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EUROPA

«Canarias no se vende»: mobilitazioni sulle isole e nella diaspora in tutta Europa

La convergenza di collettivi e movimenti sociali è un’opportunità per costruire una forma di contropotere, capace di sbloccare lo spazio politico della sinistra anticoloniale e contrastare il potere del capitale turistico e delle élites politiche locali

Lo scorso 20 aprile si sono svolte manifestazioni e raduni di massa nelle otto isole dell’arcipelago canario e nelle varie città europee che ospitano la sua diaspora (Madrid, Barcellona, Berlino, Londra, Amsterdam, ecc.), sotto lo slogan: «Le Canarie hanno un limite». La piattaforma di mobilitazione, che riunisce una moltitudine di collettivi e organizzazioni attive su vari fronti di lotta nel territorio, stima il numero di manifestanti tra i 150.000 e i 200.000. Si è trattato di un evento storico. La mobilitazione contesta infatti il modello produttivo turistico (già criticato in vari forum e spazi in quanto erede del regime plantocratico e coloniale), segnalando una frattura nella struttura politico-economica delle Isole Canarie e in quella del governo autonomo, in vigore dalla promulgazione dello Statuto di Autonomia delle regioni spagnole del 30 maggio 1982.

Inizialmente lanciato sull’isola di Tenerife, l’appello alla mobilitazione nasce contestando la costruzione del macro-complesso turistico La Tejita, nel sud dell’isola, i cui lavori sono paralizzati dal maggio 2021, perché il Ministero della Transizione Ecologica e l’Agenzia Canaria per la Protezione dell’Ambiente Naturale ne avevano sancito l’illegalità.

Con due ricorsi favorevoli, ma senza le licenze necessarie, l’impresa edile Viqueira ha deciso di riprendere il progetto. L’arroganza dell’industria edile e il silenzio complice delle istituzioni locali, attualmente in mano alla Coalizione delle Canarie e al Partito Popolare, hanno allora provocato il malcontento di gran parte della società civile canaria e di vari gruppi sociali e ambientalisti (come Salvar la Tejita e Ben Magec), che hanno occupato il terreno, interrompendo i lavori che hanno già distrutto gran parte delle dune della spiaggia. A questo si aggiunge l’imminente riattivazione di altri mega progetti alberghieri e immobiliari, come la Cuna del Alma nel porticciolo di Armeñime, situato nel comune di Adeje, a Tenerife, i cui lavori sono stati interrotti nell’ottobre 2022 dopo l’occupazione del sito da parte di vari gruppi di attivisti, violentemente repressi dalla sicurezza privata e dalla polizia.

La somma di questi progetti faraonici e costosi, con un enorme impatto sull’ecosistema canario, insieme alle precarie condizioni di vita sul lavoro, dell’accesso alla casa e ai servizi di base come cibo, acqua, salute e istruzione sono stati fattori decisivi nella convocazione della marcia del 20 aprile a Tenerife, rapidamente affiancata dalle altre isole. Il 20 aprile è anche il risultato di un processo di accumulazione di forze in atto da anni nell’arcipelago e della progressiva organizzazione di una complessa rete di lotte, collettivi e movimenti sociali e politici che hanno gradualmente praticato la convergenza di obiettivi. Vale la pena ricordare le precedenti mobilitazioni dei sindacati degli inquilini delle diverse isole, di Somos red e della Red Canaria por los derechos de las personas migrantes, dei Kellys (i sindacati delle cameriere), del femminismo canario, attraverso collettivi come Jaira o Harimaguadas, o dei molteplici collettivi ambientalisti in diversi punti di tensione delle isole (Armeñime, la Tejita, Chira-Soria, persino Tindaya anni fa), così come le manifestazioni delle Mareas Negras contro le prospezioni di Repsol nel 2013 o quella che ha marciato con lo slogan «Salviamo Tenerife» nel sud dell’isola (in piena zona turistica) nel maggio 2023.

Il 20 aprile rappresenta quindi al tempo stesso un punto culminante e l’apertura di un ciclo di mobilitazioni che si prevede continuerà, almeno nelle Isole Canarie.

