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Blue Whale: strumentalizzazione del suicidio
Il Blue Whale è un macabro fenomeno che sta prendendo sempre più corpo. Forse è stato aiutato dalla strumentalizzazione dei media?
• Prove tecniche di un ricatto globale
È dalla messa in onda del servizio delle Iene del 14 maggio che in Italia i giornali ne parlano, ma in Russia se ne discute già da parecchio. Blue Whale, un rituale, una serie di istruzioni circolanti online, che avrebbero spinto un numero non ben precisato di giovani, per lo più russi tra i 9 e i 18 anni, a suicidarsi gettandosi da alti edifici.
Risale a un anno fa – 16 maggio 2016 – l’articolo sul periodico russo Novaya Gazeta nel quale si portava l’attenzione pubblica sulla questione. 130 sarebbero state le vittime di suicidio che Novaya attribuiva, senza prove certe, al fantomatico e macabro gioco. L’articolo destò stupore e critiche, ma soprattutto accrebbe la notorietà del fenomeno, portando alla registrazione di casi di emulazione in Sudamerica, Cile, Brasile, Paraguay e Kenya.
Ad accendere l’attenzione mediatica in Italia è stato un recente episodio verificatosi a Livorno, dove il 6 marzo un quindicenne si è tolto la vita gettandosi dal 26esimo piano del grattacielo più alto della città. Stando alla ricostruzione, sarebbe entrato nell’edificio da solo alle 7:30 di mattina, compiendo il gesto dopo un’ora riprendendo la scena con un telefonino. Da lì a poco sono nate le prime ipotesi di collegamento tra il caso livornese e quelli russi, poi portati in televisione con il servizio delle Iene.
Ma di cosa si tratterebbe esattamente? Blue Whale è il nome dato a un gioco nato e diffuso su gruppi del social network russo Vkontakt dall’autunno del 2015. Philip Budeikin, giovane studente di psicologia, è stato recentemente arrestato in quanto artefice principale del fenomeno. Nel novembre del 2015 una ragazzina russa molto popolare si suicidò gettandosi sotto un treno, e Philip, insieme ad altri, sfruttò la situazione collegando la morte al suo gruppo, iniziando ad acquistare notorietà. Il “gioco” consiste in 50 istruzioni da eseguire una al giorno, come autoinfliggersi ferite, ascoltare musica deprimente, assistere a video di mutilazioni e suicidi, oltre che altri compiti segreti impartiti dagli amministratori del gruppo, fino al fatidico 50esimo giorno, nel quale dover rinunciare alla propria vita gettandosi da un alto palazzo.
Parlare di bufala, come alcuni hanno fatto dopo il servizio di Mediaset, è impreciso (ma d’altronde è la categoria di #fakenews ad essere essa stessa un’imprecisione): casi di suicidio con dinamiche simili ci sono stati, così come è certo che alcuni di questi casi – forse meno di quanto dichiarato – siano stati effettivamente ricondotti a queste istruzioni circolanti in rete. E non sono le uniche. Così come Blue Whale, prima dell’articolo del Novaya, era sconosciuto a chiunque, così oggi circolano altri fenomeni simili, più o meno organizzati, più o meno spontanei, più o meno seguiti.
Il punto allora, oltre che capire dove finisce la notizia e dove iniziano le voci di corridoio, è iniziare a discutere di come una notizia venga raccontata, di quali siano le ragioni che portano un giovane al suicidio, di come il mezzo di diffusione possa diventare capro espiatorio di un fenomeno che ha radici più profonde. E di come fenomeni come questi possano essere strumentalizzati.
In un episodio di Black Mirror 3 – che più passa il tempo più si rivela una serie televisiva di una capacità analitica disarmante – un giovane ragazzo viene spinto a compiere vari azioni illegali o socialmente discutibili su ricatto di un misterioso contatto online, che è riuscito a impossessarsi di materiale compromettente della vittima con il quale lo ricatta. In un’altra puntata si porta all’estremo l’importanza sociale della popolarità, dove questa è divenuta condizione imprescindibile dei rapporti umani e lavorativi. Ovviamente sono situazioni differenti da quella del Blue Whale, dove però, prima di un’accusa al mezzo tecnologico, emerge il ruolo di una società individualizzata, competitiva, volta alla spettacolarizzazione e alla gamificazione della vita.
Un altro social finito sotto i riflettori mesi fa fu Periscope, un servizio che offre la possibilità di pubblicare video in diretta geolocalizzati visibili istantaneamente da qualunque utente in giro per il mondo. Anche qui si registrarono vari casi di suicidi in diretta, in America così come a Parigi. Nel caso di Periscope è evidente l’intenzione di utilizzare il mezzo come palcoscenico sul mondo, per usare i famosi 15 minuti di celebrità nel modo più scenico possibile.
La stessa pompatura mediatica di Blue Whale – come l’ha definita Puente nel suo articolo di approfondimento sulla questione – ha portato paradossalmente a spingere più giovani a praticare il gioco. Attenzione, non si sta certo dicendo che di un fenomeno del genere la stampa non se ne dovrebbe occupare, ma basta vedere i primi minuti del servizio delle Iene per capire la differenza tra un report di cronaca e la spettacolarizzazione di una notizia. Momenti di suspense a caso, aggiunta di epicità inappropriata, frasi d’effetto senza contenuto giornalistico e ovviamente le domande di routine ai parenti delle vittime su quanto possa mancare da “poco” a “tanto” una figlia suicidata.
Ci sono sicuramente molti modi di descrivere un fenomeno di questo tipo. L’autore del gioco parla di una pulizia sociale, volta a rimuovere i rifiuti della società, ma considerarlo lui stesso causa delle morti sarebbe un’approssimazione che non tiene conto della complessità della fase giovanile, dell’individualizzazione sistematica che avanza, della mancanza di tempo e di spazi per la cura di sé, delle imposizioni dei nostri stili di vita.
Non è un caso se, con una retorica non troppo velata di paternalismo, le istituzioni e il discorso pubblico abbiano già utilizzato questo caso per riproporre il tema del controllo sui contenuti dei social, la normazione della vita online dei giovani, come se quello oltre lo schermo fosse un mondo altro, e non piuttosto il riflesso di tutto ciò che è al di qua dello schermo, al di qua dello specchio nero.
* Fonte: ilcartello