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“Barack Obama è meticcio come gli italoeritrei”, intervista a Vittorio Longhi

L’autore de “Il colore del nome” parla del suo libro, del perché usa la parola meticcio, di come ha scoperto a Bruxelles di essere italiano (e italoeritreo), dei tanti luoghi che ha attraversato – inclusa Genova, luglio 2001. Per provare a capire come «la rimozione del colonialismo influenzi ancora oggi la nostra percezione del sud globale».

Vittorio Longhi è in costante movimento. Chi ha letto Il colore del nome lo sa: Egitto, Bruxelles, varie parti d’Italia, Eritrea, è un libro che è anche una mappatura di luoghi diversi dove l’autore si sposta. Proviamo ad incontrarci da qualche parte, ma il movimento è troppo. Ci sentiamo allora al telefono, un lunedì autunnale che sembra più tarda estate, tra l’insediamento di Giorgia Meloni come primo ministro (maschile come vuole lei) e il suo primo discorso in Parlamento. Parliamo, naturalmente, del suo libro (di cui si può leggere la recensione di Valeria Deplano), ma è solo un punto di partenza.

Vittorio Longhi a Massawa

Nella prima parte del libro mi pare ci sia qualcosa che molte delle persone che hanno emigrato anche temporaneamente conoscono, e cioè l’idea di andare altrove per provare a capire la propria identità. Il tuo percorso di indagine sul tuo essere italiano, italoeritreo, europeo, inizia proprio a Bruxelles, dove vai per lavoro.

Quando sono a Bruxelles – una città così centrale per quella che dovrebbe essere l’identità europea oggi – mi confronto con l’idea di essere un europeo del sud. C’è anche un altro elemento, che è l’eredità dell’emigrazione italiana in Belgio. Scopro lì una prospettiva che non credevo ancora ci fosse, che è quella degli europei del nord rispetto agli europei del sud, e gli italiani in particolare. Provo a sentirmi più europeo a Bruxelles e invece mi si rafforza l’identità italiana, la metto in discussione ma sento la differenza. Specialmente nei primi mesi, come uno dei tanti expat frustrati perché costretti a lasciare il proprio paese per avere un riconoscimento professionale. E poi facendo parte di un’organizzazione internazionale vivo questa situazione per cui l’identità comincia a diluirsi in una molto più ampia, senza confini. È una cosa benefica, anche rassicurante, che ti porta a confonderti e mimetizzarti, diluire in una questa sorta di identità globale senza più bisogno di radicamenti nazionali forti, esclusivi.

Il tuo insomma è un libro anche sull’essere italiani all’estero.

Sì, con tutto quello che compone la nostra identità, gli elementi materiali, dal cibo alle relazioni con gli altri. Avevo già lavorato all’estero per le Nazioni unite ma non avevo vissuto stabilmente in un altro paese. E ho sentito la differenza anche come giornalista, perché le cose che noi osserviamo da un punto di vista mediatico da questa parte dell’Europa mediterranea non solo le stesse che si osservano da Bruxelles. La migrazione è un esempio molto chiaro: da noi l’estate in quegli anni era governata dalla migrazione, dagli sbarchi soprattutto, mentre il tema era completamente assente nei media belgi e internazionali.

Dicevamo che il tuo è un libro di luoghi. L’Egitto sembra un po’ una terra a metà strada.

È un paese misto di destinazione, di transito e di partenza per la migrazione, come per altre rotte migratorie lo sono l’India e il Messico. Sono paesi in cui si vivono grandi contraddizioni. In Egitto scopro che esiste un’altra forma di razzismo e di discriminazione, che è quella dei nordafricani rispetto ai subsahariani. Mi sorprendo quindi a vedere gli attivisti per la democrazia e la libertà di quelle che definiamo le primavere arabe, comportarsi in modo discriminatorio nei confronti degli africani subsahariani, questo mi colpisce molto da europeo che tende a idealizzare e semplificare molto, a vedere tutto in chiave meno complessa. La natura delle discriminazioni intorno al Mediterraneo è varia e l’Egitto è un esempio di come convivono queste contraddizioni.

