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Caina

Quando si decide di abbattere una casa a crollare sono solo le mura.

Una ricerca sul costruire e l’abitare

A vedere la copertina del cofanetto con cui “minimo comune multiplo” presenta Caina una forma dell’abitare 1947-2011, più che una raccolta di materiali e documenti sulla storia di un complesso di edilizia pubblica, parrebbe la presentazione di una nuova costruzione che, come spesso accade per alcune architetture “firmate”, scelgono lo “schizzo”, il disegno che restituisce la prima idea, per presentarsi. In realtà, a ben guardare, quel disegno dice molto. Parla della geografia insediativa. Sezionando un lembo di terra affacciato su un vuoto appoggiato a una parete di una montagna ci mostra dove siamo; ci parla di quello che troviamo, indicando che, in questo “terrazzo”, c’è un edificio; prefigura cosa accadrà, facendoci sapere che quest’edificio sarà interessato da un disassamento.

E’ evidente che quei tratti indicano non uno dei tanti (troppi) palazzi tirati su ovunque nel nostro paese. Questo palazzo (in realtà i palazzi sono tre) ha qualcosa di diverso. Anche perché, rigirando nelle mani l’elegante pubblicazione, leggiamo che si tratta di materiali e documenti per «deostruire una distruzione». Insomma la storia potrebbe farsi interessante.

L’edificio, indicato in quell’essenziale disegno, è qualcosa di più di una casa, di un esito architettonico di un programma urbanistico, di un insieme di stanze raggiungibili da lunghi corridoi esterni (ballatoi) come ci mostrano foto e disegni progettuali.

Caina è un individuo edilizio.

Una presenza urbana che quando, come in questo caso, assume sembianze residenziali al posto di sigillare le vite di chi l’attraversa riesce ad intrecciarle. Tra loro e con la città. Non è questo, forse, il compito dell’abitare? Solo in pochi casi – per restare nella storia recente del nostro paese e solo nel periodo della “ricostruzione” post bellica – tuttavia, l’abitare ha preceduto il costruire.

Caina (Massa Carrara) è questo: la storia della costruzione di una comunità urbana che, anche in quelle “case minime”, ritrovava la voglia di appoggiare a quelle mura i propri sogni; la gioia di tirarsi fuori dalla guerra; lo scoprire che quegli spazi, progettati secondo gli schemi del Manuale dell’Architetto di Mario Ridolfi, potevano perfino venir riprogettati (reinventati?). Poco importava, come leggiamo nella ricca documentazione di testimonianze allegata, se l’Ente costruttore (IACP) aveva pensato a uno stanzino. Abitando, si scopriva che lì ci sarebbe entrata una “rete”. Che, questa, poteva accogliere insieme a un paio di sorelle “assegnatarie”, anche i corpi di una serie di amiche che ritrovavano, in una nuova casa in uno spazio finalmente loro, la voglia di raccontare e raccontarsi come volevano modificare la propria vita.

Avveniva a Massa Carrara, alla “Corea” di Livorno, al Tuscolano romano, nelle stanze sottratte al razzismo sabaudo che non si volevano concedere a chi veniva a produrre la ricchezza di quella città senza riceverne in cambio neppure le briciole, in quelle di San Lorenzo a Roma costruite là dove erano cadute le bombe dei “liberatori” (via dei Corsi), nelle case di Fanfani: quelle del primo settennio dell’I.N.A.Casa, nelle ringhiere milanesi.

Ovunque, non fosse solo il basso livello edilizio o la loro tipologia di “casa popolare” a determinare il ceto degli abitanti, quanto, piuttosto, proprio una particolare forma di organizzazione e cooperazione sociale, legata non ad una generica esigenza di avere un tetto, ma ad un’identità di lavoro, un interesse comune. Che, a Caina, si estende anche nella scelta del tipo di commercio minuto che nel tempo è cresciuto intorno ai tre palazzi e, anche (perché no ?), inventando i giochi dei ragazzi che, combinando tra loro pezzi di marmo – siamo sulla strada delle cave – e l’orografia del terreno trasformavano la strada in un lungo scivolo. Questo fino a quando non passavano i carretti dei trasportatori di marmo tirati da cavalli. Era atteso il lascito dei loro escrementi. Allora nasceva una gara tra gli abitanti per raccoglierli e trasformarli in concime per i fiori. Perché quelle erano case curate e i balconi avevano fiori messi in mostra sul fronte strada. Per stendere i panni lavati si sceglievano i “ballatoi”: le strade aeree dove le case hanno solo l’entrata e nessuna finestra. Dietro c’è subito la montagna, bisogna proteggersi dai venti freddi di tramontana che scendono giù. Case fatte bene: con le murature esterne in pietra per i primi tre piani e in due file di mattoni, divisi tra loro da una camera d’aria, per le restanti elevazioni.

