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OPINIONI
Bastardi, per dirla in gergo Ztl
Meloni tiene a freno la sua intima cattiveria per darsi un volto presentabile, ma ogni tanto “si fa riconoscere”, quando troppi problemi e fallimenti intralciano le sue furbesche manovre. Perché il corpo elettorale ancora le crede e perché l’opposizione di sinistra è così debole?
Non so se Meloni sia davvero bastarda dentro, come sembrerebbe dai suoi video di attacco – da quello sui campi nomadi in cui li invitava a “nomadare” agli appelli strafatti a Vox, dallo sprezzante annuncio “la pacchia è finita” fino all’ultimo, dedicato ai migranti, in cui li avvertiva a non mettersi nelle mani degli scafisti e rischiare la morte per finire TUTTI per 18 mesi nei lager di intrattenimento. Non che sia cattiva per natura e in tutti i casi, certo non lo è con la figlia Ginevra, che coccola e si porta in giro in tutte le pizzerie del globo terraqueo, o con il partner Andrea, l’uomo dei lupi, e neppure con l’adorata Sorella e l’autorevole Cognato. Perché non accontentarsi della filastrocca, intonata dalla stampa docile (“Corriere” e “Foglio” in testa) della doppia faccia di Meloni, di governo e di opposizione, quella composta che discetta all’Onu di “algoretica” e la comiziante con il braccio che scatta nel saluto romano come il dottor Stranamore di Kubrick?
Il fatto è che, in politica, non contano le intenzioni e l’intimità dell’animo ma il machiavelliano “parere”, ovvero si è quello che si vuole mostrare. Se fai un video da bastardo, sei un bastardo e vuoi farlo sapere per ottenere un effetto che ritieni vantaggioso. Che poi serva davvero, questo è un altro discorso, da rinviare ai suoi spin doctor, i poco geniali Fazzolari e Mollicone che tramano nell’ombra, insieme al più sveglio Mantovano, e non si espongono troppo come gli impresentabili La Russa, Delmastro, Donzelli e tutta la malriuscita covata Atreju.
E allora la Meloni vera è quella che minaccia l’internamento di tutti i migranti irregolari (cioè di tutti i migranti che stanno arrivando), che studia come deportarli in Ruanda, sul fallito modello inglese, che proclama di creare hot spot in paesi “sicuri” come Libia, Tunisia, Egitto per esternalizzare le frontiere (Gruber mi perdonerà mai?). Una variante razziale (dato che è esplicita, nel suo recentissimo libro-intervista, la demarcazione fra i bravi moldavi bianchi e i criminali neri) della guerra ai poveri e ai minori disagiati nazionali, scatenata con il decreto Caivano e anticipati dal decreto rave. Che poi a questa faccia feroce non corrispondano (ancora) condanne e arresti, segnala l’irrilevanza delle “emergenze” sollevate, non la moderazione nell’uso del populismo penale a scopi propagandistici.
Insomma, Meloni è piena di grane, di vincoli finanziari e di agguati da parte dei suoi alleati, quindi non riesce a fare le cose che vorrebbe fare, deve ripiegare su affermazioni identitarie aggratis e lo fa con ferocia inapplicabile. L’astuzia politica blocca un estremismo che emerge a tratti anche nei discorsi più contenuti: zampilla quando fa la complottarda ed evoca Soros, quando se la prende con gli africani “ricchi” che possono permettersi di pagare gli scafisti, quando tace ostinatamente sugli argomenti dove non può scantonare. Evita le conferenze stampa perché teme di sbottare, schizza malvagità quando, in un dispositivo applicativo del “suo” decreto Cutro, esige cauzioni da 4.938 euri e altre garanzie da asilanti stremati affinché non precipitino nell’inferno dei Cpr. Come tutti gli underdog da guardia è allenata dai padroni ad azzannare i poveri. Come tutti gli underdog furbi riesce a reclutare alcuni poveri per osannare i padroni. Quando si viene al dunque deve rimangiarsi in fretta le poche sgangherate proposte da “destra sociale”, tipo la tassazione degli extra-profitti bancari.
Gli interrogativi sono due: 1) perché questa strategia sovranista abborracciata ma di fondo razzista (il fascismo internazionale del terzo millennio) ha successo? 2) Quale consistenza hanno le formule dell’opposizione?
