ROMA

Bella storia #3. I tanti volti delle Fosse Ardeatine

Giovedì 21 marzo si è tenuta la terza lezione del festival “Bella Storia” che ricorda la strage delle Fosse Ardeatine attraverso la piattaforma documentale sperimentale ViBia (Virtual Biographical Archive).

In occasione del settantacinquesimo anniversario della strage del 24 marzo, l’evento organizzato per la terza lezione del festival “Bella Storia” ha permesso di ripercorrere la storia documentaristica delle Fosse Ardeatine con materiali e documenti biografici, oltre a sollecitare una riflessione sull’importanza della memoria e sul suo uso, elaborato o spontaneo, nel tempo presente.

L’incontro si è tenuto nel quartiere di Centocelle, alla libreria-bistrot “La pecora elettrica”, dove Alessia Glielmi, tecnologa e responsabile degli Archivi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Doriana Serafini e Sara Vannozzi, hanno presentato il progetto ViBiA: Virtual and Biographical Archive victims of Fosse Ardeatine. Un lavoro di ricerca, digitalizzazione e analisi di una vicenda su cui ancora è necessario fare luce e che vede, per la prima volta, l’unione fra documenti e oggetti appartenuti alle 335 vittime della strage. Una lunga ed elaborata raccolta di oggetti, dati, ricordi scritti e orali di testimoni e familiari, che vanno a comporre un archivio digitale in cui trovano spazio anche quegli oggetti e documenti danneggiati e tornati a essere disponibili e consultabili grazie a un rigoroso lavoro di restauro e conservazione.

L’Università degli Studi di Roma, ‘Tor Vergata’ – Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società, ha sviluppato la piattaforma virtuale ViBiA (Virtual Biographical Archive), un archivio virtuale delle vittime delle Fosse Ardeatine. Il progetto è modulare, è finalizzato alla creazione di una piattaforma documentale sperimentale e si propone come un modello descrittivo innovativo per lo studio delle stragi.

A ciò si aggiungono le fonti, per lo più primarie, come quelle del Museo Storico della Liberazione di via Tasso 145, l’Ufficio Storico della Polizia di Stato e l’Anfim (Associazione nazionale delle famiglie italiane martiri).

 

ViBiA è l’esempio di un punto d’incontro tra memoria e sapere tecnologico: un esperimento di interdisciplinarità in cui, attraverso un potente coinvolgimento sensoriale dettato dall’impatto delle immagini, ci viene restituito il senso di un passato che è Storia pubblica, incastonata in un complesso di storie individuali.

 

L’obiettivo del progetto è, infatti, restituire a quelle vittime – alcune ancora ignote – un volto, un nome, una biografia. La piattaforma accoglie, quindi, la schedatura di documenti per lo più inediti e la catalogazione di oggetti di provenienza diversificata, appartenenti alle vittime, unito ad una serie di dati biografici e storici.La ricerca in questione, come anche le molte informazioni e i molti dettagli che ne emergono, ci mostra non solo quanto sia necessario continuare ad esplorare i labirinti della storia, ma anche come sia inevitabile, in quanto ricercatori, studiosi o membri di una collettività, di un gruppo o di un territorio, l’elaborazione di una “morte di massa” che troppo spesso avvertiamo con percezione passiva. In qualche modo, portare la Storia nelle arterie vive della città moderna equivale a superare quelle distanze spazio-temporali, che spesso ci costringono ad ignorarci a vicenda anche in condizioni di coesistenza.

Se la memoria rappresenta il filo conduttore del festival “Bella storia”, oltre che il collante tra passato e attualità, le Fosse Ardeatine sono quella ferita aperta della città che si incanala verso un coagulo di ricordo, coscienza ed emozione. Proprio per la sua portata complessa, eterogenea e stratificata, i racconti orali riassumono e riesumano uno spazio e un tempo lungo un secolo “breve” che parla all’intera città.

