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CULT

C’era la Cina così lontana e c’è la Cina così vicina

Storie di resistenza nella grande trasformazione della Cina.

Un libro di Angela Pascucci (ediz. dell’asino2013 euro 12,00)

Da gennaio del 2012 la maggioranza della popolazione cinese (oltre 700 milioni) vive in aree urbane. Basterebbe questo riscontro statistico – ancor più significativo del fatto che detiene nel proprio salvadanaio i 790 miliardi di dollari dei buoni del tesoro degli Usa – per cercare di non lasciar cadere, proprio ora che il paesaggio di riferimento sia fisico che sociale è così mutato, lo sguardo rigoroso che, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, verso quel paese, quel popolo, le sue mirabolanti trasformazioni aveva guidato la scrittura di Edoarda Masi iniziata sui Quaderni Rossi per continuare sui Quaderni Piacentini e in molte pubblicazioni.

Lo fa Angela Pascucci che, da molto tempo dalle pagine de “il Manifesto” e recentemente su Global Project, proprio al lavoro della Masi ha sempre guardato con quel grande rispetto che, nel corso degli anni, ha scelto di riconoscerle imponendosi il duro lavoro del costruire se stessa capace del saper ascoltare.

Ora queste pratiche di ascolto ha deciso di raccoglierle in un libro: Potere e società in Cina (edizioni dell’asino 2013 euro 12) dove svela come ci è riuscita: offrendo, quale dono, ad ogni interlocutore con cui sceglie di parlare, la propria consapevolezza di trovarsi di fronte a chi, pur in ruoli differenti nel giro di pochi (a volte pochissimi) anni, ha visto la propria vita rivoltarsi e spesso veder cancellati, in un colpo solo, vecchi e nuovi sogni.

Il libro, suddiviso per tipologie di “ascolti”: contadini, operai, intellettuali, è in realtà un libro sull’abitare la Cina al tempo in cui il grande processo dell’urbanizzazione sta trasformando milioni di persone da gongren (contadini) a nongmingong (operai e contadini lavoratori). Il tempo, dice Angela, in cui “la Storia fa irruzione nelle vite umane con forza così dirompente che ogni singolo individuo si ritrova a essere rappresentazione compiuta e protagonista a suo modo, a prescindere dalla volontà, dal potere, dal ruolo sociale che gli appartengono”. Il tempo in cui accade di tutto.

Dall’aver avuto in affidamento un campo, al vederselo tolto con la promessa di una compensazione monetaria che sistematicamente tarda a venire; il trasferimento in tremendi loculi abitativi all’interno di slum urbani lontanissimi dal territorio d’origine; la corresponsione di un salario sempre più insoddisfacente; ritmi di lavoro insostenibili, massicce forme di precarietà (oltre 60milioni sono i lavoratori interinali); la disoccupazione, trovarsi ad abitare in un posto ed essere pressoché certi di non aver mai il hukokou – il certificato di residenza – e, senza di questo, nessun accesso a nessuna forma di welfare.

Il vivere in metropoli cantiere continuo (a Pechino si stima che siano concentrate la metà di tutte le gru esistenti al mondo) in gironi infernali disegnati dal processo capitalistico che si è fatto carico di creare nuove identità proprio con la cancellazione delle categorie sociali classiche e mantenendo analogo lo sfruttamento. Nuovi ruoli,nuove funzioni, inesistenti forme di garanzie sociali.

Dovrai lavorare duramente per pagarti tutto, ad iniziare dall’assistenza sanitaria. Tutto per lasciar posto alla terra che lo Stato ha deciso dover essere la fonte primitiva dell’accumulazione del capitale. Angela Pascucci ci parla soprattutto di una terra, immensa, che non si vuol far riposare. Mai. Dove, dopo essersi domandati (Deng Xiaoping 1992): “se il capitalismo aveva qualcosa di buono, allora il socialismo deve riprenderlo e usarlo”, andare a cercare questo buono.

Con la “ripresa” di Hong Kong (1997) restava da capire come costruire un nuovo immaginario urbano, che proprio replicando all’infinito quella città riconquistata, riuscisse a farlo in un paese che ne era tradizionalmente privo. Questo è quello che si sta facendo.

Per cercare di comprendere come utto questo stia avvenendo ancora una cifra: sono 250 milioni i cinesi che hanno lasciato, negli ultimi 20 anni, i terreni agricoli dove vivevano e avoravano utilizzandoli non con titolo proprietario, ma quali usufruttuari di un bene statale o comunitario difatto nella disponibilità giuridica (il decidere cosa piantare prima, come venderlo ora) del governo locale.

Nessuno, infatti in Cina, all’infuori dello Stato (o dei governi locali), è proprietario del suolo. Così quando si decide una “grande opera”, che in Cina può significare, oltre lo spianamento di una montagna, anche pensare a un complesso di villette per vacanza o un parco di divertimenti, alla famiglia che quella terra viene sottratta non resta che subire promessa di un riconoscimento monetario. Un compenso che, oltre che essere difficile da esigere in tempi accettabili e rivelarsi sempre estremamente modesto, rappresenta, per tutte queste famiglie e in modo definitivo,la perdita di un mezzo di sussistenza e apre la lunga via dell’esodo senza ritorno verso aree metropolitane che tanto per capirci, quando raggiungono solo 10 milioni di abitanti, pensando ai 40 milioni di Shanghai, sono classificate come secondarie.

In Cina, prima della rivoluzione, esistevano sostanzialmente due modelli di città: quelle, situate lungo le coste, disegnate dal colonialismo europeo secondo i canoni di quella cultura tecnica; quelle che mantenevano pressoché immutabili i propri elementi di fondazione originali tracciati secondo canonici modelli figurativi “nazionali”.