L’anno prossimo saranno dieci anni dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. È un punto di svolta nel tuo libro. Questa dovrebbe essere una delle date del calendario civile italiano; invece, se ne parla davvero poco…

Una memoria c’è, in realtà. Ogni anno il 3 ottobre molti vanno a Lampedusa per ricordare e commemorare. Diverse ONG ne hanno già fatto una data di riferimento. Le istituzioni però mancano. E sospetto che mancheranno ancora a lungo.

È stato senz’altro un momento di svolta, poi ci sono stati altri naufragi, anche più tragici, ma quella è una data che crea una questione per l’Europa, non solo per l’Italia: Lampedusa diventa un po’ il centro del mondo. Il senso del libro è proprio quanto la rimozione del colonialismo influenzi ancora oggi la nostra percezione del sud globale. Ecco, anche la data di Lampedusa, o quantomeno la mancata centralità che si dà a quell’evento nella storia contemporanea, è un po’ come la rimozione del colonialismo: si aggiunge a quella storia di omissioni se non addirittura di censure nella psicologia collettiva, nella percezione che abbiamo collettivamente della nostra storia europea. E rischia di vanificare gli sforzi fatti per evitare quelle tragedie, ma anche di perderne il senso.

Panorama di Asmara, 1935. Fotografia da Flickr.

Molti dei morti di quel giorno erano eritrei. Nel tuo libro racconti proprio il tuo viaggio alla ricerca delle radici in Eritrea. Sei riuscito a tornare da quando hai scritto il libro?

Sarei voluto tornare, ma dubito che l’ambasciata mi darebbe il visto. Sono riuscito ad andare la prima volta col motivo della ricerca sui miei nonni italoeritrei, meticci. Al ritorno ho scritto di quello che avevo visto, sia per il “Guardian” che per il “New York Times”, denunciando gli orrori della dittatura eritrea. Quindi dubito che mi farebbero tornare. Però ho cominciato non solo a scriverne ma anche ad agire: insieme a padre Mussie Zerai nel 2015 ho lanciato una campagna di pressione sulla Commissione Europea affinché non desse soldi alla dittatura eritrea, se non condizionandoli a un percorso di riforme in senso democratico. Quindi il rapporto con l’Eritrea è proseguito, anzi si è sviluppato ed è cresciuto, diventando ancora più intenso, con tutto quello che ne consegue. Il governo eritreo è ossessionato dal controllo sui media e riesce a sorvegliare e punire i dissidenti o gli osservatori critici attraverso una rete molto capillare e molto ben organizzata. Per rete intendo anche internet: se tu scrivi una cosa critica nei confronti del regime e del dittatore Afewerki subito dopo ti arrivano centinaia di insulti e messaggi minatori da parte dei loro difensori. Però l’attenzione prosegue: c’è la guerra nel Tigrai, di cui in Italia non si parla affatto. È una situazione di conflitto molto grave, di cui continuo a occuparmi ma con grande difficoltà perché ai media italiani interessa poco.

Nel tuo libro scrivi che «le migliaia di italoeritrei non riconosciuti restarono nel limbo dell’identità negata» (p. 113). Racconti tra le altre storie quella di un ragazzo, Salvatore, che prova a ottenere la cittadinanza italiana che gli spetterebbe e venire in Italia. È cambiato qualcosa da quando hai scritto il libro?

Sì e no. Salvatore è riuscito ad arrivare in Italia attraverso i ponti umanitari di Sant’Egidio. È qui finalmente ma come rifugiato, non come discendente di italiani, qual è di fatto e dovrebbe essere di diritto. A livello collettivo c’è stato l’anno scorso un nuovo appello degl italoeritrei senza cittadinanza al presidente Mattarella, alla commissione in Senato per la lotta contro il razzismo (diretto nella scorsa legislatura da Liliana Segre), al Ministero degli Interni.  Sono usciti vari articoli (anche su “Al-Jazeera” e sul “Guardian”, mentre in Italia se ne sono occupati “La Stampa”, “Internazionale” e “Avvenire”) per sollecitare una risposta da parte delle istituzioni, che però non è arrivata. Ci sono state solo risposte vaghe ed evasive; il Quirinale non ha neanche risposto nonostante sappiamo che la lettera è stata recepita. Quindi gli italoeritrei rimangono in quel limbo. E rimane nella storia dei meticci quel punto interrogativo, quella pagina aperta, che le istituzioni non riescono a chiudere.