Smuovendo la lastra superficiale della memoria ci permette di ascoltare e osservare, seppur dall’angolazione di una generazione figlia di uno spazio fisico e politico fatto di “pace apparente”,una vicenda, sì carica di dolore che oltrepassa le generazioni e le geografie cognitive, ma che ci riconduce a un capitolo di storia che ancora subisce il peso della sua evocazione. Allo stesso tempo questo peso viene alleggerito dal tempo, da una presa di distanza che molto spesso tende ad insterilire il ricordo, rendendolo estraneo e lontano, fino ad affievolirsi: una «piuma di piombo» (come scriveva Shakespeare, parlando di quella tensione amorosa che conduce a vagare angosciati e senza scopo)che grava sulla nostra memoria e sulla nostra identità.

Era il 23 marzo del 1944, ormai settantacinque anni fa. Dai giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, dopo l’armistizio che aveva portato l’Italia ad abbandonare l’alleanza con la Germania di Hitler per schierarsi al fianco degli Alleati, Roma era occupata dalle truppe tedesche.

Al tempo le azioni partigiane erano già state molte, ma mai così eclatanti come quella che avvenne a Roma, in via Rasella,una parallela di via del Tritone,probabilmente una delle storie più importanti nell’ambito della liberazione nazionale. È fondamentale ricordare che via Rasella non fu l’unico episodio in cui i tedeschi vennero uccisi nella città di Roma e la strage delle Fosse Ardeatine non rappresenta l’unica azione di rappresaglia dell’esercito nazifascista contro i partigiani. Si aggiungono altre morti, altre fucilazioni, non sempre giustificate da un attacco ai partigiani: si potrebbero citare i settantadue uomini uccisi a Forte Bravetta, i dieci fucilati a Pietralata, altre dieci donne uccise a Ostiense, i quattordici massacrati alla Storta, oppure i settecento deportati dal Quadraro. A questi numeri si sommano le deportazioni di massa e i rastrellamenti nelle strade. E, se vogliamo, a questo si aggiunge la guerra e le sue derivazioni: i dissidenti, gli sfollati, il coprifuoco, i bombardamenti, la miseria, la paura. Ma via Rasella è un capitolo con cui, non solo Roma deve ancora confrontarsi, ma tutta la costellazione di astanti e responsabili, che travalicano i confini geografici delle mura cittadine. Essa ha rappresentato un’azione seguita da una rappresaglia feroce, tanto fulminea che difficilmente sarebbe potuta essere fermata. L’eccidio fu uno dei pochi ad avere luogo in un contesto urbano, dove morirono persone di estrazione molto diversa, che possono essere ritenuta rappresentativi della struttura sociale romana del tempo.

 

Il giorno precedente, una bomba sistemata da un gruppo di partigiani uccise 33 soldati tedeschi e 6 civili italiani. La risposta non si fece attendere: i tedeschi rastrellarono 335 persone in tutta Roma che, il giorno dopo, vennero uccise e sepolte nelle fosse Ardeatine, poco lontano dalla città.

 

Un numero “esemplare” perché non determinato dal caso. Quando la notizia dell’attacco venne comunicata a Hitler, questi chiese una punizione rigorosa: cinquanta italiani avrebbero dovuto essere fucilati per ognuno dei soldati tedeschi morti nell’azione. Dopo un’ulteriore valutazione, e dopo che il comandante dell’esercito tedesco in Italia, Albert Kesselring, persuase Hitler ad abbassare la cifra dei condannati, venne deciso che sarebbero stati dieci italiani a morire per ognuno dei tedeschi morti nell’attentato. 320 Todeskandidaten, ovvero persone destinate a morire, che divennero poi 330, dopo che il giorno seguente all’attentato morì un altro soldato tedesco. Il pomeriggio del 23 marzo Herbert Kappler, ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca di Roma, cominciò le ricerche degli oltre trecento ostaggi da fucilare. Vennero radunati tutti gli ebrei che non erano ancora stati deportati, i detenuti nella prigione delle SS di via Tasso e nel terzo braccio del carcere di Regina Coeli, destinato ai prigionieri politici. Alcuni erano già stati condannati a morte e all’ergastolo e altri erano prigionieri della Resistenza. Nonostante ciò, mancavano ancora decine di ostaggi.

