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ROMA
Ballate per anime forti
Questo sabato, Francesco Di Bella, voce della storica band napoletana 24 Grana, porta a Roma il suo nuovo progetto, “Ballads”, nel contesto del festival delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario, di cui chiuderà il terzo appuntamento, dedicato al tema della sicurezza sul lavoro
Sabato 9 ottobre, Francesco Di Bella, leader e voce storica dei 24 Grana, presenterà il suo progetto solista Ballads a Roma, al Casale Garibaldi, nell’ambito del Clap and go 2021 – Festival del lavoro vivo, promosso dalle Camere del lavoro autonomo e precario. Insieme al suo sodale Alfonso Bruno, alla chitarra, darà vita a un set acustico del suo repertorio, arricchito da alcune cover pescate nel mondo del cantautorato americano meno conosciuto. Lo abbiamo incontrato in una pausa del tour.
Questo il link all’evento Facebook
Come nasce la tua passione per la musica e qual è il tuo legame con Napoli?
Io sono cresciuto nella periferia nord di Napoli, zona Ospedali. Il primo approccio alla musica è stato casalingo, grazie alla passione soprattutto di mia madre, visto che ho perso mio padre appena nato. Ma anche lui era un appassionato di musica, la casa era piena di dischi, a partire dai classici, Rolling Stones e Beatles. Ricordo che a 12 anni mia madre mi regalò il greatest hits di Bob Dylan. La scoperta della musica suonata nasce con gli amici del quartiere, in particolare il giro dei fratelli più grandi, che compravano i dischi di Lou Reed e Patti Smith, e che iniziavano a suonare in qualche band.
Questo retroterra musicale, arricchito da Talking Heads e De André, ci portò in seguito a formare i 24 Grana, a metà degli anni Ottanta. Il gruppo nacque per frequentazione amicale, vivendo gli stessi luoghi, giocando a pallone e ascoltando musica tutti insieme. Il fratello del nostro futuro batterista, Renato Minale, aveva un box sotto casa in cui aveva improvvisato una sala prove. Tutto cominciò li.
Quali riferimenti ispirano gli esordi della vostra musica?
Era il 1988 e come tutti i gruppi alle prime armi, suonavamo cover di band famose, soprattutto Talking Heads. Poi iniziammo a mescolare cose diverse, compresi i miei primi pezzi in inglese, sinceramente inascoltabili.. ma con il lavoro e la fatica imparammo a suonare e ad arrangiare i nostri brani, trovando il nostro stile e la nostra via. Nel frattempo pub e locali commerciali preferivano dare spazio ai gruppi di intrattenimento, che portavano più persone assicurando l’incasso; così andammo alla ricerca di altri spazi interessati alla nostra musica. Erano gli anni dell’università, del centro storico tutto da vivere e dell’incontro con i collettivi e gli spazi sociali.
Da li decidemmo di proporre materiali più originali, le nostre performance iniziarono a rispecchiare lo spirito dei tempi, il contesto sociale e politico del movimento post Pantera. Stabilimmo da subito una grande sintonia e amicizia con 99Posse e Almamegretta, soprattutto con quest’ultimi, che accompagnarono la nostra crescita con consigli preziosi. Ricordo ancora quando aprivamo i loro concerti e ci spiegavano come regolare il nostro amplificatore di basso per avere un suono più dubboso. Grande riconoscenza e stima, ricambiata con la partecipazione al loro album Sciuoglie ‘e cane. Il nostro vero esordio musicale, però, è del 1995, nella compilation Napoli Sound System, con il brano Regina.
Dub, trip-hop, derivazioni rock sembrano essere il vostro marchio di fabbrica, unito a una grande sensibilità lirica.
Tutto è nato dalla stratificazione dei gusti e dei nostri ascolti musicali. Mentre in quegli anni esplodeva il fenomeno delle posse e del reggae, io mi appassionavo ai Joy Division, per la loro musica asciutta e minimale, e soprattutto per i testi, che non erano solo slogan politici ma “slogan del sé”, del proprio disagio; mi piaceva quello sguardo sul mondo. Era il periodo delle letture di formazione, come Giuseppe Bucalo e l’antipsichiatria, e Antonin Artaud. Anni di studi universitari, all’Orientale, iscritto alla facoltà di lingue antiche; nello specifico mi occupavo di egittologia e assiriologia.