Anche nel libro, usi la parola meticcio.

Ho scelto di usarlo proprio perché era il termine dispregiativo, che poi è rimasto come tale nella memoria collettiva e mi sembrava necessario risvegliare la memoria in questo senso. Per me c’è stato un passaggio, nel mio viaggio dentro l’identità come italiano di discendenza africana e in particolare eritrea, che mi porta a definirmi meticcio con orgoglio. È una scelta, una presa di posizione politica. Se prima mi definivo semplicemente italiano, ora mi penso come italoeritreo, afrodiscendente, afroeuropeo. È un modo per raccontare e mostrare la complessità della storia italiana, del colonialismo e dei nipoti del colonialismo e quello che ne hanno ereditato.

È quindi anche una forma di riappropriazione.

Assolutamente sì, perché è un’identità che si è provato a cancellare, anche a livello personale: la famiglia di mio padre tentava di accreditarsi esclusivamente come italiana, per questo complesso che il colonialismo aveva creato. Essere misti anziché un elemento di merito o quantomeno di ricchezza veniva percepito come elemento di debolezza, imbarazzo, quasi vergogna. Ho voluto dare un nuovo significato di valore, di dignità a questa mescolanza, al contrario del disprezzo che imponeva il discorso italiano del colonialismo, da La difesa della razza in poi. Del resto, ancora oggi Orbán fa campagne contro la mescolanza degli ungheresi e in campagna elettorale Giorgia Meloni è arrivata a dire che se servono immigrati possiamo andare a prenderli in Venezuela, dove “muoiono di fame” e, tra l’altro, molti hanno origini italiane. È come se il colonialismo europeo avesse lasciato una percezione del meticciato e della mescolanza deteriore rispetto a quella, ad esempio, degli Stati Uniti, dove hanno vissuto la tragedia della schiavitù. Pensiamo a Barack Obama, che è considerato il primo presidente “nero”, quando in realtà è il primo presidente meticcio, esattamente come lo sono gli italoeritrei, gli italosomali, gli italoetiopi. Se in America l’elemento birazziale ha acquistato valore, molto grazie al movimento afroamericano per i diritti civili, in Europa quell’elemento sembra essere ancora legato allo stigma, al disprezzo.

Genova – Fatti del G8 del 20 luglio 2001. Carica della polizia a Corso Torino. Fotografia di Ares Ferrari.

Nel tuo libro menzioni di passaggio il G8 di Genova, mi pare però sia un momento di svolta per te.

Sì, l’ho vissuto direttamente e nel libro l’ho associato ai movimenti in Egitto, a quelli che stavo osservando, come in Tunisia e in Bahrein. Genova mi sembrava importante per aggiungere un pezzo di una storia più ampia. È stata una di quelle date di svolta, di quei traumi collettivi che questa generazione ha vissuto e che si ricollega anche alle primavere arabe. C’è una continuità tra questi movimenti che mettono in discussione i modelli di sviluppo che ci vengono imposti, che non potevo analizzare in modo complesso in un memoir, però volevo almeno accennarne. Quello di luglio 2001 a Genova è un momento chiave, come il 3 ottobre del 2013, uno di quei traumi ed eventi che cambiano la percezione della nostra collocazione nel mondo. Genova cambia la percezione del rapporto tra Nord e Sud globale rispetto alla globalizzazione economica: la violenza che abbiamo vissuto lì ha oscurato il motivo per cui si era andati a manifestare, che era la messa in discussione di accordi commerciali ed economici che avrebbero condizionato l’economia e la vita delle nostre società (anche in Europa). La repressione ha oscurato tutto questo: così come quando si parla di migrazione si sposta tutta l’attenzione sulla tragicità degli eventi, ma non si analizzano i fattori di spinta, come la fuga dai regimi o gli squilibri economici e ambientali. Così a proposito di Genova invece di parlare del dibattito sulle alternative al modello neoliberista si è parlato solo delle vetrine sfasciate e della violenza della polizia.

In copertina: una medaglietta coloniale. Collezione privata.