Dopo il primo appello, le reazioni dell’associazione degli alberghieri e delle istituzioni non si sono fatte attendere. Il vicepresidente di Ashotel, Gabriel Wolgeschaffen, rispondendo alla domanda di un giornalista sulle mobilitazioni, ha dichiarato: «la mucca che dà il latte deve essere lasciata in pace». Con il passare dei giorni si sono aggiunti sempre più gruppi e personalità pubbliche ed è cresciuto il malcontento per le posizioni assunte dall’esecutivo spagnolo e da gran parte dell’élite canaria, che insistevano sul fatto che il turismo aveva portato «livelli di ricchezza e benessere senza precedenti» in un territorio che, a loro dire, era «perfettamente al livello di crescita europeo». Si tratta di dichiarazioni in tragico contrasto con una serie di dati che circolano da mesi: il numero di turisti annuali (16 milioni) comparato al rischio di esclusione e povertà per la popolazione canaria (36% secondo il rapporto Stato di povertà nelle Isole Canarie (EAPN, 2023)), quelli dell’Indagine annuale sulla struttura salariale, che concludono che le Isole Canarie hanno i secondi salari più bassi e il costo del lavoro più basso di tutta la Spagna, i prezzi degli affitti di circa 900 euro in media, nonché il paniere di beni primari più costoso di tutta la Spagna.

Di fronte a questa situazione, sei attivisti di diversi collettivi di Tenerife hanno deciso di intraprendere uno sciopero della fame l’11 aprile. La loro protesta continua tuttora, con conseguenze irreversibili per la salute di molti di loro.

L’intenzione è di costringere alla negoziazione il governo delle Canarie sui principali punti di lotta: il blocco dei diversi macro-progetti immobiliari ed energetici, la garanzia del diritto a un alloggio dignitoso; la limitazione dell’acquisto di case da parte dei fondi di investimento e degli affitti turistici; risposte immediate alla siccità e all’emergenza idrica; una moratoria sul turismo (che apra la strada alla “decrescita turistica”); una ecotassa e l’attuazione di assemblee cittadine vincolanti per la gestione comune delle risorse; una pianificazione produttiva basata sui bisogni delle comunità e l’attuazione di iniziative che guardino alla «sovranità alimentare ed energetica come orizzonte». Tali rivendicazioni si sono posizionate con forza nel discorso politico e mediatico, tanto da costringere il presidente canario Fernando Clavijo a rettificare la sua posizione e a considerare l’applicazione di una ecotassa e le suddette manifestazioni come «un’opportunità per cambiare rotta e resettare».

Il 20 aprile, tra bandiere, fischietti e tamburi, e al ritmo di tangos e tajarastes (simboli, strumenti e musiche associati alla resistenza e alla cultura politica anticoloniale), i cortei sono partiti, scandendo le parole d’ordine «Canarias tiene un limite» e «Canarias no se vende, se ama y se defiende», e una serie di slogan che ben spiegano la composizione e le prospettive del movimento.

«Turista lo que cagas lo limpia una explotada» (Turista quel che caghi lo lava una sfruttata). Uno dei cortei più numerosi nelle diverse isole è stato quello dei collettivi di cameriere e lavoratrici d’albergo, le cosiddette Kelly.

Le loro lotte nel corso degli anni hanno messo in evidenza la durezza delle loro condizioni di lavoro e di vita e la violenza con cui il capitale del turismo distrugge lentamente i loro corpi e un lavoro vivo per lo più femminile, fino a portare le lavoratrici alla morte, come nel caso di María Belén López, morta a 45 anni lo scorso agosto mentre lavorava in un hotel nel sud di Tenerife.

«El Gobierno de Canarias es una inmobiliaria» (Il governo delle Canarie è un’agenzia immobiliare). Negli ultimi dieci anni, e con maggiore evidenza dopo la pandemia, gli affitti turistici sono aumentati in tutto l’arcipelago, una tendenza associata all’arrivo dei cosiddetti “nomadi digitali” da diverse parti d’Europa, che si contano a decine di migliaia ogni anno. Si tratta di un tipo di turismo a medio-lungo termine promosso in larga misura da istituzioni come il Dipartimento del Turismo, come un modo per esplorare un «modello di turismo più sostenibile e con minore impatto ambientale». Tuttavia, i dati sulla saturazione, la produzione di rifiuti e la sovrappopolazione legati a questo fenomeno, descrivono un quadro molto diverso da quello prospettato. Le Isole Canarie occupano il secondo posto a livello nazionale in termini di case vacanza rispetto al numero totale di abitazioni (4% del totale). Il numero di posti in case vacanza rispetto all’offerta totale di alloggi è del 36%, in comuni come La Oliva (Fuerteventura) o Yaiza (Lanzarote).

Un altro dato importante è il rapporto di acquisto di proprietà da parte di non residenti europei, che supera i 2/3 del totale delle proprietà acquisite. La maggior parte di queste operazioni sono state realizzate da fondi di investimento che possono accumulare tra le 200 e le 300 proprietà ciascuno.

