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Bourdieu: violenza e capitale simbolici nel gioco dello stare al mondo

Per Bourdieu, il capitale simbolico è un’accumulazione di relazioni e investimenti affettivi. Mentre il capitale economico accumula beni e denaro, determinando gli scarti che ri/producono le di/visioni di classe, il capitale simbolico è l’atto di riconoscimento esistenziale che la società conferisce al singolo individuo. Del pari assegna valore assoluto alla legge, cancellando la sua origine violenta di classe, si fa violenza simbolica che estorce il consenso del governato

Le Meditazioni pascaliane (pubblicato da Mimesis e curato da Ciro Tarantino, che rivede anche la traduzione del 1977 di Alessandro Serra) del sociologo “miscredente” Pierre Bourdieu restituiscono la cronaca dettagliata e illuminante di una partita nel cui campo si gioca, né più né meno, il futuro dell’umanità. Un campo di gioco i cui protagonisti agiscono in base alle regole che fondano il loro stesso diritto di parteciparvi sulla base delle disposizioni che ne determinano la di/visione di gioco – classe, genere e “razza”.

La modalità perifrastica con cui Bourdieu organizza le sue meditazioni induce chi legge, noi inclusi – ossia anche di coloro che si prefiggono di sconfessare il privilegio scolastico, la skholé, del tempo liberato che emancipa dall’alienazione del lavoro –, a chiedersi non solo quale sia il ruolo dell’intellettuale in un momento storico in cui si assiste al trionfo planetario delle leggi del capitale, ma soprattutto, a comprendere il mondo che già ci comprende come cose tra le cose. Come individui siamo costrett* a comprendere il mondo in quanto eredi di un’incorporazione sociale che determina la nostra stessa posizione nel mondo, il nostro stare al mondo, a sua volta condizionato dalle incarnazioni situate che alimentano le nostre opportunità oggettive in guisa di speranze e aspettative sul futuro: «Posso comprendere questa comprensione pratica solo a condizione di comprendere sia ciò che la definisce in quanto tale, per opposizione alla comprensione cosciente, scientifica, sia le condizioni (legate a posizioni nello spazio sociale) di queste due forme di comprensione» (p. 188).

Il campo in cui si gioca la vita, e la logica dei discorsi su di essa, è definito dalla posizione assunta dall’agente (il percorso che ha permesso all’agente di raggiungerla e la sua appartenenza a un sesso, a una classe sociale, a una etnia…), dalla doxa (il suo grado di conoscenza) e dalla skholé (il tempo libero e liberato a disposizione). Ogni campo (artistico, religioso, filosofico o scientifico) si caratterizza per un fine specifico perseguito da agenti che possiedono le disposizioni richieste. Una volta accettato il punto di vista costitutivo di un campo non si può più assumere su di questo un punto di vista esterno – essere in campo non può presupporre una posizione che sta al di fuori né, tanto meno, pensare l’impensabile, ossia mettere in discussione la posizione acquisita o ereditata per privilegio – è qui che la sociologia può trasformarsi essa stessa in un campo di lotta per provare a riflettere sulla miseria del mondo.

Un campo è necessariamente costituito da un principio di visione e divisione che lo distingue da tutti gli altri campi in cui si gioca l’ambiguità costitutiva dello stare al mondo. L’essere al mondo è un “parco umano” per privilegiati. La mera esistenza, invece, è la condizione in cui versa la massa dei dominati, esclusa da quei campi in cui il capitale simbolico accumulato esercita tutta la sua forza.

Se i dominat* sono posseduti da inerzia sociale, culturale ed economica, è perché l’agency è riservata ai pochi che possono permettersela. Il principio di visione e divisione e le modalità di conoscenza sono in stretto rapporto con il coefficiente di legalità entro lo spazio sociale. Per Bourdieu, il pensabile e l’impensabile, all’interno di un determinato campo, dipendono sempre dalle strutture che favoriscono disposizioni e prese di posizione, producendone la storia.

Per questo ogni campo rappresenta l’istituzionalizzazione di un punto di vista sulle cose del mondo e sull’habitus che conforma i campi stessi attraverso una serie di credenze, valori e tecniche condivise dai membri di una determinata comunità.

