rilevante la modalità informale, pregiudiziale, sulla base della provenienza geografica, con cui avviene la “selezione” tra gli status giuridici dei migranti che arrivano negli hotspot. Forse è superfluo ricordare, ma è bene farlo per evitare la normalizzazione della dismissione del diritto d’asilo, che l’accesso alla richiesta di protezione internazionale e alla corrispondente procedura, prescinde assolutamente dalla nazionalità dei richiedenti.
Tuttavia, i cittadini tunisini, e in generale i nord-africani, sono sistematicamente considerati “migranti economici”, sulla base della loro supposta mancanza di volontà di richiedere asilo e di altrettanto presunte motivazioni economiche alla base della partenza. In altre parole, per le autorità italiane e per gli attori internazionali coinvolti nelle operazioni di sbarco e di gestione dell’hotspot, i cittadini tunisini, non hanno diritto, in via pregiudiziale, a chiedere protezione internazionale. Si tratta di una violazione talmente significativa della Convenzione di Ginevra che è bene insistere nella denuncia di questo meccanismo. Solo da poche settimane a Lampedusa i richiedenti tunisini riescono a formalizzare con più sistematicità la domanda d’asilo, che viene però sottoposta a procedure speciali e accelerate.
Per prassi, i cosiddetti migranti economici vengono trattenuti nell’hotspot o nell’isola di Lampedusa in attesa del rimpatrio, ostacolato da una serie di fattori e non di facile esecuzione. Le operazioni di rimpatrio sono infatti particolarmente complesse e molto costose e, soprattutto, intrinsecamente rese possibili dalla presenza di accordi di riammissione pregressi con il paese di origine che ne definiscono i termini e le modalità. Infatti, nel tentativo di far fronte alla situazione migratoria, il governo italiano, così come gli altri governi dell’Unione Europea, ha dato la priorità al raggiungimento di accordi bilaterali con i Paesi dell’Africa maggiormente coinvolti nel transito dei flussi migratori. L’obiettivo degli accordi di riammissione con i paesi extra Ue è quello di rafforzare e allontanare i confini europei, senza tener conto della qualità degli interlocutori che finiscono per essere anche regimi dittatoriali o addirittura milizie e gruppi criminali come nel caso della Libia e senza badare alla violenza che ne deriva per i migranti che intraprendono il viaggio verso l’Europa.
I buoni rapporti fra Tunisia e Italia facilitano sicuramente l’esecuzione regolare di un alto numero di rimpatri, effettuato sulla base dell’accordo fra i due paesi dell’aprile 2011, cui ne sono seguiti altri che hanno portato al finanziamento italiano di attività di supporto tecnico per il controllo delle frontiere tunisine, l’ultimo dei quali risale al febbraio 2017.
Alla stretta collaborazione fra i paesi corrispondono politiche di rimpatrio “efficaci”. Come mostrano i dati della Camera, nel 2017 sulle 15.096 persone rimpatriate dall’Italia, la Tunisia rappresenta la seconda nazionalità dopo l’Albania, con 1.401 cittadini rimpatriati fino a metà settembre. Ogni settimana partono due voli da Palermo, diretti all’aeroporto di Hammamet Enfidah, per un totale di circa 80 cittadini tunisini rimpatriati ogni settimana, molti dei quali arrivano direttamente da Lampedusa. Nel 2016 il numero dei tunisini rimpatriati ha addirittura superato il numero di quelli in entrata.
Detenere nell’hotspot e confinare nell’isola di Lampedusa molte persone di nazionalità tunisina consente al Ministero dell’Interno di realizzare con facilità i rimpatri – a discapito dei diritti – ed è per questo motivo che la popolazione dell’hotspot è prevalentemente tunisina e che l’isola di Lampedusa assume oggi sempre più una posizione strategica nell’ambito delle politiche di gestione e controllo delle migrazioni.
Lampedusa diventa quindi un laboratorio per l’attuazione di pratiche arbitrarie e spesso violente che costringono i migranti a rimanere anche per settimane nell’isola, con difficoltà nell’accesso alle procedure di asilo, senza assistenza legale, in una struttura fatiscente.
Le condizioni all’interno dell’hotspot sono state definite “indecorose e inaccettabili” dal Garante Nazionale per le persone private della libertà: le persone sono spesso costrette a dormire all’aperto, non vi sono porte nei bagni, non vi sono luoghi deputati ai pasti e si assiste spesso al prodursi di situazioni di grave insicurezza all’interno della struttura acuita mancanza di spazi specifici per le donne, i nuclei familiari e i minori non accompagnati.
L’uscita dal centro è possibile solo informalmente, grazie ad un “buco” nella recinzione. Ciò accade nonostante le ripetute dichiarazioni di polizia secondo cui il centro dovrebbe essere una struttura chiusa, in evidente contrasto con la legge che non prevede la detenzione finalizzata all’identificazione. Anche i documenti che descrivono il funzionamento degli hotspot non prevedono, tra l’altro, periodi di permanenza così lunghi nelle strutture. Come già detto gli “ospiti” rimangono nell‘hotspot per un tempo che può anche superare il mese. Il confinamento nell’hotspot è di fatto esteso all’intera isola di Lampedusa: sebbene infatti sia possibile l’uscita informale dalla struttura, i migranti non possono lasciare l’isola. Le compagnie di trasporto private richiedono infatti un titolo di soggiorno. Questo vale di fatto anche per i richiedenti asilo che per legge potrebbero invece muoversi liberamente su tutto il territorio nazionale.
Le dinamiche che attualmente caratterizzano l’isola di Lampedusa mettono in luce con grande chiarezza tanto l’arbitrarietà e la violenza intrinseche alle politiche migratorie italiane ed europee che hanno alimentato la vulgata razzista che ha accompagnato il voto del 4 marzo, quanto le forme di resistenza messe in atto e continuamente riprodotte dai migranti nei luoghi di confine, che si configurano quindi come spazi conflittuali e sui quali riflettere.
Ci associamo a chi chiede la chiusura immediata dell’hotspot di Lampedusa e riteniamo urgente alimentare una riflessione serrata sull’articolazione di queste tensioni, così come riteniamo necessaria la denuncia costante delle violazioni dei diritti dei migranti confinati nell’isola e la violenza strutturalmente incardinata nelle modalità di governo e gestione delle migrazioni oggi. Ed ancor più urgente diventano le pratiche di solidarietà e di incontro, capillari e molecolari, con le lotte di chi afferma il diritto a muoversi liberamente, a risiedere, a vivere con dignità.