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Cannes #4. Tra performance e scarti: “Crimes of the Future” di David Cronenberg
In “Crimes of the Future”, Cronenberg ritorna a un cinema del corpo per interrogarsi sulle possibilità dell’adattamento della specie umana all’ambiente sintetico, svelando le impasse in cui l’intervento politico e artistico rischiano di incorrere. Un film tecno-ecologico che propone soluzioni all’altezza del climate change e di un pianeta infetto
Che gli umani si adattino a fatica a questo ultimo stadio del capitalismo avanzato lo si vede dall’incidenza esponenziale di malattie gravi quali cancro e malattie autoimmuni, a cui spesso drammaticamente il progresso tecnico-scientifico non riesce a sopperire. Cosa è la vita nella fase di passaggio tra l’era antropocentrica e quella posteriore che ne determina un possibile superamento? Che forma potrebbe prendere il momento post-antropocentrico per la vita umana e non-umana? E, infine, in che modo il presente si apre a un futuro utopico o distopico che è già attuale, come se già vi fosse tutto contenuto in forma essenziale? Su questi temi che per David Cronenberg costituiscono un classico, dopo aver lui stesso fondato tra gli anni ’80 e ’90 la cinematografia cyborg e del body horror, torna Crimes of the Future, presentato al Festival del cinema di Cannes e accolto da 7 minuti di standing ovation al Grand Theatre Lumière. Non secondaria è la genesi del film, il cui titolo risale a un film ultra-underground del 1970 che il regista canadese aveva prodotto e la la cui sceneggiatura ha visto luce vent’anni fa – in parallelo all’uscita di eXsistenz nel 1999 e dopo lo choc di Crash nel 1996 – e che assume dei tratti attuali che lo rendono, per sua stessa ammissione, «quanto mai rilevante» oggi.
Il film, infatti, osserva l’adeguamento della specie umana a un ambiente non solo tecnologico, ma sintetico, in cui i corpi subiscono delle trasformazioni, al punto che l’interazione umano-artificiale produce delle escrescenze tumorali che prendono la forma di nuovi organi. In questa realtà cupa (rappresentata in costante penombra come nella sci-fi classica dove il futuro non ha mai luce) l’attaccamento prostetico degli umani all’oggetto tecnico si fa sempre più internalizzato al punto da prefigurare nuove forme di digestione, per esempio della plastica. Secondo Cronenberg, è sempre più frequente, il caso per cui «le persone si adattano alla loro malattia […] alla disabilità che hanno, alla mutazione che hanno», mediante un processo in cui a condizioni sfavorevoli, la tensione alla sopravvivenza diventa, evolutivamente, una transizione a uno stadio successivo. Così quegli stessi crimini che la specie umana compie contro la natura, e dunque anche contro se stessa, rappresentano anche l’apertura per un futuro possibile.
È questo il tipo di percorso di ricerca che intraprendono Saul Tenser (Viggo Mortensen) insieme a Caprice (Léa Seydoux) nel corso di performance corporee e video in cui lei opera tramite un computer che allude ai Da Vinci moderni sul corpo malato del primo, prima tatuando questi nuovi organi tumorali che si riproducono automaticamente e poi eliminandoli per escissione. In un mondo artistico in cui il corpo esiste come oggetto da incidere e scarnificare a livelli sempre più estremi non esistono più il dolore e il piacere che vengono costantemente contro-bilanciati tramite l’intervento di macchine utilizzate per dormire e per mangiare. «Surgery is the new sex» –ripete in refrain il film a segnalare che anche l’eventualità dell’incontro sessuale diventa impossibile in una società che si è fatta artificiale al punto dal farsi produzione (anche biologica) costante. Quello stesso step di transizione a cui è soggetto il performer Saul è già divenuto evoluzione pura nel corpo di un bambino che già dalla prima scena si nutre di plastica, invece che di alimenti e che, ucciso per mano di una madre che vuole sopprimere quella creatura mostruosa, diventerà corpo cadaverico da usare per una performance dai connotati politici. A complicare la trama, saranno infine due burocrati, emissari del governo (Kristen Stewart e Scott Speedman), che gestiscono la National Organ Registry con l’ossessione di classificare questi nuovi organi autoprodotti, a scompaginare il futuro dell’arte e della politica – con un intervento di controllo dagli esiti incerti.
Burocrazia, arte, politica rimangono nel film gli unici ambiti di intervento umani in cui c’è ancora la possibilità di imporre, incidendo con un tatuaggio (che è il massimo dell’esteriorità) organi interni, un significato: «il corpo è la realtà», ci fanno sapere continuamente Saul e Caprice. Ma a questa dichiarazione che è un manifesto del cinema contemporaneo fattosi ormai interamente apologetico del corpo quale entità continua tra naturale e artificiale è come se non seguisse una messa in scena adeguata, conservandosi un tratto di dualistico che si trattiene a più riprese sulla scissione tra corpo e parola. Che Cronenberg non risolva questa disconnessione è questione ancora più interessante per il suo stesso percorso da cineasta come se alla sua prima parte di produzione a cui chiaramente si richiama tramite i tagli di Videdrome, le ricombinazioni di eXsistenz, la sessualità impossibile (se non mediata) di Crash, si sovrapponesse la ricostruzione dei drammi familiari, incestuosi, ormai psicoanalitici (che vanno da Spiders a Maps to the Stars). Il risultato in Crimes of the Future è che l’arte performativa in parte è generatrice di significati, in parte rimane svuotata nella ricerca ossessiva di significati ulteriori, così come la politica per certi aspetti sembra ancora possibile nell’automatizzazione della digestione della plastica e per altri fallisce nel momento in cui deve prendere forma di un’azione eclatante. Il tratto dualistico che interrompe la generazione automatica di organi e (potenzialmente) significati si rivela soprattutto nella forma del visivo che Cronenberg adotta, tuttora ancorata all’idea di macchine molari in cui l’accenno minimo alle trasformazioni ormonali e tumorali non si arrischia fino in fondo – cioè al grado di evoluzione tecnologica contemporanea, fatta soprattutto di chimica, digitale e molecolarità. Le immagini (con un’abbondanza di autocitazioni) rappresentano macchine che per il mondo attuale sono già vecchie e realizzate con figurazioni tra naturale e artificiale che sembrano provenire da un’epoca precedente. Questa parziale de-storicizzazione cinematografica, tuttavia, viene compensata dall’estrema attualità del messaggio politico di Cronenberg che in Crimes of the Future si chiede se per guarire dalla crisi ecologica non sia necessario che proprio gli umani si evolvano al punto da cominciare a nutrisi di quella stessa plastica che producono, salvando al contempo se stessi e gli ecosistemi.