MONDO

Sanzioni e atomica: i negoziati con l’Iran dall’era Obama a oggi
Nella lunga storia dei negoziati su programma atomico e sanzioni, che va dall’èra Obama alle due presidenze Trump, l’Iran si è indebolito per il crescente malcontento popolare e per i colpi subiti all’Asse della Resistenza, fattore importante della sua potenza regionale
Il Piano d’Azione Congiunto Globale (JCPOA) è stato firmato nel 2015 tra l’Iran e il gruppo 5+1. L’accordo, frutto di anni di negoziati e sforzi diplomatici, mirava a limitare il programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni. L’amministrazione di Barack Obama ha svolto un ruolo cruciale in questo processo e ha considerato il JCPOA un passo importante verso la pace e la stabilità regionale. Obama sottolineava che l’accordo non solo limitava il programma nucleare dell’Iran, ma grazie a rigorosi meccanismi di controllo, riduceva al minimo il rischio di violazioni.
Con l’arrivo al potere di Donald Trump, la politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran ha subìto un cambiamento radicale. Nel 2018, Trump ha ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo, imponendo nuove e severe sanzioni contro Teheran. A suo avviso, il JCPOA era un’intesa imperfetta che non tutelava gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Questa decisione ha suscitato forti critiche a livello internazionale e ha contribuito a un’escalation delle tensioni tra i due Paesi.
I colloqui indiretti in Oman: obiettivi e sfide
Nel gennaio 2025 si sono tenuti a Muscat dei colloqui indiretti tra l’Iran e gli Stati Uniti. L’obiettivo di questi incontri era quello di ridurre le tensioni nella regione e affrontare questioni cruciali come gli attacchi alle navi nel Mar Rosso e la crisi di Gaza. Le autorità dell’Oman hanno svolto il ruolo di mediatori, trasmettendo i messaggi tra le delegazioni iraniana e statunitense. A capo della delegazione iraniana c’era Ali Bagheri Kani, mentre quella americana era guidata da Brett McGurk.
Questi nuovi colloqui rappresentano un tentativo diplomatico per trovare soluzioni pacifiche, ma devono affrontare numerose sfide: profonde divergenze tra le due parti, pressioni interne e regionali, sfiducia reciproca e, soprattutto, l’incapacità di contenere crisi e conflitti protratti. Sembra che il mondo stia entrando in un nuovo paradigma, in cui le guerre e le crisi non possono più essere mitigate semplicemente attraverso il dialogo.
La politica statunitense e l’ordine imperialistico
La politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran e dell’intera regione riflette un approccio imperialistico e dominatore. Il ritiro unilaterale dal JCPOA e l’imposizione di dure sanzioni contro l’Iran sono solo alcuni esempi di una strategia che ha danneggiato profondamente la popolazione iraniana, mettendo allo stesso tempo a rischio la stabilità regionale.
Inoltre, il sostegno incondizionato degli Stati Uniti a Israele e l’ignoranza sistematica dei diritti del popolo palestinese evidenziano il doppio standard che caratterizza la politica estera americana. Un tale approccio non fa che perpetuare l’ingiustizia e alimentare nuove tensioni nel Medio Oriente.
Il popolo iraniano tra pressioni esterne e repressione interna
Il popolo iraniano è stato il principale attore a pagare il prezzo di questa situazione. Le sanzioni economiche hanno reso la vita quotidiana estremamente difficile per molti, aggravando le condizioni sociali e aumentando le pressioni sul tenore di vita. Allo stesso tempo, le politiche interne del regime, caratterizzate dalla repressione delle libertà civili e dalla limitazione dei diritti fondamentali, hanno alimentato un diffuso malcontento.
Per anni, la Repubblica Islamica ha impoverito la società e indebolito le infrastrutture pubbliche, destinando ingenti risorse alla produzione di missili e al sostegno dell’“Asse della Resistenza”. Questo orientamento ha contribuito a rafforzare la sua posizione nella regione, in particolare durante il comando di Qasem Soleimani alla guida della Forza Quds.
La Repubblica Islamica e lo stallo del negoziato
In passato, la Repubblica Islamica è riuscita a ottenere concessioni nei negoziati grazie ad alcune carte vincenti: l’influenza regionale, la capacità missilistica e il sostegno della fazione riformista all’interno del paese. Ma oggi non esistono più né la società dell’epoca Obama, né un asse della resistenza solido, né quell’influenza strategica di un tempo. Oggi, la Repubblica Islamica ha perso le sue leve principali e si presenta al tavolo negoziale più per sopravvivere che per prevalere.
Nonostante disponga ancora di una certa capacità militare, è il collasso infrastrutturale, la crisi economica e la scarsità di risorse naturali — aggravati dal malcontento popolare causato da frequenti interruzioni di acqua, elettricità e gas — che spingono il regime verso il dialogo. La Repubblica Islamica، considera ormai uno dei suoi nemici principali non gli Stati Uniti, ma la propria popolazione: una società impoverita e disillusa, sul punto di esplodere in una rivolta.
Cambiamenti della politica iraniana verso l’Asse della Resistenza
Una delle condizioni poste da Donald Trump per riaprire i negoziati con Teheran è stato la fine del sostegno della Repubblica Islamica all’Asse della Resistenza. Da circa un anno, si osserva una riduzione evidente di questo appoggio, che ha già provocato tensioni tra Teheran e alcune fazioni della Resistenza. Tale atteggiamento riflette in parte una strategia ereditata dalla Russia e da logiche imperialistiche, che non esitano a sacrificare gli alleati regionali in nome di accordi internazionali.
La Repubblica Islamica, in passato, ha già distrutto le infrastrutture nazionali e sacrificato il benessere della propria popolazione per rafforzare l’Asse della Resistenza. Oggi, nella sua sfida con Trump e nel mezzo di una crisi regionale sempre più grave, sembra adottare la stessa logica distruttiva, ma questa volta a spese proprio di quei gruppi militari che un tempo considerava indispensabili.
Confusione al vertice del potere
Negli ultimi mesi, la Guida suprema della Repubblica Islamica ha pronunciato dichiarazioni contraddittorie riguardo ai negoziati: dapprima li ha vietati, poi ha concesso colloqui limitati; in alcune occasioni ha minacciato gli Stati Uniti, in altre ha aperto alla possibilità di investimenti americani in Iran. Questa oscillazione non sembra il frutto di una strategia politica, quanto piuttosto l’espressione di una profonda paura — non tanto verso gli Stati Uniti, ma verso una società svuotata di ogni prospettiva economica, che non ha più nulla da perdere se non le proprie catene.
Forse è proprio questa la ragione più profonda che spinge la Repubblica Islamica a negoziare oggi: il timore di un popolo che considera ormai nemico, pronto a insorgere dopo aver perso tutto.
Immagine di copertina di Bundesministerium für Europa, Integration und Äusseres, da WikiCommons
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