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Babylon Berlin 3: Weimar a contropelo
Ambientata in una Berlino socialmente e politicamente vibrante, Babylon Berlin (andata in onda su Sky Atlantic) usa come vettore l’anno 1929 per intrecciare una riflessione sul dispositivo filmico, sull’epopea della polizia cittadina e sugli ultimi anni della Repubblica di Weimar e dar vita così a una narrazione tra storia e finzione
Negli anni ’20 Berlino sognò di essere Los Angeles, anche se gli angeli ancora non si libravano nel suo cielo. Il resto c’era: il grande crimine, le ondate migratorie (lì i messicani, qui i russi in fuga e gli ebrei orientali), la produzione di sogni. Ai margini del nucleo urbano c’era la Hollywood europea, gli studios di Babelsberg, il monte di Babele; non c’era neppure bisogno di conservare come un rudere le scenografie babiloniche della griffithiana Intolerance che avrebbero ispirato il titolo del libro-scandalo di Kenneth Anger su vizi e crimini del mondo del cinema, Hollywood Babylone.
Nel cuore stesso della Großstadt di Georg Simmel (quella che aveva a che fare con la vita dello spirito, secondo il libro del 1903), della Großstadt di Walter Ruttman (Berlin, die Symphonie der Großstadt, 1927), la Babelsbergerplatz diede nome al Cinema Babylon sul lato meridionale del suo spazio triangolare, in un edificio tardo-espressionista di Hans Poelzig (1929), a lungo sede della Berlinale. Il nome del cinema sopravvisse ai numerosi cambiamenti di nome della piazza, che fu teatro di contrapposti eventi politici, anche per l’adiacenza alla sede centrale del KPD (e oggi della Linke, Karl-Liebknecht Haus), come dell’ultima manifestazione di massa contro i nazisti il 25 gennaio 1933, poco prima dell’ascesa di Hitler al cancellierato, e poi di furibonde incursioni delle SA, che ribattezzarono la piazza intitolandola al loro eroe Horst Wessel. Oggi, si chiama Rosa-Luxemburg-Platz e vi si continuano a svolgere manifestazioni contrapposte di anarchici e Pegida: l’insegna del locale ricorda la continuità babelica del luogo, il simbolo stesso di quella Babilonia sulla Spree evocata da Döblin (e poi filmata da Fassbinder) in Berlin Alexanderplatz. L’Alexanderplatz, appunto, è la principale piazza-simbolo di Berlino, scavalcata dal viadotto dei treni sopraelevati, la S-Bahn. Molti edifici sono andati in briciole durante la Seconda Guerra, per esempio la centrale di polizia, la rote Burg, mentre altri resistono restaurati, come il municipio che per il suo colore rosso la sostituirà nella finzione televisiva di cui recensiamo la terza stagione.
Nel mio primo viaggio a Berlino, quando ancora si ergeva il Muro, mi ero emozionato scorrazzando sulle vetuste vetture della S-Bahn (allora gestite dalla DDR) con i sedili in legno e pensando che erano gli stessi sui quali Simmel aveva studiato l’alienazione metropolitana dei passeggeri. Oggi li rivedo, recuperati da depositi e musei ferroviari, mentre trasportano Gereon Rath (Volker Kutscher) e Charlotte Ritter (Liv Lisa Fries) nelle avventure di Babylon Berlin.
Nel mio ultimo soggiorno berlinese, invece, i vagoni della S-Bahn erano modernissimi, continuavano a sfrecciare sopra Alexanderplatz e stavo in un alberghetto sulla Bernhard-Weiß-Straße, confluente in quella piazza. Fui incuriosito dalla didascalia della targa stradale (B. W., vice-presidente della polizia berlinese 1927-1932). Chi mai era costui? Leggendo i romanzi di Volker Kutschere seguendo le puntate della serie che ne hanno tratto Tom Tykwer, Achim von Borries e Hendrik Handloegten, ho scoperto che Weiß – colto, ebreo, fedele alla Repubblica –figura nella serie sia come personaggio storico (al pari dei prefetti Zörgiebel e Grzesinski) sia per caratterizzare il personaggio immaginario di August Benda, il questore assassinato per istigazione di nazisti travestiti da comunisti. In tutta la serie si alternano personaggi reali con nome e cognome, altri appena ritoccati (l’industriale Thyssen-Nyssen o le figlie comuniste e poi spie sovietiche, MaLu e Helga, del generale Kurt von Hammerstein-Equord, uomo di fiducia di Schleicher, aristocratico anti-nazista e capo dell’Esercito fra il 1930 e il 1934); infine protagonisti di pura invenzione: lo stropicciato commissario Rath e la fesche Charlotte – sveglia, sexy come la fesche Lola di Marlene.