Alcune arrivano fino a 500 proprietà, secondo la Direzione Generale di Pianificazione, Formazione e Promozione Turistica. Questo è possibile grazie alle agevolazioni fiscali previste dal REF (Regime Economico e Fiscale, attuato e riformato a partire dagli anni ‘90 in sostituzione del regime dei porti franchi e in linea con lo status di regione ultraperiferica dell’Unione Europea) per le imprese che investono nell’arcipelago, rendendolo praticamente un paradiso fiscale mascherato.

Questo livello di saturazione e questa estensione della commercializzazione e della valorizzazione del turismo ai quartieri e ai villaggi sono sintomi di una mutazione del modello di accumulazione nella formazione specifica del capitalismo insulare, che si traduce in nuove forme di espropriazione che raggiungono i luoghi di socializzazione che hanno resistito in qualche modo alla turisticizzazione (i guachinches a Tenerife, i centri culturali o sociali privatizzati nel mondo rurale, gli affitti turistici delle case-grotta, ecc.).

L’emergenza abitativa è arrivata a un punto tale che in alcune località, come a San Bartolomé de Tirajana (Gran Canaria), in particolare nella zona di El Pajar, i lavoratori dell’hotel hanno costruito una baraccopoli a due passi dall’albergo di lusso in cui lavorano, a causa degli alti prezzi degli affitti, ma anche perché non riescono a trovare affitti a lungo termine, a causa dell’eccesso di case vacanza nel sud dell’isola.

Per questo motivo, gli attivisti e i partecipanti alle diverse marce chiedono la regolamentazione degli affitti, la limitazione degli affitti turistici, la limitazione dell’acquisto di alloggi da parte di fondi di investimento e di non residenti europei, e la promozione dell’edilizia pubblica, che è praticamente paralizzata da 30 anni, riducendo lo stock di alloggi pubblici all’1%, una situazione che complica la risposta all’emergenza abitativa, in quanto «l’amministrazione non ha gli strumenti per affrontarla», come sottolinea giustamente Rafael Yanes, deputato, che attualmente sta facendo da mediatore tra la piattaforma e l’esecutivo.

«Canarias tiene sed» (Le Canarie hanno sete). Lo slogan chiama in causa il problema di accesso all’acqua, comune a tutte le isole, ma particolarmente acuto a Fuerteventura e Lanzarote. La prima è in emergenza idrica dal marzo 2023, con tagli giornalieri dell’acqua da quella data, tagli che in molte occasioni hanno portato all’interruzione del servizio idrico per due o tre settimane, anche nel bel mezzo di un’ondata di caldo come la scorsa estate. Anche le isole di El Hierro e La Gomera hanno dichiarato l’emergenza idrica a causa di una siccità che dura da due anni e che ha colpito fortemente il settore primario per la mancanza di acqua per l’irrigazione (il comune di Alajeró, a La Gomera, ha addirittura limitato l’uso dell’acqua a quello domestico o di prima necessità a causa della carenza), un settore molto importante per il suo potenziale nel cambio di modello produttivo. I manifestanti associano l’aggravarsi delle conseguenze della siccità allo spreco di acqua negli alberghi e in altre infrastrutture legate all’industria turistica, come i campi da golf. L’acqua è stata storicamente un fattore chiave nelle lotte politiche e sociali dell’arcipelago e un asse molto importante nei programmi dei diversi spazi di trasformazione che sono stati organizzati nel territorio; è un elemento che cristallizza il rapporto di forze tra, da un lato, la proprietà e l’élite capitalista e coloniale (tour operator, franchising di frutta storicamente inglesi), e dall’altro lato, i contadini, i lavoratori del turismo e il sottoproletariato (urbano-rurale).

Nelle Isole Canarie, più della metà dell’acqua destinata al consumo proviene da fonti sotterranee. Questa risorsa, scarsa e preziosa nelle isole, ha proprietari privati e un mercato in cui si specula sul suo valore per la commercializzazione (un esempio molto chiaro è l’irrigazione agricola).

E tutto questo nonostante la legge stabilisca che «le acque sono una risorsa d’interesse generale». Nell’arcipelago, quei pozzi e quelle gallerie scavate alla ricerca di acqua nel corso del XX secolo sono in mani private: quelle dei “padroni dell’acqua” (aguatenientes) che negli anni hanno formato piccoli trust con cui controllare il mercato. In isole come Tenerife (dove l’80% delle risorse idriche proviene dal sottosuolo), hanno addirittura formato la cosiddetta “Cámara de Aguas” per difendere i propri interessi e investimenti. Di fronte a questa situazione, lo Stato e le istituzioni hanno cercato di entrare nel mercato per proteggere e regolarizzare la risorsa, realizzando impianti di desalinizzazione e creando consigli di controllo delle isole. Ma tali azioni si sono rivelate insufficienti e non hanno impedito agli aguatenientes di incrementare lo sfruttamento delle falde acquifere.

