OPINIONI
Ballo, corpo, identità. Per una nuova lotta politica popolare
La discussione pubblica intorno al rave di Valentano ha riportato al centro della scena la tensione fra esigenza di libertà corporea dell’individuo e gestione della stessa da parte delle istituzioni, evidenziando ancora una volta la coltre di ignoranza e moralismo che attanaglia l’Italia da decenni
La polemica sul rave di Viterbo di questa estate ha raggiunto vette inaspettate. Strumentalizzato dalle destre, travisato da una certa “sinistra”, stigmatizzato dall’informazione generalista, ha fatto addirittura vacillare la ministra Lamorgese che è stata invitata a dimettersi da Lega e FdI. Un esito prevedibile in un paese dove i luoghi del divertimento notturno sono sempre stati considerati l’anticamera dell’inferno.
C’è infatti un filo invisibile che unisce il “travoltismo” e le “morti del sabato sera”, “le discoteche e i rave come luoghi di spaccio” e “la mala movida”: la coltre di ignoranza, conformismo, finto decoro e moralismo che attanaglia l’Italia da decenni, sorretta dalla potenza inossidabile degli stereotipi cattolici più arretrati. Il senso del sacro, magari non condivisibile ma rispettabile, si inchina opportunisticamente alla paura della socialità generando strani ibridi di rapporti interumani votati all’evitare più che al condividere. Un meccanismo letale che ha plasmato la nostra nazione e che si è tradotto politicamente in partiti tanto più reazionari quanto affermati, espressioni di una destra con chiare tendenze repressive, mai così forte e efficace nella sua capacità di conservazione dello status quo.
Se c’è un principio che questi sistemi di pensiero temono è proprio l’affermazione dell’identità, un processo che non riguarda solo l’elaborazione del pensiero logico razionale ma è strettamente connesso al sentire corporeo della sfera irrazionale.
L’adolescenza, e non meno la post adolescenza, sono fasi di crisi per definizione, il subbuglio emotivo è del tutto fisiologico e un rapporto sano fra razionale ed irrazionale aiuta a cambiare e ad accettare i cambiamenti. La carenza di meccanismi sociali organizzati che assecondino questa trasformazione è lampante: le strutture adibite alla cura e alla prevenzione delle fragilità psichiche e le proposte che spingono a mantenere viva la creatività, componente imprescindibile per la formazione del sé, scarseggiano.
Foto di Daniele Gambetta.
Sin dalle origini, per fare fronte alle necessità più profonde legate alla ricerca di rapporto con l’altro, l’essere umano ha spontaneamente sviluppato degli eventi comunitari di cui il ballo è uno dei più significativi. Si tratta di un fenomeno antichissimo come sono antiche le prima forme di canzone.
Secondo l’interpretazione che il musicologo Daniel Levitin propone nel suo Il mondo in se canzoni, la «canzone» era originariamente una forma di comunicazione personale. Aveva un carattere poetico o seduttivo ed era legata alla sfera dei sentimenti. Un momento di intimità unico, spesso fra due sole persone, amanti o amici, che faceva evolvere il linguaggio parlato in qualcosa di nuovo. Da lì in poi, il potere unificante della musica è stato travolgente e ha accompagnato la storia dell’uomo in tutte le sue fasi.
Dopo che “l’arte dei suoni” è stata codificata, sono stati costruiti molti più strumenti per eseguirla e la sua rappresentazione dal vivo è stata organizzata affinché se ne potesse fruire sempre meglio fino a diventare un rito sociale universalmente accettato.
Progressivamente i fruitori della musica, che per molto tempo non poteva essere che dal vivo, hanno iniziato a partecipare attivamente alla “performance” tramite il ballo, dapprima in maniera spontanea e istintuale, in seguito secondo codici più strutturati. Dalle iniziali forme di ballo elitarie o nelle corti reali, siamo passati a forme di organizzazione più popolari come le sale da ballo, i tabarin, i club, le discoteche, i festival e infine i rave, più tutto quello che ci circonda oggi che è generalmente una fusione di vari elementi preesistenti.
Protagonista di questa evoluzione è il corpo e la sua possibilità di esprimere una fusione fra movimento e ritmo musicale. Ovviamente queste forme di espressione, come tutte le libertà individuali, sono state avversate: un corpo libero crea una maggiore consapevolezza di sé e quindi una maggiore sicurezza, diventando un pericolo. In questo senso il ballo è una forma di rivoluzione interiore, silenziosa e prorompente, che i potenti di ogni epoca hanno cercato di soffocare in rigide gabbie normative.
È in questa tensione fra esigenza di libertà corporea dell’individuo e gestione della stessa da parte delle istituzioni che risiede uno dei maggiori vulnus della società post-industriale.
Foto di Antonella Beccaria da Flickr.
In Italia il rapporto fra ballo e società è sempre stato complicato. La nostra tradizione musicale melodica ha relegato l’elemento ritmico alla danza folcloristica, unica vera forma di ballo accettata per secoli in ambito popolare. La chiusura verso approcci “altri”, come gli stilemi ritmici delle musiche africane o afroamericane, considerati strani catalizzatori di emozioni nascoste e insidiose, ha impedito alle discoteche e ai primi club, che proponevano le novità provenienti dal mondo anglosassone e afroamericano, di soppiantare, o quantomeno affiancare equamente, le balere e le sale da ballo. Isolata in una sorta di riflesso condizionato, l’Italia faceva fatica a scrollarsi di dosso le sue radici contadine folcloristiche e le musiche che ne derivavano.
