editoriale

Bilancio di una miserevole campagna

La più brutta campagna dal 1946 – su questo il giudizio è unanime e depresso. Ma non staremo certo a lacrimare sul degrado della vita politica italiana, la crescente indifferenza partecipativa, la scomparsa dei manifesti e dei comizi, l’incubo dei talk show e compagnia arringando.

Cerchiamo piuttosto di cogliere un dato essenziale, come cioè la qualità della campagna anticipi la distribuzione dei suffragi e gli esiti successivi: insomma, cosa ne resterà sopravvivendo alla vergogna e alla noia.

Di cosa non si è parlato? Di politica internazionale (ma questa non è una novità). Di Europa in termini di strategie concrete (molto invece con innocue opzioni retoriche pro e contro). Di sistema economico e mercato del lavoro, di disoccupazione, povertà, precariato giovanile e violenza di genere. I vari schieramenti brancolano nel buio e non hanno nessuna intenzione di affrontare sul serio tali questioni una volta constatato il fallimento delle tattiche low cost finora adottate. Il vuoto è stato colmato da una serie di mirabolanti e spesso rancide promesse senza copertura finanziaria, su cui evidentemente non ci sono grandi divergenze, trattandosi di regalare tutto o tutti senza priorità e coerenza: “chiu pilu pe tutti”, alla Cetto Laqualunque. In questo l’esibizione circense di Berlusconi da Mentana è stata da togliere il fiato.

Poi è venuta Macerata e Luca Traini ha impresso la svolta: sicurezza e migranti, fino allora rimasti sotto tono e bagaglio esclusivo della Lega e dei fascisti di secondo (Forza Nuova) e terzo millennio (Casa Pound), hanno preso il centro della scena ispirando tutto il discorso pubblico con una gamma di variazioni: rafforzamento delle forze dell’ordine e intervento dell’esercito (comune a tutti), governo restrittivo  dei flussi migratori (vantato da Minniti), aiutiamoli a casa loro, cioè nei lager libici e occupando il Niger a mezzadria con francesi e Usa (partiti di maggioranza in genere), espelliamo 600.000 clandestini (Berlusconi, mettendo le mani avanti che tanto non ce la faremo), espelliamoli davvero e nel frattempo rendiamo loro la vita impossibile (Salvini), tutto quanto precede più l’occupazione della Libia e qualche pogrom interno (fascisti assortiti). Tiepide rimostranze LeU e silenzio del M5s, che ha smorzato i toni razzisti dei mesi precedenti (i non dimenticati attacchi alle Ong, “taxi del mare”) solo perché l’assunzione di uno stile governativo, separato dalla scelta di un partner, lo rende oltremodo prudente e vago.

Macerata, però, oltre a rinfocolare la questione dei migranti (le vittime), ha posto quella del carnefice, il fascismo organico che lo ha mosso. E dunque si è discusso all’infinito della risorgente violenza degli squadristi, della loro richiesta di legittimazione e, all’inverso, della legittimità dell’antifascismo e dei suoi metodi di lotta. Come nel caso dei migranti si era rotto l’argine della solidarietà più elementare (bollata come “buonismo”), arrivando allo xenofobo “prima gli italiani” e al suprematismo della “difesa della razza bianca”, così è crollata la barriera retorica della Repubblica e Costituzione fondate sull’antifascismo e siamo ritornati agli “opposti estremismi, in cui la discriminante non è fascismo o no, ma l’uso della violenza. E dunque è considerato antifascista chi inneggia al fascismo e ne esibisce gesti e simboli ben tutelato dalla polizia, fascista chi cerca di impedire i rigurgiti fascisti e nazisti impegnando i corpi (magari soltanto la voce, come una nota maestra torinese) contro i loro portatori e protettori. Il tema del fascismo è stato neutralizzato presso gli schieramenti che ne hanno, in linea di principio, memoria storica (filo-fascisti compresi), sdoganando in pieno le formazioni “post-ideologiche” e dunque “né di destra né di sinistra” quali il M5s – nelle cui fila e fra i cui dirigenti è ben difficile distinguere fra indifferenza da “superamento” e pura e semplice ignoranza.

Si è verificato qui un fenomeno ben noto nella letteratura sul populismo di destra (per es. nei testi di Y. Mény e Y. Surel), che cioè tali formazioni, comprese quelle apertamente fasciste di rado prendono il potere in paesi democratici – sta accadendo solo nell’Europa dell’Est e, in parte, con l’ondivaga presidenza Trump – ma sempre più spesso stanno condizionando l’agenda dei partiti tradizionali, che pretendono di ”combattere i populisti” appropriandosi con un minimo di sfumature i temi più impresentabili da loro agitati. Così la Merkel riduce drasticamente il numero e i diritti dei migranti per frenare l’AfD e il Pd fa la voce grossa sui flussi migratori, apre orizzonti africani neocoloniali e distingue fra antifascismo pacifico e antifascismo sedizioso, mentre Berlusconi nega l’esistenza del fascismo e finge di spazzare via i clandestini per tenere a bada l’alleato Salvini. Questa inclinazione sposta irreversibilmente il centro verso destra e minaccia di sopravvivere alla logomachia elettorale e di incistarsi nei nuovi governi, siano essi di centro-destra o di larghe intese o “presidenziali” (ovvero di larghe anzi larghissime intese in maschera). Si costituisce un “senso comune” moderato che legittima posizioni reazionarie e revisionismi storici quale “male minore” rispetto ai deliri conclamati di stampo suprematista e nazista. I frutti della “banalizzazione” sono velenosi e di facile consumo.

Inoltre il neofascismo di nicchia è diventato fenomeno stabile e diffuso nelle periferie disagiate e abbandonate dalla sinistra e dunque il suo sdoganamento avrà effetti di lunga durata, ben al di là del suo uso strumentale sotto voto. Questo ospite indesiderabile si inserisce così organicamente nella fiorente complementarità del populismo al costituzionalismo rappresentativo: la crisi del sistema dei partiti e l’incertezza economico-sociale generano richiesta di protezione in comunità immaginate, di cui la comunità di popolo nazifascista è l’archetipo e la versione estrema e “l’Italia agli italiani” la formula mitigata a uso dei diseredati effettivi o che “si percepiscono” tali.

Altro effetto che permarrà, quali che siano i risultati e le combinazioni governative che potranno uscirne (incluso un ritorno rapido alle urne), è la crescita dell’astensionismo e, al di là dei numeri, della sfiducia nelle istituzioni anche in chi continua a votare per una ragione o per l’altra o per abitudine. Il palese disinteresse con cui sono state seguite proposte politiche e promesse fiscali e retributive testimonia tanto lo sconforto quanto il buon senso dei destinatari. Ma è un brutto segno per la democrazia.

Non è impossibile, infine, che all’indomani dello scrutinio coalizioni e singoli partiti possano scomporsi, lasciando esplodere le contraddizioni interne e quelle fra programmi e realtà che hanno segnato tutta la campagna e perfino l’autopresentazione dei partiti, che si sono limitati a invadere i teleschermi lasciando vuote le piazze e financo i tabelloni stradali. Come se nessuno ci credesse. Non è affatto detto che lo scenario attuale sia stabile, anche perché presto l’Europa chiederà il conto del deficit e la guerra commerciale scatenata da Trump e le nuvole nere della crisi non lasciano presagire nulla di buono.