ITALIA
Bye Bye Uberland. Le lotte dei rider ai tempi della pandemia
Con l’accusa di caporalato il Tribunale di Milano ha disposto il commissariamento di Uber, l’azienda californiana simbolo del capitalismo delle piattaforme. Al centro dell’inchiesta, quello stesso modello di impresa, predatorio e semi-schiavistico, denunciato dalle lotte dei riders
Caporalato. È questa l’accusa principale mossa dai giudici del Tribunale di Milano nei confronti di Uber Italy e della società Flash Road City che per suo conto gestiva la manodopera impegnata nel servizio di food delivery. Un’accusa pesante che getta le nuove forme del lavoro indietro nel tempo verso lo sfruttamento para-schiavistico, ad esempio, dei braccianti nelle campagne. Uber, infatti, è la compagnia-simbolo della digitalizzazione del lavoro e del divenire-piattaforma degli spazi urbani dai cittadini ai piccoli imprenditori metropolitani, dai servizi pubblici alle app, è questa la Uberland che negli ultimi anni è cresciuta in ognuna delle nostre città.
Ma l’azienda californiana è accusata anche di aver operato reclutamenti a valanga – in particolare durante il lockdown e il conseguente aumento del volume di ordini tramite la piattaforma – e aver messo in piedi un regime di sopraffazione su persone – soprattutto migranti – in stato di bisogno. Le intercettazioni parlano di paghe da fame, ricatti e minacce, estorsioni. Nell’ultimo week-end di maggio, inoltre, si sono registrati controlli da parte dell’ispettorato del lavoro in molte altre città, segno del fatto che l’inchiesta sembra allargarsi gettando nuova luce su fatti che però sono ben noti da tempo. Già nel 2018, infatti, Lorenzo Pirovano documentava le condizioni di lavoro dei rider di Uber Eats – prevalentemente rifugiati e richiedenti asilo – in una inchiesta per “Il Fatto Quotidiano” e in un reportage pubblicato l’anno successivo su “Open Migrations”.
Va inoltre sottolineato come anche Just Eat abbia utilizzato fino a qualche mese fa lo stesso modello di organizzazione del lavoro di Uber Eats, con la società Food Pony incaricata di reclutare i rider da impiegare nelle consegne. Da questo punto di vista, è rilevante l’isomorfismo fra la logistica metropolitana di piattaforme come Just Eat e Uber Eats e la logistica della grande distribuzione basata sul cosiddetto sistema delle cooperative – un’organizzazione piramidale alla cui cima si trovano i grandi player internazionali mentre alla base si colloca una forza-lavoro prevalentemente migrante iper-sfruttata e assunta tramite cooperative di comodo. Non a caso il sistema delle cooperative è stato oggetto di uno straordinario ciclo di lotte attorno al 2013-2014 che ha avuto come obiettivo, tra le altre cose, lo smantellamento di questa organizzazione piramidale e l’assunzione dei facchini direttamente dalle aziende.
All’interno dello scontro fra piattaforme per il monopolio del mercato, il sistema dei subappalti sembra dunque definitivamente accantonato dato che anche Just Eat qualche mese fa ha disdetto gli appalti con le società terze e assunto i rider direttamente, ma con contratti peggiorativi (passando dai cococo alle prestazioni occasionali). L’alternativa a questo modello, però, è il cottimo di aziende come Glovo e Deliveroo che hanno operato negli anni assunzioni a valanga in modo tale da garantire una competizione interna fra lavoratori, una precarietà strutturale e una minor possibilità di esigere diritti.
In ogni caso, anche se a seconda dei casi può variare l’intensità delle condizioni di sfruttamento e precarietà della forza-lavoro, non cambiano le caratteristiche del modello d’impresa delle piattaforme: stipendi bassi, de-responsabilizzazione dell’azienda nei confronti dei suoi lavoratori assunti con contratti di cartapesta che di fatto legalizzano il lavoro nero (cioè privo di diritti, welfare e standard minimi di riferimento), estrema ricattabilità della forza-lavoro.
È per questo motivo che lo scontro tra rider e piattaforme si è dato anche sul piano del modello d’impresa. Dai casi spagnoli a quelli meno noti della Germania e della Gran Bretagna, sono sempre di più le esperienze di auto-gestione dei rider che incarnano il tentativo di riprendere il controllo sul processo produttivo e sulle forme decisionali. Questa tensione alla riappropriazione della cooperazione sociale della forza-lavoro ha probabilmente subito un’ulteriore spinta con la diffusione del Covid-19 e lo slancio che hanno ricevuto i servizi di e-commerce a partire dal lockdown. Il food delivery, infatti, è uno dei pochi settori con prospettive di crescita (anche se non manca chi solleva dubbi a riguardo).