Una lunga storia di abitare che, come molte altre, non è stata sufficiente a tener fuori Caina dalla deriva provocata dall’interruzione feroce della politica abitativa popolare in Italia fatta: dalla diminuzione massiccia degli interventi, l’assenza di programmi, la scarsa manutenzione di quanto costruito, le scelte tipologiche invasive e, al tempo stesso, le altrettante invasive disseminazioni molecolari nel territorio. Un insieme di condizioni che hanno condannato molti interventi popolari o a risultare incapaci di entrare in relazione con l’abitato o a essere trasformati in un problema proprio da chi istituzionalmente chiamato a realizzare l’abitare pubblico in Italia.

Caina, ma è stato così solo qualche anno addietro per i ponti del Laurentino a Roma, ha pagato il sommarsi all’indifferenza manutentiva dell’Istituto Case Popolari dell’incapacità della politica, nazionale prima che regionale, di attuare il diritto all’abitare. Caina e il Laurentino: due situazioni per cui si è trovata la soluzione del problema nella distruzione dell’edificio.

Le cariche di dinamite possono certo cancellare muri e pilastri; non però i segni, le esistenze di chi a quei muri ha aggrappato la propria vita quotidiana per molto tempo. Moltissime esistenze possibili. Quelle dei primi abitanti, quelle di chi, nel tempo, aveva preso il posto dei primi assegnatari magari in modo illegale, portando con le occupazioni le proprie storie di dolore ed emarginazione. A leggere la testimonianza del funzionario di polizia che seguiva le vicende giudiziarie dei palazzi, il mondo di Caina, venutosi a realizzare con la presenza di molte famiglie senza “titolo”, non era fatto da “criminali di spessore” quanto, piuttosto, dai molti per cui, siamo agli inizi degli anni 80, le nostre città si andavano facendo crudeli caratterizzandosi per diventare luoghi di case senza abitanti e abitanti senza case.

Una storia che non andava certo persa; che doveva assolutamente conosciuta, non certo cancellata dall’enorme nube che ha seguito le cariche di dinamite con cui quei palazzi sono stati tirati a terra (2011).

Lo ha fatto Corrado Magliani. Lo ha fatto molto bene e con molta pazienza, perché ha capito che gli “sfollati” primi assegnatari non sono poi mica tanto diversi dagli occupanti che per ultimi hanno abitato Caina. I primi: privati della casa dalla guerra; gli altri privati addirittura: del diritto al vivere. Etichettati come “delinquenti”sono stati anch’essi sfrattati –messi fuori– da quelle regole che ci diamo per “vivere” senza tuttavia fare nulla per assicurarle a tutti. Anzi che ci accaniamo a disattendere e riorganizzare proprio per non garantire a tutti il diritto all’abitare.

Caina è stato un modello che avrebbe potuto assicurarlo. Magliani sembra dirci proprio questo. Lo fa con il suo metodo “investigativo” basato su archivio e memoria. E’ l’archivio a dare la parola al costruire,al fare città, al nascere delle relazioni che l’attraversano. E’ la memoria a scandagliare, dice Magliani, le esistenze umane a rappresentarci “ il gestire” l’abitare che «è la forma mobile dell’edificio». Non tutta la storia dell’edificio è però contenibile in un archivio.

Solo comparando tra loro le immagini, classificandole continua il «gioco della storia attraverso l’immaginario della storia stessa». Per questo il corredo di analisi (foto, documenti, testimonianze, immagini, progetti, capitolati, verbali, corrispondenza…) è essenziale per capire che cosa realmente l’ingegneria della demolizione ha cancellato e cosa ancora resiste anche se non avrà la medesima forma o si avvarrà del medesimo contesto.

Caina tra poco tempo rivivrà sotto specie di un altro palazzo progettato dagli Uffici ERP di Massa Carrara dopo che gli stessi hanno deciso per la nuova costruzione al posto di tentare il recupero dei vecchi fabbricati. Un unico corpo edilizio con quattro vani scala sarà nuovamente “appoggiato” (in sicurezza naturalmente) alla montagna. Studiando il nuovo progetto il lavoro di ricerca di C. Magliani appare ancora più prezioso ed essenziale. Vediamo infatti che la “nuova architettura” sembra pensata più ad un contesto ipotetico, concedendo molto a riferimenti e stilemi generalizzati ovunque, che a chi abiterà queste nuove stanze. Non sarebbe male che, insieme alle chiavi dei nuovi appartamenti, i prossimi assegnatari ricevessero una copia di questa ricerca per continuare a capire come abitando una casa abitiamo il mondo.

em>Caina una forma dell’abitare 1947-2011, a cura di Corrado Magliani, ed. minimo comune multiplo, Massa Carrara 2013.