Babylon Berlin sovrappone tre ordini di racconto convergenti nell’anno 1929 delle prime tre stagioni.
Innanzi tutto, come ogni buon prodotto cine-televisivo che si rispetti, è una riflessione retrospettiva sul filmico stesso– sulla struttura produttiva d’avanguardia di Babelsberg al passaggio cruciale fra muto e sonoro (location della terza stagione, secondo il classico espediente dell’omicidio in serie sul set), sulla storia del cinema espressionista tedesco ripreso e parodiato sia negli stilemi narrativi che nella trama del film sabotato e fortunosamente portato a termine sia infine nel personaggio dell’ipnotizzatore-demagogo che riprende i vari Caligari e Mabuse (insomma gli archetipi che, secondo Kracauer, prefiguravano Hitler). Perfino uno dei personaggi reali che compaiono nella serie, il capo della squadra omicidi Ernst Gennat, il Buddha, era un famoso detective, pioniere della criminologia scientifica che nel 1931 era stato l’investigatore eroe di M di Fritz Lang. Onnipresenti, ovvio, nella ricostruzione ambientali e nelle sequenze di collegamento (i treni della S-Bahn) le citazioni della sinfonia berlinese di Ruttman. Altrettanto evidenti le citazioni di lavori moderni che citano l’espressionismo d’antan, due per tutti: Cabarete David Bowie in materia di travestitismo. Non dimentichiamo infine che il punto di partenza di tutta la trama è il distacco a Berlino di un ispettore di Colonia, incaricato di ritrovare e distruggere una pellicola, appunto, usata per un ricatto sessuale contro il borgomastro dell’epoca (il futuro cancelliere post-bellico Adenauer!)
Un secondo ordine del discorso è l’epopea della polizia berlinese, braccio armato del governo socialdemocratico prussiano dal crollo dell’Impero nel 1918 al colpo di stato di von Papen che commissariò la Prussia nell’estate del 1932, destituendo, fra l’altro, Weiß e Grzesinski, più disposti a resistere dei loro leader parlamentari, e aprendo così la porta alla vittoria nazista. La polizia combatteva nel 1929 su due versanti, contro il Rot Frontcomunista (in realtà una specie di Arditi del Popolo) e l’ascesa delle SA naziste, usando invero la mano assai più pesante sui primi che sui secondi, come mostra nella prima stagione la lucida descrizione del Blutmaidel 1929, la strage dei dimostranti ordinata da Zörgiebel nei quartieri operai di Wedding e Neukölln, che spezzò irrimediabilmente la possibile unità antifascista delle sinistre. Nella terza stagione vengono mostrate le crescenti infiltrazioni naziste nella polizia “democratica”. Il nuovo questore Wendt, seguace della “rivoluzione conservatrice” ma ormai in rotta verso il nazismo, sembra ispirato al brutale Walter Wecke, braccio destro di Goering, o ancor più al fosco e ambizioso Arthur Nebe, commissario di polizia a Berlino e fondatore all’interno di quella struttura di una rete segreta di militanti nazisti, poi capo nel 1936 della polizia criminale (Kripo) prussiana e tedesca, alto dirigente SS, organizzatore dello sterminio di zingari, asociali e disabili, allo scoppio della guerra promotore degli Einsatzgruppen incaricati del rastrellamento e liquidazione di massa degli ebrei nelle retrovie e infine compromesso con la congiura del 20 luglio e impiccato a un gancio da macellaio dai suoi colleghi nel carcere di Plötsensee.