La ragione scolastica

Per Bourdieu, l’universo scolastico costituisce una sorta di compendio del gioco sociale dello stare al mondo. Tenendo presente che ogni campo è caratterizzato da saperi e fini specifici, entrare nel mondo accademico, per esempio, significa congedarsi dal senso e dall’esperienza comuni per dedicarsi all’ottenimento di risultati che hanno a che fare con la libido di tutti coloro che possiedono le disposizioni richieste. In questo senso, gli agenti in campo, oltre a godere di una posizione di privilegio, con la loro storia particolare ed essere in qualche modo il risultato di una conoscenza specifica, possiedono, come condizione per esistere nel campo di quel sapere, il tempo libero necessario alla propaganda della ragione scolastica. Diventare i megafoni di questa illusione epistemologica significa dimenticare i presupposti stessi da cui si origina il pensiero, ossia la disponibilità economica e sociale della skholé (Pascal: «Noi siamo automatismo altrettanto che spirito. È da ciò viene che strumento di persuasione non è soltanto la dimostrazione. Quanto poche sono le cose dimostrate! Le prove convincono solamente l’intelletto. L’abitudine genera le prove più efficaci e più credute: piega l’automa, il quale trascina l’intelletto senza che questo se ne renda conto»).

Per evidenziare l’ambiguità della disposizione scolastica come puro automatismo, Bourdieu prende a riferimento l’interrogazione epistemologica. La logica scolastica è strutturata su un epistomocentrismo di fondo i cui limiti risiedono proprio nella speculazione astratta che esclude ogni presunzione pratica dall’ordine del sapere, producendo un principio sistematico di errore scientifico (il campo della conoscenza), etico (il campo del diritto), estetico (il campo artistico). In questo senso, la comprensione del mondo si articola attraverso due modalità, quella scolastica con le sue regole di campo e quella pratica, che attiva una conoscenza esperienziale comune a uomini e donne, pur anche lontanissim* geograficamente e culturalmente. «L’etnocentrismo scolastico porta ad annullare la specificità della logica pratica, o equiparandola alla logica scolastica […], o rimandandola all’alterità radicale, alla non-esistenza e al non-valore del “barbaro” o del “volgare”» (p. 79).

Bourdieu porta come ulteriore esempi di errore scolastico il “filologismo”, che tende a trattare tutte le lingue come lingue morte, fatte solo per essere interpretate da specialisti; l’intellettualismo semiologico dello strutturalismo, che considera il linguaggio alla stregua di un semplice codice da decifrare piuttosto che come una tecnica performativa del potere; e il forte accento eurocentrico della lettura – del lector universitario – condannata all’individuazione di un unico significato coerente e universale autorizzato dalla traduzione/tradizione/tradimento. Molti problemi legati alla logica scolastica degli indagatori dell’altro, infatti, sono causati dalla difficoltà che si incontra quando una pratica quotidiana in uso in una certa parte del mondo subisce una sublimazione nozionistica – che sia dotta, giuridica, medica o matematica. «La delusione, più volte riscontrata, che i più svantaggiati provano di fronte ai tribunali non è che il limite della frustrazione strutturale cui costoro sono condannati in tutti i loro rapporti con istanze burocratiche. La difficoltà non è minore, anche se non sembra, quando un bisogno, un’attesa o un’aspirazione non formulata deve enunciarsi nelle forme debite, come una richiesta formale, di fronte a un ufficio di assistenza sociale o a qualsiasi altra istituzione di assistenza» (pp. 88-89).

L’inchiesta, procedimento che suffraga le scienze sociali conferendo loro una patente di autorevolezza scientifica, non è mai neutra ma instaura un vero e proprio rapporto di forza tra intervistatore e intervistato che riproduce il rapporto di potere tra dominante e dominato.

Non a caso l’Algeria ancora francese, dove Bourdieu viene mandato per svolgere il servizio militare negli anni ’50, rappresenta il campo dove il sociologo scopre i dispositivi di dominio del capitale simbolico: strumento violento e coercitivo del colonialismo occidentale. Il sottoproletariato algerino con cui Bourdieu si relaziona è un nucleo di potenziale rivolta costantemente addomesticato dalla visione terzomondista della sinistra occidentale del tempo. Il messianismo rivoluzionario europeo non poteva essere compreso dai “barbari” analfabeti del Maghreb, come le masse de* emarginat* e de* sfruttat* del “primo mondo” non possono comprendere le regole del gioco del campo accademico. Per Bourdieu, insomma, la forza degli argomenti non è di rilevanza alcuna contro gli argomenti della forza. È in questo quadro mefitico che sono nati e si sono sviluppati i populismi che attualmente dominano gran parte del mondo.