Era il costruito a fornire, e a far perdurare nel tempo, quella uniformità tipica delle città cinesi durata almeno fino ai primi anni 2000. Notata da sempre nell’architettura – è il caso del viaggiatore francese M.Palèologue (l’art chinois 1887) e, almeno fino al finire dello scorso secolo, resa evidente dall’edilizia quando sulle città sì è andata sovrapponendo, prima e dopo la rottura con l’Unione Sovietica, quel megafunzionalismo abitativo che affidava alla prefabbricazione industriale il compito di realizzare un grande numero di alloggi a basso costo. Questo nelle città. Nelle campagne: le comuni popolari.

Angela Pascucci, ricostruendo le storie di chi non vede arrivare, insieme all’ordine di evacuazione, il prezzo del risarcimento e viene sistematicamente represso quando prova ad averlo, le intreccia con altre di tanti “quotidiani” possibili. Di chi, per esempio, è costretto a ritagliarsi, a costo di turni di lavoro massacranti, il denaro per pagarsi le cure mediche. Raccoglie, come un’amica, la testimonianza di una lavoratrice che, abitando all’interno di un falansterio, vede il proprio figlio attanagliato perennemente a internet ma privo di ogni possibilità di occupazione. Si fa raccontare la vita quotidiana di chi vivendo in città, ha deciso di lasciar perdere perché ha capito di non farcela in un sistema che ti elimina se, dopo un lungo lavoro sui monitor, sei costretto a ricorrere ad un paio di occhiali. Incalza con dolcezza, ma determinazione chi, se anche lavora all’interno di un prestigioso centro di ricerche, non sa spiegarsi la contraddizione sempre più vasta, la frattura impossibile da colmare, tra il sistema della formazione e quello della produzione. Varca gli anelli che uno dopo l’altro circondano Pechino, per rintracciare se esiste ancora una dialettica possibile tra il nuovo corpo sociale e la politica. Segue, quasi fosse una parente, una famigliola il cui tronfio capofamiglia porta un gruppo di stranieri a visitare i propri “investimenti sul mattone” e scopre che il riciclo dell’immaginario può avvenire attraverso, magari, la ricostruzione di un mondo edilizio uguale a quello che si è abbattuto in un posto poco distante, solo che è nuovo, disegnato da una forma architettonica stravagante e soprattutto è un posto esclusivo. Va in una comune agricola nuova che “s’ispira a Mao senza essere maoista”. Incontra attivisti ambientali e dei diritti civili.

Angela ci racconta anche del nascere della nuova borghesia chiamata a “reggere” il punto di caduta capitalistica di tutto questo: aumentare il consumo all’interno del paese. Debole numericamente, ma forte come capacità di spesa, è fatta di uomini e donne con meno di quaranta anni che, per lo più, vivono nelle città lungo la costa o in quelle emergenti. A lei è affidato il compito di apripista verso la progettazione di nuove esigenze e stili di vita, per far continuare “il sogno” che se andrà in frantumi nelle grandi città, potrà continuare proprio nei centri più piccoli. Una sorta di piano B basato, ancora, sull’accumulazione primitiva, sul consumare suolo.

Non potrebbe reggere, ed Angela questo lo spiega molto bene, senza la presenza fondamentale di un altro agente che lei chiama il burocratismo di stato. Quell’intreccio che permette al capitale finanziario (in Cina ci sono, e sono molte, le società per azioni) di comprare terreni agricoli, scelti per far atterrare lì i propri investimenti immobiliari, dal governo. Questo avviene pagando al governo locale un prezzo largamente superiore da quello versato dal governo (meglio, promesso) ai contadini determinando una forte rendita alla municipalità senza ridistribuzione del reddito nel territorio. Ma non finisce così, perché succede che l’impresa, subito dopo la prima transazione, associ tra i propri investitori gli stessi funzionari chiamati al controllo di tutta l’operazione. Una gigantesca macchina infernale che ricicla nel funzionario di turno la figura del mandarino, assicura rendita, e non produce alcun reddito. Un mandarinato decisivo e implacabile visto che in Cina in mano del governo, dei governi locali e di loro funzionari, restano settori industriali primari come infrastrutture, ferrovie, energia,telecomunicazioni e banche. Ovvero sono loro a tenere le redini di ogni filiera.

Potrà continuare ancora così? sono in molti, infatti, a pronosticare l’esplosione della bolla immobiliare cinese che, è bene ricordarlo, si è servita, come scrive, Paolo Do nel “Tallone del drago” dell’edilizia a permettere di finanziare gli enti locali, che non avrebbero potuto avere accesso a finanziamenti bancari, con “prestiti nascosti” e il conseguente “sfalsamento dell’entità dello stesso debito pubblico complessivo del paese”.

Potrà ancora reggere la speranza di un sogno che per realizzarsi ha bisogno di vite come quelle he è stata capace di farsi raccontare Angela? Avendo scelto di narrarle a noi chiamandole “storie di resistenza” (è questo il sottotitolo del libro) Angela ci dice che in tutte, anche le più dure, nessuno guarda indietro; si trova, sempre, la volontà di guardare al futuro. Che non si attende, ma che si vuole costruire.

C’è bisogno di osservare e continuare a saperlo fare perché fare questo, dice Angela, “è un lavoro affascinante per un giornalista che, non dovendo tener conto di metodologie e conclusioni scientifiche, può restare fedele al compito di descrivere ciò che accade, anche lasciandosi andare alla libertà di ascoltare i racconti che i cinesi fanno della propria vita”.

Essendo la Cina un paese così fondamentale per tutto il mondo, vuol dire saper guardare anche alla nostra vita e, magari, riuscire ad ascoltarsi.