Con la sempre maggiore interconnessione e diffusione di strumenti di comunicazione, le informazioni sono cominciate a diventate accessibili a tutti e, dalla fine degli anni ’70 ad oggi, c’è stata una crescita esponenziale dell’interesse degli italiani verso il ballo. Inizialmente tramite lo scambio generazionale fra musiche folk e musiche più moderne (dal liscio romagnolo alla disco made in USA, spesso negli stessi locali come ci spiegano mirabilmente Fabio De Luca e Carlo Antonelli nel loro libro Disco Inferno), poi in modo sempre più autonomo e con modalità espressive originali e innovative, come è avvenuto soprattutto con l’Italo.
Sfortunatamente le basi di questa apparentemente solida intesa erano fragili: non avevamo un background multietnico come la Francia o il Regno Unito per cui l’impostazione era molto più superficiale ed inserita nell’alveo comodo dell’entertainment del weekend.
La stessa sinistra italiana marchiò spesso il fenomeno disco, e in generale delle discoteche, come mera manifestazione del capitalismo americano: non c’era la conoscenza storica delle controculture e dei movimenti che avevano generato quel fenomeno e soprattutto non c’era stata gradualità nella metabolizzazione di queste nuove musiche piovute dal cielo a scombinare un equilibrio tanto statico quanto funzionale ad autoconservarsi.
Foto di William P. Gottlieb da WikiCommons.
La stampa musicale, soprattutto fino agli anni ’70, ha contribuito ad acuire la divergenza fra musica di rottura (il rock) e musica colta (il jazz o la classica) da una parte e quella più superficiale (la disco) dall’altra. Le riviste specializzate che si occupavano di sonorità nuove con la giusta passione e preparazione sono iniziate ad apparire solo agli inizi degli anni ’80, pur prediligendo i generi già consolidati, analizzavano anche realtà come il punk, la new wave, la no wave, il noise, il post rock e le svariate ramificazioni della musica moderna.
Le produzioni caratterizzate da ritmi più groovy e sincopati erano spesso inserite nel calderone generico della “dance”, un contenitore che non teneva conto della nascita e delle intenzioni di quei generi così diversi tra loro. Il concetto di “Rhythm of the one” del funk ovvero l’idea di costruire brani partendo dal groove, era difficile da comprendere. La necessità di liberazione e rivoluzione, anche fisica, del popolo afroamericano era anomala per una società come la nostra, avvolta in strati sempre più intricati di moralismo, perbenismo e regionalismi mai risolti, frutto di una unificazione del territorio più calata dall’alto che sentita dal basso.
Tutto è diventato più chiaro quando all’interconnessione della comunicazione si è aggiunta quella fisica e, grazie ai voli low cost, tantissime ragazze e ragazzi hanno iniziato a capire che bastava prendere un aereo per scoprire opportunità e prospettive ben più allettanti di quelle che gli venivano offerte in Italia.
L’esplosione di House e Techno negli anni ’90 in tutto il mondo, e quella parallela dei rave e dei club, hanno chiuso il cerchio di una nuova visione del ballo, diventato ormai rito collettivo di una generazione pronta ad abbracciare l’edonismo e la liberazione del corpo in modo più consapevole e senza sensi di colpa (veicolata anche dalla diffusione di droghe “empatiche” come l’Mdma).
Questa adesione un po’ frenetica e per nulla graduale ha fatto sì che l’intera comunità del ballare venisse contaminata da pulsioni consumiste abilmente intercettate da una certa imprenditoria che, forte della sostanziale ignoranza italiana sul tema e del completo abbandono da parte delle istituzioni, ha banchettato bramosamente sulla tavolata apparecchiata da altri.
Foto di Giacomo De Luca da Flickr.
Quello del ballo resta quindi in Italia un movimento imperfetto ma dal potenziale di aggregazione immenso.
È dunque vitale indirizzarlo verso i giusti canali di fruizione, con una particolare attenzione per i più giovani a cui vengono spesso somministrate proposte da adulti troppo distanti da loro che, mal interpretando i loro desideri, li orientano verso immaginari distorti e confusi, nemici di quella realizzazione identitaria “corporea” necessaria ad ogni nuova generazione.
Come favorire, nel concreto, l’espressione delle esigenze aggregative dei giovani per fondare le basi di una vera cultura popolare dello stare assieme? Ad esempio tramite la riconversione di strutture recuperate nello sconfinato elenco di edifici pubblici non utilizzati, e il potenziamento della rete di biblioteche comunali da trasformare in luoghi di incontro e contaminazione culturale in sinergia con le scuole di ogni grado.
Serve in sostanza un cambio di paradigma nella gestione degli assessorati alla cultura che dovrebbero direzionare i loro fondi meno sugli eventi one shot e più su un lavoro sul territorio a 360 gradi, non limitandosi quindi alle sole zone centrali delle città, ma lavorando specialmente nelle periferie e nelle zone con meno offerta culturale. Sebbene possa sembrare un progetto utopistico e ambizioso, bisogna tenere presente i numeri impressionanti di adesione giovanile alla raccolta firme per i referendum sull’eutanasia legale e sulla legalizzazione della cannabis.
Foto di James Nash da Flickr.
Questi due eventi politici di partecipazione popolare, agevolata significativamente dalla possibilità di firma online introdotta grazie al lavoro di Mario Staderini e Michele De Lucia prima e Riccardo Magi poi, rappresentano un segnale di riscatto e cambiamento proprio sui temi delle libertà individuali e quindi dell’identità. Difendere il diritto dei giovani allo sviluppo del proprio io tramite l’aggregazione attorno alla musica sarà, per quanto mi riguarda, una delle istanze politiche centrali di questo millennio per spodestare la visione reazionaria delle destre (e di una certa “sinistra”) e liberarsi dalle sabbie mobili della paura del futuro. Bisogna lottare centimetro dopo centimetro e crederci: come diceva Marco Pannella, «Il crimine più grande è stare con le mani in mano».
Foto di copertina di Chris Morri da Flickr.