Alla fine, mettendo insieme anche i nomi di presunti oppositori al regime, comunisti ed ebrei, ed effettuando una ricerca che Alessia Glielmi definisce “dei candidati alla morte”, Kappler riuscì a riempire la sua lista di 335 persone, cinque in più rispetto al numero pattuito. I prigionieri vennero condotti all’interno delle cave e uccisi con un colpo alla nuca, eseguito dallo stesso Kappler e dai suoi ufficiali.Il luogo con i corpi esanimi venne fatto esplodere con la dinamite e serrato da una muratura, che riuscì a tenere lontano lo sguardo pubblico per evitare eventuali tumulti o disordini.

A oggi non tutte le 335 vittime sono state riconosciute: nove salme rimangono senza un nome.

La strage delle Fosse Ardeatine, insieme all’azione di via Rasella, non rappresenta ancora un capitolo chiuso: la storia di un lutto pubblico che ripercorre le mutazioni politiche di un paese e si compatta nello spazio di una città, Roma, duramente colpita, ma che non vivrebbe senza l’incontro e la convergenza delle sue microstorie.

Parlare delle Fosse Ardeatine, continuare a esplorarne i contorni e le intensità sotto varie prospettive, significa non abbandonare questa strage nelle cave in cui venne consumata e sepolta, non lasciarla invecchiare dietro quel muro che per qualche tempo ne ha occultato l’esistenza. In questo senso progetti come ViBiAnon rappresentano solo un lavoro scientifico o intellettuale, ma un investimento politico e umano.  Il motore che spinge questa ricerca, continua e rigorosa, è il fatto che ancora vi siano delle vittime senza nome. Da qui nasce lo sforzo di comparazione dei documenti e dei dati, come anche di quei piccoli oggetti, fogli di carta e stralci di stoffa, che apparentemente non posseggono la stessa esaustività di un documento ufficiale, ma che necessitano di essere esplorati ancor più profondamente nel tentativo di ridefinirne la trama e ricollocarli in un contesto biografico. Ai nomi e cognomi si aggiungono quindi anche le foto, gli effetti personali, fogli matricolari, il registro dell’ingresso e dell’uscita dal carcere. Alle immagini dei corpi esanimi e ammassati delle vittime si associa un volto, una famiglia, una professione e un’identità.

Infine, la storia del quartiere di Centocelle, il luogo scelto per questo terzo incontro, si incrocia con questo capitolo di storia, sia per l’importanza che gli compete nella parabola della Resistenza, sia per le valenze degli stessi soggetti coinvolti nella strage delle Fosse Ardeatine. Per questo, l’incontro non poteva non concludersi con la lettura, a piena voce, dei loro nomi.

Gli anniversari degli eventi che ci vedono partecipi nella condivisione di uno spazio fisico o socio-politico, e quindi identitario, scandiscono inevitabilmente il tempo della nostra volontà di ricordare il passato. Personalmente preferisco immaginare il momento del ricordo, di una morte individuale o di massa, soprattutto come la celebrazione della potenziale vitalità dell’esistere nel presente. Ascoltare e comprendere la narrazione degli eventi assunti a significanti simbolici determina un approccio che allo stesso tempo sia attento alla storia individuale e non si fermi a una rappresentazione nostalgica, ma si indirizzi verso una ricerca costante di luoghi, immagini e valori che rappresentano il nesso fra memoria collettiva e storie individuali. Le tante memorie riconducibili ai testimoni delle pagine più buie della storia, pur nella lontananza, meritano non solo una riflessione collettiva, ma anche che la loro custodia sia sempre affidata alla volontà cosciente dei protagonisti del nuovo secolo.