Il capitale simbolico

Per Bourdieu, il capitale simbolico è un’accumulazione di relazioni e investimenti affettivi. Mentre il capitale economico accumula beni e denaro, determinando gli scarti che ri/producono le di/visioni di classe, il capitale simbolico è l’atto di riconoscimento esistenziale che la società conferisce al singolo individuo. Nel gioco sociale descritto da Bourdieu, la famiglia costituisce il nucleo fondamentale per capitalizzare conoscenza, relazioni e disposizioni sociali in cui il bambino è l’oggetto di interesse principale, paradigma e principio di tale investimento. Se Freud aveva già intuito che l’organizzazione narcisistica della libido del bambino costituisce il primo stadio della conoscenza di sé come oggetto del desiderio, Bourdieu si preoccupa del passaggio da questa prima forma di investimento culturale all’impiego del capitale simbolico accumulato verso l’altro da sé, accedendo così al mondo delle “relazioni d’oggetto”. Nella ricerca “disperata” di riconoscimento, il/la bambin* è un essere condannato alla percezione degli altri. Ed è qui che il sociologo francese individua la violenza del capitale simbolico, quella legata all’onore, al credito, alla reputazione, ottenuti grazie all’approvazione degli altri (Pascal: «La più gran bassezza dell’uomo è la ricerca della gloria; ma è altresì il più gran segno della sua eccellenza; ché, per quanti beni esso possegga, per quanta salute e agi sostanziali, se non gode della stima degli altri uomini, non è soddisfatto»).

L’apprendimento e l’acquisizione delle disposizioni sociali e culturali da parte de* bambin* permette di comprendere la radice storica dell’ordine politico moderno. Il nomos, infatti, è pura metonimia che ri/produce sé stessa. La legge, per operare, non ha bisogno di essere compresa né spiegata. L’origine della legge, come già sottolineava Benjamin, risiede nell’arbitrio e nell’usurpazione e il diritto sancito dalle democrazie occidentali ribadisce la volontà di potenza dello Stato. La legge è sociodicea, una finzione storica, quindi fondatrice, atta a dissimulare la violenza extralegale che è alla radice dell’instaurazione della legge stessa (Pascal: «Bisogna che il popolo non si avveda della verità dell’usurpazione: è stata compiuta in passato senza ragione, è diventata ragionevole. Bisogna che sia considerata autentica, eterna e ne resti celata l’origine, se non si voglia che abbia presto fine»).

All’origine della forza di legge, quindi, non vi è altro che l’habitus, un agire tautologico che non ammette critiche o dubbi, tacciati sempre come derive irrazionalistiche. L’istituzione poliziesca, per esempio, rappresenta un mito originario prodotto dalla religione democratica. Essa fonda la sua esistenza su un sottaciuto ordine legale che autorizza la possibilità di ricorrere alla violenza extralegale.

È questa esibizione della forza negata che caratterizza la polizia dei paesi a democrazia avanzata che trovano nelle loro Costituzioni – sane e robuste – le garanzie atte a dimenticare e a far dimenticare la violenza insita nell’istituzione repressiva e, in tal modo, sublimare la “forza pubblica”, forza riconosciuta come legittima in quanto capace di esercitarsi senza giustificazioni, in quanto violenza simbolica. Il Ddl sicurezza dell’attuale esecutivo italiano enuncia, per fare solo un esempio, oltre la sua dimensione squisitamente repressiva, la pura forza tautologica della legge in quanto legge. Nulla di più.

La violenza simbolica

La violenza simbolica si istituisce quando il dominato conferisce la sua adesione al dominante, in quanto i beni simbolici in comune sono gli stessi. È questa la sociodicea che plasma la forma di dominio della violenza simbolica che performa il rapporto tra dominato e dominante come naturale. Il potere simbolico si impone solo con la collaborazione di coloro che lo subiscono, pur non essendo questo stato di sottomissione volontario. La violenza simobolica ha più a che fare con gli effetti di un potere che ormai si è inscritto, come nel racconto di Kafka La colonia penale, nel corpo dei dominati sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni.

Come afferma Bourdieu, seguendo Pascal, «sono queste disposizioni, cioè pressappoco tutto ciò che Pascal raccoglie sotto il concetto di “immaginazione”, che, come dice appunto Pascal, dispensano la “reputazione” e la “gloria”, procurano “il rispetto e la venerazione alle persone, alle opere, alle leggi, ai grandi”. Sono queste disposizioni che conferiscono alle “toghe rosse” e agli “ermellini”, ai “palazzi” dei magistrati e ai “gigli”, alle “tonache” e agli “zoccoli” dei medici, alle “berrette a quattro spicchi” e alle vesti “quattro volte più grandi del necessario” dei dottori, l’autorità che essi esercitano su di noi» (p. 243). Bourdieu sostiene che è proprio la violenza simbolica ad abolire la storia, respingendo nell’inconscio l’esperienza del mondo come rapporto costruito socialmente.

