cult
CULT
Cannes #2. Tra femminismo, ecologia e critica al capitalismo
Ripercorriamo i film che tra concorso e “Un Certain Regard” hanno segnato l’inizio del Festival del cinema di Cannes tra contestazione del sistema di razzismo e ineguaglianza del capitalismo contemporaneo (“Armageddon Time” di Gray), critica del climate change e del rapporto umano con l’ecologia (“Le otto montagne” di van Groeningen e Vandermeersch e “EO” di Skolimowski), fino ad arrivare alle rivendicazioni femministe proposte nell’opera prima di Quivoron, “Rodéo”
Il Festival del cinema di Cannes 2022 cade a due mesi dall’invasione russa in Ucraina, sotto il segno della guerra non solo per l’intervento del presidente ucraino Zelensky durante la cerimonia d’inaugurazione – che ha contribuito a rinforzare i venti di guerra dal lato occidentale –, ma anche per la presentazione di Mariupolis 2 del defunto Mantas Kvedaravičius, antropologo dottorato a Cambridge, professore all’Università di Vilnius e regista. Il documentario, presentato come proiezione speciale fuori concorso, è stato inserito all’ultimo momento grazie alla compagna Hanna Bilobrova, che era presente insieme al regista durante le riprese a Mariupol (dove il regista è stato ucciso mentre filmava lo scorso 2 aprile) e al montaggio di Dounia Sichov. Il tentativo di Kvedaravičius è stato quello di riprendere la lentissima, sfibrante temporalità che contrassegna le giornate di guerra, prese tra la ricerca di una quotidianità impossibile da ricostruire e la ripetizione di gesti essenziali sullo sfondo di altrettanto interminabili bombardamenti e spari che ne scandiscono il ritmo.
E, tuttavia, si affacciano in questo Festival anche altre questioni politiche di cui il cinema contemporaneo prova a dare conto. James Gray, con Armageddon Time, presenta un film di formazione autobiografica che punta a costituirsi – secondo la stessa dichiarazione del regista in conferenza stampa – come «una critica al capitalismo in quanto tale» e come un modo di contestare il «privilegio bianco». Il film si svolge nel Queens a New York nei mesi immediatamente precedenti all’elezione di Ronald Reagan attraverso la storia di Paul, un bambino molto intelligente che vuole fare l’artista da grande e si contraddistingue per la sua scarsa disciplina a scuola. Paul troverà in Johnny, un compagno di classe afroamericano che vive con la sola nonna disabile in condizioni di estrema indigenza, un alleato con cui osservare la realtà della società americana segnata da profonde differenze razziali e di classe. Se Johnny è tagliato fuori dalla società e dalla scuola perché poverissimo e nero, Paul, invece, può farsi forza sulla famiglia ormai pienamente americanizzata che ha cambiato il vecchio cognome ebreo-ucraino in un più accettabile “Graff” e che gli ha permesso di confermare l’ingresso pieno nella classe dei “migliori” – la stessa che gli permetterà di trasferirsi dalla scuola pubblica newyorchese degli anni ‘70 a quella privata, finanziata nientedimeno da Fred Trump e dalla figlia Maryanne. E a questo lignaggio, che rappresenta la genealogia del sistema neoliberale contemporaneo fondato su relazioni di dominio feroci, se ne accompagnerà un altro – quello dell’amore tra il nipote, Paul, e il nonno (impersonato da Anthony Hopkins), che insieme lanceranno un razzo-giocattolo da spedire in cielo a metaforizzare uno squarcio di speranza lì dove il sogno americano – così come il cinema della New Hollywood verso cui si volge l’omaggio nostalgico di Gray – sono ormai tramontati.