Complementare alla storia della polizia, come sempre, è l’organizzazione della malavita, scandita su due piani: quello allegorico (l’ambientazione di un inesistente attentato a Stresemann durante una rappresentazione dell’Opera da tre soldi di Brecht nel vero Theater am Schiffbauerdamm dove veniva messo in scena nel 1929) e quello romanzesco, dove il Mackie Messer di turno è l’Armeno, futuro leader della federazione criminale della Berolina, al momento proprietario di un celebre locale notturno, il Moka Efti sulla Leipziger Straße, distrutto dalla guerra e il cui reale animatore ed eponimo era un levantino, Eftimiades. Il meccanismo di conflitto e scambio con la polizia è trattato sul modello del noir americano, anche se in effetti la malavita organizzata aveva in parte un carattere mutualistico, formata com’era da associazioni di ex-detenuti che gestivano con ampia tolleranza il sottobosco degli affari e comunque non erano peggiori dei criminali d’alto bordo nazisti e speculatori di borsa.
Al terzo livello troviamo la storia drammatica degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, il conflitto fra le forze democratiche e di queste con il nazismo in ascesa, sullo sfondo della disastrosa crisi borsistica di fine 1929 e delle manovre per il riarmo, tollerate anche da centristi e democratici, in cui si delinea una rivalità per ila conquista del potere fra le ricostituite gerarchie militari, legate al Presidente Hindenburg e agli Junker prussiani e non prive di nostalgie monarchiche, e il movimentismo armato nazista, forte nelle urne e nelle piazze ma poco sopportato dall’esercito, almeno fino al compromesso del 1933, quando industriali e Stato Maggiore puntarono sul cavallo vincente Hitler. Negli anni della serie gli equilibri sono ancora instabili e il pericolo maggiore sembra provenire dalla riorganizzazione clandestina dell’Esercito e dell’Aviazione (la Reichswehr “nera”, ricostituita grazie all’intesa fra i sovietici e il generale von Seekt dall’inizio degli anni ’20). Un ruolo ulteriore, in gran parte immaginario, viene svolto dalle vicende interne della sinistra, con il cruento conflitto fra gli esuli russi trotskisti e i servizi segreti sovietici rappresentati a Berlino dall’ambasciatore Krestinskij, ex-trotskista riciclato in diplomazia e poi ucciso nel 1938 dopo un processo in cui (caso raro) si era dichiarato, almeno in prima battuta, non colpevole. Il presunto carico d’oro del treno, destinato a finanziare Trotskij in esilio a Istanbul, ha un peso ragguardevole nel plot ed è conteso fra avventurieri e fazioni politiche e militari che mirano sia al metallo che al carico di iprite degli altri vagoni.
In conclusione, che giudizio dare delle prime tre stagioni e in particolare dell’ultima, in attesa della quarta?
Il grande interesse storico della serie e la complessa intersezione di quei tre piani non significa che sempre l’amalgama o il contrappunto riescano, che stiano all’altezza delle ambizioni. La trama noir – decisamente prevalente nella terza stagione – a volte avvince a volte gira a vuoto e saltano agli occhi incongruenze per sovraccarico di connessioni. Il commissario Rath, per esempio, si trova coinvolto in tutte le occorrenze reali oltre a quelle finzionali: dal ricatto (immaginario) di Adenauer, all’uccisione (autentica) di Horst Wessel, dal (falso) attentato a Stresemann al (vero) massacro di Kösliner Str. il 1 maggio 1929… Una via di mezzo fra la strizzata d’occhio e le peripezie di Forrest Gump. Se la sovrapposizione di invenzione romanzesca e scorrere effettivo degli eventi conferisce autorevolezza, allo stesso tempo limita, come in tutte le narrazioni intrecciate con la storia, la libertà dei personaggi. Pierre Bezuchov non riuscirà mai a uccidere Napoleone, Gereon e Charlotte non potranno evitare il colpo di mano che dissolve l’apparato repubblicano della polizia di Berlino nel 1932 né, tanto meno, impedire che Hindenburg si rassegni a cedere il potere al caporale austriaco a fine gennaio 1933. Il rischio di restare una nota a margine del reale senza trarre dal passato il futuro anteriore del possibile è forte e occorre molta abilità per venirne fuori: perfino Lev Nikolàevič a volte incespica e deve buttarla in filosofia della storia. Vedremo le stagioni successive.