Il tutto al netto, della concorrenza elettorale imposta dal carattere proporzionale del voto per le Europee, che spiega ad abundantiam i bisticci fra gli alleati di governo e di opposizione.
1) Decenni di spoliticizzazione indotta con campagna martellante dalla stampa e dai media, a lungo dominati dalla sinistra in declino, versione ottusa di una cultura per cui “ideologia” e “classe” erano diventate bestemmie, hanno lasciato il loro segno. Detto in termini più precisi e materiali: la sconfitta di ogni movimento di massa per opera di governi e apparati ideologici a lungo controllati dal Pci, Pds, Pd in coalizione con altre formazioni di centro e di destra, mascherati da “tecnici” e sempre più inseriti in un ciclo reazionario europeo e occidentale ha distrutto e demoralizzato ogni opposizione effettiva dal 1978 in poi. Basti ricordare come l’ultimo grande sussulto generazionale nel 2008-2010 fu stroncato non da Berlusconi, ma dal defunto Napolitano chiamando Monti e scartando perfino l’ipotesi moderatissima di nuove elezioni. Una lunga storia sia di condanne giudiziarie che hanno travolto, dal 7 aprile a Genova, un’intera generazione di militanti sia di smantellamento di istituzioni del welfare e della scuola e di compressione salariale e precarizzazione del lavoro.
Ha trionfato una linea di destra ammantata di ideologia di sinistra rifomista. L’anti-ideologia iper-ideologica del neoliberalismo. Una strada tutta in discesa per l’avvento al potere di una formazione di destra salvata dal suo essere formalmente all’opposizione delle ammucchiate degli ultimi anni, ma pronta a collegarsi a qualsiasi prezzo con gli altri pezzi di destra che invece del corrotto potere neoliberale e consociativo erano stati complici e fruitori per vent’anni. Da re Giorgio a mamma Giorgia. E così le voci della fogna sono diventate egemoni, irose per il lungo digiuno e prontissime a dimenticare il loro differenziale reazionario rispetto al neoliberalismo. La scelta atlantica (unico tratto geniale di Meloni) nel contesto della guerra in Ucraina ha fatto il resto nel giro di pochi mesi. Game over.
2. L’opposizione di sinistra ha avuto le sue colpe nel creare questa situazione in generale e nel tempo, ma cosa fa oggi per contrastarla, dopo aver preso atto del disastro combinato nell’ultimo biennio sul piano strettamente elettorale con il mancato accordo fra Pd e M 5 Stelle che ha consegnato alla coalizione di destra prima l’Italia intera poi la regione Lazio e altre strutture amministrative minori? Qualche piccolo cambiamento autocritico (sulle alleanze elettorali e sul Jobs Act) ha accompagnato il cambio di direzione, con l’ascesa di Elly Schlein e la contrastata riproposizione del “campo largo”. Nello stesso senso va il rinnovato protagonismo politico della Cgil che, con varie riserve, ha però finito per accettare il tema del salario minimo su cui si è creato un notevole consenso parlamentare di opposizione. Questo ha messo in palese difficoltà il governo, che ora cerca di giocare di rimessa investendo i pochi soldi di cui dispone sul cuneo fiscale a scapito dell’antipopolare flat tax. Landini è il vero garante dell’accordo “sociale” Schlein-Conte, al momento sottoposto a forte tensione per la concorrenza elettorale.
La contesa sulle percentuali di voto copre però disaccordi su terreni più sostanziosi, come l’immigrazione, che potrebbe smorzare i vantaggi per l’opposizione derivanti dall’evidente fallimento delle destre litigiose su questo tema. Per non parlare di altre ambiguità di Conte e del suo movimento. Inoltre le stesse proposte del Pd sono ancora vaghe e restano preliminari a un’iniziativa legislativa e di massa, devono essere messe a terra.