La logistica metropolitana delle consegne just-in-time e to-the-point si è venuta a configurare come un servizio essenziale per la riproduzione sociale durante la pandemia, la quale ha rinforzato un modello di consumo domestico basato sulla disponibilità immediata e totale di qualsiasi merce. Conseguentemente, si rafforza il ruolo dei rider come figura del lavoro: se prima erano considerati uno dei simboli della mancanza di diritti in questo paese, lavoratori precari intrappolati nelle maglie dei lavoretti, adesso assumono il ruolo di lavoratori essenziali ma senza garanzie contrattuali o protezioni sociali.
Le piattaforme di delivery, infatti, hanno mantenuto sempre attivi i servizi di consegna durante il lockdown, resistendo alle richieste degli stessi lavoratori di sospendere il servizio per garantire la salute di tutti, clienti e lavoratori. Nonostante il valore sociale del loro lavoro, non c’è stato ancora nessun miglioramento contrattuale per i rider né alcuna forma di tutela della loro salute.
Deliveroo, ad esempio, ha abbassato la retribuzione sulle consegne di lungo raggio, mentre quasi nessuna piattaforma si è preoccupata di fornire dispositivi di protezione individuale. In alcuni casi è stato promesso un indennizzo a quanti si ammalavano di Covid, ma solo ai rider che avrebbero potuto dimostrare di aver contratto il virus (cosa non scontata se pensiamo alla difficoltà di effettuare tamponi). In compenso si sono registrate lunghe code davanti alle catene di fast food e ai supermercati, con i fattorini costretti ad ammassarsi a proprio rischio e pericolo. Non è andata molto meglio neanche sul versante delle forme di sostegno al reddito erogate dallo Stato durante la pandemia, con i rider assunti tramite prestazione occasionale (la stragrande maggioranza) esclusi perfino dal bonus per i lavoratori autonomi.
Ovviamente – accanto e prima delle lotte sulla forma di impresa e sulle forme contrattuali – le piattaforme di food delivery restano terreno di scontro fra capitale e lavoro, rider e algoritmi. Si sono registrati diversi scioperi a Torino e Bologna, così come forme di protesta anche in altre città. Accanto alle rivendicazioni “storiche” su contratti e diritti, si sono aggiunte richieste emergenziali come la fornitura di mascherine ed igienizzanti. A Bologna, Riders Union è riuscita a ottenere dal Comune diverse forniture di DPI e ne ha organizzato la distribuzione davanti ai punti vendita con maggiore afflusso. Sullo sfondo di queste proteste resta il grande dilemma del contratto collettivo di settore che andrebbe definito entro la fine dell’anno, ma rispetto al quale non c’è ancora nessuna certezza.
Il problema, tuttavia, non è circoscrivibile al caso italiano: anche in America Latina, Gran Bretagna e Hong Kong si è registrata una forte ripresa della conflittualità contro le piattaforme sulla spinta del peggioramento delle condizioni di lavoro a causa della pandemia.
C’è, dunque, un debito morale e materiale che va saldato nei confronti di questi lavoratori e di tutte le altre forme di precariato che questa pandemia ha fatto emergere come essenziali per la riproduzione della società.
La fabbrica diffusa e immateriale – quali sono le piattaforme – diventa un dispositivo di messa a lavoro difficile da contrastare, a tratti inafferrabile. Eppure, la conflittualità dei rider non si placa, segno del fatto che si innesta su una frattura non ricomponibile tramite la retorica dei lavoretti o le minacce dei caporali. Allo stesso tempo, resta evidente il ruolo delle istituzioni, chiamate in causa a partire dal fatto che attorno alle piattaforme si gioca una partita molto più estesa: lo scontro in atto, infatti, non è solo sulle forme del lavoro o d’impresa ma, più in generale, sul futuro delle nostre città e del nostro diritto a poterle vivere. È in questa ottica che forse può essere letto il fiorire di numerosissime pratiche di mutualismo sorte durante il lockdown, azioni di contro-logistica metropolitana che ci parlano delle potenzialità organizzative delle tecnologie digitali e del necessario ripensamento delle forme di cooperazione al di là dei dispositivi di cattura ed espropriazione messi in campo dalle piattaforme.
Foto di Thomas van de Weerd via Flickr