Di grande importanza è anche la questione ecologica che viene trattata indirettamente in Le otto montagne, film del concorso firmato da due registi belgi fiamminghi, Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con un intero cast italiano (la coppia Alessandro Borghi e Luca Marinelli e Filippo Timi, tra gli altri) in cui la storia di due fratelli d’elezione che si contendono un padre, biologico per l’uno e simbolico per l’altro, si staglia sul conflitto tra vita cittadina a Torino e vita tra le montagne valdostane di Graneis. Questo romanzo di formazione a due, basato sull’omonimo libro di Paolo Cognetti, si sofferma sul rapporto tra silenzio, montagna e reticenza maschile per opporsi a un’idea di natura come insieme esteriore da salvaguardare per ritrovare una connessione con entità singole determinate come ruscelli, montagne, colline, prati in un ritorno a una vita potenzialmente sotto il segno della decrescita che si scontra con l’avanzare dell’economia di mercato. Ancora più nitido, l’ultra-digitalizzato EO, diretto da Jerzy Skolimowski, ex esponente di spicco della New Wave polacca, che si cimenta in un film presentato all’altezza dei tempi dell’antropocene e dell’antispecismo. Rifacendosi esplicitamente al Bresson di Au Hasard Balthazar viene riproposto, sullo sfondo di un rosso allucinato dagli incendi che tutti gli anni divampano in California e Australia, il punto di vista di un asino che non solo passa di proprietario in proprietario, attraversando tutta l’Europa dalla Polonia all’Italia, ma che si fa osservatore antropomorfizzato della violenza degli uomini tra loro e sulla natura. Lo sguardo placido dell’asino si posa non solo sul circo, ma sulla macellazione degli animali, sul loro trasporto, sul loro abuso a fini di sperimentazione scientifica, per arrivare a osservare come una semplice partita di calcio in un paesino sperduto possa essere all’origine di uno scontro violentissimo e armato tra le due squadre contendenti. Questa descrizione della banalità (e della brutalità) del male dal punto di vista animale poggia sull’idea che alla base della devastazione della natura all’origine della crisi climatica ci stia un certo rapporto di soggezione tra ciò che viene considerato umano nei confronti di ciò che viene ritenuto non umano – che sia un regista di ottantaquattro anni a firmare un film che prende così chiaramente parola sull’antropocene mostra quanto questioni urgenti come questa siano diventate il centro della struttura del discorso ideologico critico contemporaneo, pur rimanendo inevase.
In un festival che ha visto un significativo aumento della presenza di registe donne (ma non ha comunque completamente placato le polemiche per un evento che rimane molto “maschile”), è nella sezione “Un Certain regard” che è passato il primo film apertamente femminista dell’edizione: Rodéo, l’opera prima, acclamatissima in sala, di Lola Quivoron, la cui sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con Antonia Buresi.
Il film si apre con una camera a mano che preme sui volti e sui corpi di due ragazzi che inseguono la protagonista, la strattonano, lei si divincola tra i ballatoi, prima di imboccare in discesa una scala per trovarsi all’aperto e continuare il litigio. Solo allora il campo si allarga e cogliamo che questa scena di violenza quotidiana si svolge all’interno di uno degli enormi edifici che punteggiano le banlieue francesi. Julia, protagonista del film interpretata da Julie Ledru, è una ventenne di origine guadalupana, che litiga e si difende con la stessa energia e aggressività di un ragazzo e si specializza in astute rapine di moto da cross per partecipare a rodei urbani illegali – che sono pratica comune nel sud della Francia. Potrebbe trattarsi di un Fast and Furious se non fosse che non si corre illegalmente ad alta velocità in macchina, ma il gioco sta nell’impennare senza casco con la moto il più a lungo possibile, esibendosi in figure. Ma non siamo neppure in Bande des Filles di Céline Sciamma, perché qui è la banda di donne a mancare e Julia è di fatto sola in un contesto esplicitamente maschile in cui si fa strada da sola (e con molti e gravi ostacoli) a forza di motori e intelligenza, riuscendo a farsi notare dal capo della banda di motociclisti da cross illegale al quale offre come merce di scambio il suo efficace sistema di rapinare potenziali venditori di moto. Julia è una ragazzina che mette in discussione non solo il suo genere – avendo avuto, come dice, «sempre una moto in mezzo alle gambe» – ma la stessa struttura patriarcale della periferia francese fino al punto di trovare un’inaspettata alleanza – quasi un principio di relazione – con la moglie del capo. Il ritmo del rap di XXXTENTACION (Look At Me!) e JB (Pistol Whip) si mischia con il rombo della moto – l’accelerazione e il freno, necessari a impennare – fino a suggellarsi in una scena di danza notturna che facilmente si richiama a Titane di Julia Ducournau (vincitore della Palma d’Oro del Festival del 2021). Rodéo, infatti, non solo si propone come un esemplare del cinema di banlieue – di cui offre una critica interna, guardando alle complicazioni dell’intreccio tra sesso, classe e razza – ma si avvicina liberamente a quei film che a metà tra rivendicazione di empowerment e fluidificazione di maschile e femminile stanno sempre più segnando il cinema femminista contemporaneo. Diversamente da Ducournau, Quivoron mostra tutte le difficoltà che si incontrano nel transitare la differenza tra generi e specie – come se si trattasse nel caso della sua protagonista di una fusione uomo-donna e donna-macchina che stenta a realizzarsi, per via delle rigide divisioni che la società impone. Il fuoco del desiderio si realizza nell’attimo del rodeo in moto per poi non trovare altra soluzione che non sia la strada.