L’abolizione della Bossi-Fini (inestricabilmente connessa a ogni programmazione di nuovi flussi, che dovrebbero innanzi tutto pescare fra i “clandestini” già arrivati) e la sconfessione delle strategie di Minniti restano appena un proclama e non si può dire che sia tanto tangibile il rilancio dello Jus soli. Contro il raddoppio dei Cpr è partita una giusta resistenza, ma non credo che basti un congelamento dell’attuale orrida situazione di detenzione amministrativa con saltuari rimpatri coatti – vogliamo rimandare a Saied i migranti neri di cui lui subito si sbarazzerebbe espellendoli senza acqua nel deserto libico? O ricacciare uomini torturati e donne stuprate nei lager della Tripolitania e della Cirenaica? Tanto varrebbe insediarli direttamente nell’alveo del fiume Derna in attesa della prossima ondata di maltempo…
Il vero limite di Schlein e del suo fragile gruppo dirigente è però lo stesso su cui si fonda la legittimità internazionale di Meloni. Lo scenario bellico atlantico e la sfida in Ucraina – e sappiamo che quest’ultimo punto di ricaduta divide non solo lo schieramento riformista ma anche parti cospicue dell’estrema sinistra italiana. Qui però stanno intervenendo delle novità oggettive che mutano il quadro di riferimento e fanno presagire variazioni rispetto allo stallo attuale. Il giorno della pizzeria è stato molto piò infausto per Zelensky che per la stessa Meloni. Il leader ucraino, nel suo giro per ottenere armi, ha riscosso molta indifferenza all’Onu (la stessa Meloni non si è sbracciata) e soprattutto ha toccato con mano l’ostilità dei parlamentari repubblicani a Washington, che hanno espresso riserve su nuovi aiuti e rifiutato la solenne riunione comune di Camera e Senato. Un preavviso di quanto potrebbe succedere nelle settimane più infuocate della campagna elettorale Usa, in cui se ne vedrà di ogni per azzoppare Biden, e ancor peggio se dovesse vincere l’isolazionista Trump.
Nello stesso tempo Moraviecki ha minacciato di mollare Zelensky per la controversia sul grano (i contadini danneggiati sono un grosso spezzone del voto per il suo partito nelle prossime elezioni del 15 ottobre) e anche per la collocazione complessiva verso la Russia, storico nemico comune ma con ragioni diverse. L’eroe nazionale ucraino Bandera, del resto, i polacchi se lo ricordano con poca simpatia – tanto per la memoria storica. Orbene, Meloni ha pensato bene, con quei chiari di luna di non bruciarsi né l’alleato di oggi, Moraviecki, né il riferimento di ieri e forse di domani, Trump, risparmiandosi sia l’omaggio a Zelensky al Consiglio di sicurezza Onu che il bacio della pantofola al ricevimento di Biden. Meglio la pommarola familiare alla “Ribalta”. Ma al ritorno in Italia cosa fare?
Il prestigio internazionale di cui gode Meloni è sancito dall’atlantismo, quanto potrà reggere nei nuovi squilibri che si stanno delineando? Non che siano positivi – un cedimento all’aggressore Putin e l’avvento del suprematista Trump non sono cose belle e abbiamo poche speranze che l’Europa riesca in breve tempo a gestire un pragmatico quanto necessario piano di pace per l’Ucraina. Si potrebbe arrivare alla pace nel modo peggiore. Inoltre dal fallimento meloniano potrebbero uscire soluzioni davvero insoddisfacenti – in panchina si scaldano Draghi e Gentiloni, mentre le elezioni europee (che precedono di qualche mese quelle Usa) non è detto che confermino Ursula in deriva a destra ma potrebbero determinare scenari ancora più autoritari, ivi compresa un’ascesa dei nazisti di AfD che porrebbe problemi non di ciclo reazionario ma di salire in montagna.
Risulta evidente che l’agenda politica europea e mondiale non la fa l’opposizione italiana e neppure l’asse Macron-Scholz ma viene dai contraccolpi mondiali della crisi della globalizzazione e dal potente movimento migrante dei popoli (in Medio Oriente, nell’Asia sud-orientale, in Africa, attraverso il Mediterraneo e lungo l’istmo messicano) che non trovano altro sbocco alla crisi economica e climatica. In confronto la nostra guerricciola ai poveri e ai migranti fa sorridere, ma è su questa che si misurano i nostri bastardi, dentro e fuori, e siamo costretti a misurarci noi.
Immagine di copertina da Wikimedia Commons