Il 1997 è l’anno dell’esordio potente di Loop, che segna la scena alternativa napoletana e di tutto lo stivale. Da allora, altri cinque album e 14 anni di militanza con i 24 Grana, tra i riconoscimenti della critica e del pubblico più attento. In mezzo tante cose: il Tora!Tora! Festival, il concerto del Primo Maggio, la compilation a sostegno delle spese legali del G8 di Genova, il progetto per Peppino Impastato, con “il manifesto”.
Da parte mia e del resto del gruppo c’è stata sempre la voglia di ricercare nuovi linguaggi, dopo ogni disco non ci siamo mai sentiti arrivati. Ci piaceva cambiare i connotati della nostra musica, mantenendo sempre la nostra identità, che forse era talmente intima da non essere nemmeno tanto riconosciuta dal “grande pubblico”. Chi ci seguiva dagli esordi sapeva riconoscerla anche a distanza di tanti anni. Loop e Sulla stessa barca, il primo e ultimo album dei 24 Grana, sono effettivamente dischi di generi diversi: il primo influenzato significativamente dal trip-hop, l’ultimo registrato in presa diretta nel tempio del post punk americano di Steve Albini. Siamo sempre stati consapevoli che la direzione del nostro percorso non ci avrebbe portato “soldi e gloria”, però ci piaceva essere immersi nel tessuto sociale, culturale e musicale dei nostri tempi; a modo nostro eravamo portatori di istanze radicali, dai No Global in poi, che andavano in qualche modo contro il mercato delle tendenze.
Nel 2011, come 24 Grana, ci sembrava di esserci ormai spremuti fino all’osso, di aver dato tutto quello che potevamo dare. Ognuno di noi sentiva la necessità di ripartire da un’altra parte. E così è stato per me, con maggiore libertà artistica, senza vincoli del passato, con nuovi collaboratori alla ricerca di nuova musica da scrivere e cantare.
Dopo quasi un decennio, nel 2019, prima della Pandemia, ci siamo incontrati di nuovo e, nonostante le distanze delle nostre vite, abbiamo deciso di rimetterci a suonare insieme, felici di aver ritrovato lo stesso spirito e visione. Eravamo pronti per un nuovo tour, ma il Covid ha bloccato anche noi.
Arriviamo all’oggi. La pandemia ha esasperato problemi e ferite già aperte, prima fra tutti la condizione strutturale precaria del lavoro contemporaneo, l’insufficienza del welfare per una fetta enorme di popolazione. Il mondo dello spettacolo ha pagato un prezzo pesante, ma allo stesso tempo ha provato a reagire, costruendo mobilitazioni e rivendicazioni. Cosa significa oggi lavorare come musicista in questa crisi e in questo paese?
È stato ed è un momento difficilissimo. Negli ultimi due anni abbiamo visto la terra togliersi da sotto i nostri piedi: chiusi gli spazi per suonare, per stare insieme, stop alle produzioni, con effetti pesantissimi su tutto l’indotto e la filiera. Devo dire che è stato bello vedere tanta solidarietà e attenzione da parte delle persone comuni o di altri settori di lavoro, forse il giusto riconoscimento per tanti di noi che nella loro vita artistica si sono sempre spesi per le lotte sociali. L’unico “merito” di questa crisi sanitaria è stato quello di far capire a tante persone il ruolo, la fatica, l’importanza della produzione culturale. Ora dobbiamo riconquistare una soglia minima di diritti e di garanzie.
Dal mio punto di vista devo dire che ho avuto la fortuna di lavorare da sempre con una casa editrice di canzoni napoletane che è anche casa discografica: La Canzonetta-Sintesi 3000. Questo mi ha permesso di non dover andare alla ricerca di un’etichetta che dovesse finanziare e promuovere i miei lavori, un fatto davvero speciale in un mondo produttivo dove i cambiamenti sono veloci e guardano sempre alle logiche di mercato.
Che concerto vedremo sabato sera?
Grazie al grandissimo lavoro musicale di Alfonso Bruno, che ha asciugato fino all’osso l’arrangiamento dei pezzi, presenteremo un set variegato: dai piccoli gioielli del cantautorato americano meno conosciuto, come Elliot Smith a Big Star, fino alla rivisitazione del mio repertorio. Ballads, cioè canzoni che diventano ballate. Per voce e chitarra.
Foto di copertina dalla pagina Facebook di Francesco Di Bella.