«No es turismofobia, es canariofobia»(Non è turismo-fobia, è canaro-fobia). Questo slogan riassume molto bene i sentimenti diffusi tra la popolazione canaria, come quelli di abbandono, esclusione ed espropriazione, già molto presenti nell’arcipelago a causa della sua storia coloniale, così come la colonizzazione che ancora regna in questo territorio, aggiungendo la sua costruzione periferica e dipendente rispetto allo Stato spagnolo e, soprattutto, all’Europa. La questione canaria (se così si può chiamare) ha fatto da sfondo a questa imponente protesta.

Le reazioni governative alla protesta sono state molto diverse a seconda dei gruppi dirigenti dei vari partiti e hanno incrementato le tensioni nell’esecutivo guidato da Fernando Clavijo (Coalición Canaria). La soluzione finora trovata per risolvere questa tensione è un progetto per l’implementazione di una IGIC (imposta indiretta sui beni) turistica, fortemente contestata dai movimenti sociali per la sua inefficacia in termini di redistribuzione. Inoltre, lunedì Clavijo ha annunciato che avrebbe passato ai consigli comunali di Adeje e Granadilla, guidati dal PSOE, la decisione di continuare o fermare i macroprogetti Cuna de Alma e La Tejita a Tenerife, anche se il governo delle Canarie ha tutti i poteri per farlo da solo. Questa decisione dimostra la volontà del presidente delle Canarie di non assumersi alcuna responsabilità e di mettere in una situazione scomoda il suo rivale politico, il PSOE, che non ha appoggiato esplicitamente le marce, anche se ha cercato di catturarne il consenso.

A queste azioni dell’esecutivo si aggiungono quelle dei rappresentanti delle associazioni dei datori di lavoro alberghieri, come il presidente della Federazione Alberghiera e Turistica di Las Palmas, l’imprenditore basco José María Mañaricua, che ha perso le staffe in un’intervista a una radio quando gli è stato chiesto di parlare dei salari nel settore turistico e delle richieste delle lavoratrici. Queste reazioni evidenziano la forza con cui le manifestazioni hanno fatto irruzione nel discorso pubblico-mediatico e nelle agende politiche dei diversi attori, aprendo una crepa nella struttura economica dell’arcipelago. Tuttavia, lo sviluppo parallelo di strategie di riappropriazione e reinvestimento del discorso e di alcune richieste delle marce da parte di una certa élite preoccupa molto i collettivi e le piattaforme militanti. Così vediamo in alcune analisi dei media progressisti e liberali che gli aspetti più riformisti di queste richieste, come l’ecotassa o la moratoria turistica, sono resi più visibili, mentre altri, come la costituzione di assemblee cittadine vincolanti, sono sistematicamente oscurati. Le prime sono certamente importanti per le politiche di redistribuzione della ricchezza e per organizzare la decrescita del turismo e un effettivo cambiamento del modello produttivo, ma possono anche essere funzionali allo sviluppo di un capitalismo verde, mascherato da turismo sostenibile.

All’interno della sinistra canaria emergono invece diverse posizioni. Ci sono, ad esempio, quelle nazional-populiste, che vedono in queste proteste e nelle alleanze che stanno generando la possibilità di costruire un blocco sociale ed elettorale capace di portare avanti un’opposizione che spiazzi il senso comune generale. Ma vi è anche chi coglie nella convergenza di collettivi e movimenti sociali eterogenei un’opportunità per costruire una eterogeneità organizzata, o una forma di contropotere, capace di sbloccare lo spazio politico della sinistra anticoloniale e di contrastare il potere del capitale turistico e delle élites politiche locali. Dopo il 20 aprile, tutti gli occhi saranno puntati sul resto dei territori spagnoli, anch’essi colpiti dalla saturazione e dal sovraffollamento turistico. Si tratterà di vedere fino a che punto questo movimento è in grado di tradursi in altri spazi, propagandosi oltre il grande impatto che già avuto sulla politica delle Canarie. Una cosa è tuttavia chiara: il 20 aprile ha dimostrato che le Canarie sono ancora in piedi, che non si vendono, ma si amano e si difendono.

Immagini di copertina di Radio Pimienta che ringraziamo per la gentile concessione

Traduzione di Matteo Polleri

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