Cosa aspettarsi dalla fine del mondo

Se il corpo-cosa è il progetto su cui investe la prospettiva della visione idealistica, ossia di quella visione che intende ridurlo a funzione automatica, il tempo-cosa è il progetto su cui investe il punto di vista scolastico per trasformarlo in meccanismo inesorabile, in una sorta di orologio metafisico e aprioristico anteriore a qualsiasi processo storico. Il senso dell’esistenza nel gioco sociale del mondo è pertanto determinato da una serie di attese e aspettative che l’agente esperisce in base alla sua posizione nel campo da gioco. Ciò significa che le opportunità di prendere parte al gioco dell’esistenza e la preoccupazione per essere un corpo-che-conta e conservare la posizione così ottenuta implicano sempre una rappresentazione scolastica dell’esperienza temporale, rappresentazione basata sulla sostituzione della visione pratica con una visione riflessiva. È per questo che ogni domanda sul nostro futuro non riguarda quasi mai il futuro del mondo. Cosa aspettarsi dal futuro si fonda, infatti, su cosa aspettarsi dal presente – ciò che domani sarà vero o falso dev’essere già vero o falso oggi. «L’esperienza del tempo […] si instaura […] nel rapporto tra le attese o le speranze pratiche che sono costituite da un’illusio come investimento in un gioco sociale e le tendenze immanenti a tale gioco, le probabilità di appagamento che offrono a queste attese o, più precisamente, la struttura delle speranze matematiche, lusiones, che è caratteristica del gioco considerato» (p. 298).

In questo momento di oscuri presagi e di oscuro scrutare, il tempo della scienza che scandisce inesorabile la nostra esistenza sociale alienata sembra essersi inceppato. Questa rottura (che rappresenta paradossalmente la reale esperienza del tempo biologico) non è più determinata dai movimenti ciclici – delle stagioni, dell’invecchiamento o della società – quanto piuttosto dalla fine di ogni aspettativa di futuro.

Ma questo scarto ci permette di saggiare il senso della nostra esistenza. Pertanto sembra essere la nostalgia – il sentimento provato quando la cosa desiderata non c’è più o è seriamente minacciata di scomparire per sempre – che ci induce a riesumare il passato piuttosto che a immaginare il futuro.

Allora, incertezza per incertezza, come diceva Pascal bisogna «lavorare per l’incerto». Le speranze di futuro e le reali opportunità oggettive non sono certo uguali per tutt*. La maggior parte della popolazione globale vive in condizioni invivibili. La propagandata dignità universale che dovrebbe conferire a tutt* il giusto grado di vivibilità dell’esistenza è un’illusio che si ingigantisce giorno dopo giorno. Le moltitudini, scoraggiate a perseguire qualsiasi aspirazione che non sia dettata dalle mere leggi di sopravvivenza, ostacolate materialmente e metaforicamente dalla violenza simbolica del capitale a farsi di nuovo soggetto rivoluzionario, tendono a orientare i loro desideri verso obiettivi sempre più tristemente realistici, cioè sempre e solo compatibili con le opportunità inscritte nella posizione occupata.

Per Bourdieu, le scienze sociali potrebbero diventare l’espressione delle nuove moltitudini ribelli, sia che esse si trovino negli anfratti nascosti delle periferie urbane – nascoste all’occhio vigile della sicurezza e del decoro – sia che si trovino alle periferie dell’impero – nascoste nei barconi o nei camion che attraversano quelle astrazioni reali che prendono il nome di confini. Bourdieu ricorda, infatti, che nel mondo sociale esiste una (non)classe – il sottoproletariato – le cui condizioni sono dettate dal caso e dall’incertezza. Tale categoria non si aspetta nulla dalla fine del mondo, non possedendo alcuna prospettiva coerente sull’avvenire. Se la moltitudine de* dominat* è oggi senza tempo – tempo considerato vuoto e percepito come nulla perché fuori dal tempo virtuoso del capitale, fuori dall’orario di lavoro, fuori dal tempo della ri/produzione della famiglia – una soluzione potrebbe essere quella di fare del tempo un uso rivoluzionario che anteponga la vita alle aspettative di vita (Pascal, per un’ultima volta: «Il popolo ha opinioni molto sane […]. I mezzo addottrinati se ne piglian gioco e trionfano additando in ciò la stoltezza del mondo; ma, per una ragione ch’essi non intendono, il popolo ha ragione»).

Meditate, gente, meditate…

Immagine di copertina di thierry ehrmann, Abode of Chaos, da Flickr.


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