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CULT
Babilonia, oh Babilonia
Nell’ambito della rassegna cinematografica “Cinerivoluzione”, svoltasi a Roma in due cicli (novembre 2017 e gennaio 2018) e qui recensita da Ambra Lancia, ha destato particolare curiosità un film solitamente meno frequentato, La nuova Babilonia, notevole per l’argomento non-sovietico e per la partitura musicale che lo accompagna.
Super flumina Babylonis, illic sedimus et flevimus – corruzione e decadenza, decorazione sovraccarica e consumismo, culla di rivolta e massacro già In Intolerance di Griffith. Benjamin era affascinato dalla combinazione Sèvres-Babylone, che designa la bella stazione guimardiana del métro parigino alla confluenza di rue de Sèvres e rue de Babylone – potenza dei nomi delle strade congiunti nel labirinto sotterraneo. Su rue de Sèvres sorge uno dei primi grandi magazzini, Le Bon Marché, che ispirò il romanzo di É. Zola, Au Bonheur des Dames e 36 anni dopo l’immaginario emporio La nouvelle Babylone, sfondo Belle Époque ai personaggi del grande affresco sovietico sulla Comune di Parigi, Novyj Vavilòn, Sovkino 1928-1929, di Grígorij Kosincev e Leonìd Trauberg (con il marxiano sottotitolo “Assalto al cielo”). Gli autori provenivano dall’esperienza della Feks (La fabbrica dell’attore eccentrico), progetto futurista di teatro, che si proponeva «un’arte iperbolicamente rozza, sbalordente, che sferza i nervi, apertamente utilitaria, meccanicamente esatta, istantanea, veloce», vicina al circo e al varietà. Una versione burlesque, in ambito cinematografico, del più intellettuale “montaggio delle attrazioni” di Ėjzenštejn, con cui infatti non mancarono aspri contrasti (peraltro caddero tutti sotto l’accusa di “formalismo”). La forte presenza di elementi naturalistici di origine romanzesca francese e l’assonanza con procedure surrealiste richiamano, quando il ruolo destinale della moda e dei grandi magazzini, il coevo montaggio di Benjamin.
Ancor più sintomatica è la condotta della partitura musicale del ventitreenne Dmitrij Šostakovič (a lungo creduta persa e ritrovata solo nel 1976 da Gennadij Roždestvenskij), dove si mischiano il cancan di Offenbach e la Marsigliese, a indicare il patriottismo opulento della borghesia, movenze operettistiche a sottolineare il suo feroce accanimento, lo spettro del Ça ira che spaventa gli spettatori sulle colline di Versailles e l’Internazionale nell’epico finale (Vive la Commune!). Faceva certamente da modello l’Ouverture 1812 di Ciajkovskij, con i suoi toni pompier (campane, colpo di cannone) e con il suo montaggio alternato della Marsigliese (l’invasione di Napoleone) e dell’inno Dio salvi lo Zar (la resistenza russa di Kutuzov), con il finale sopravvento del secondo – bizzarro paradosso per un musicista “occidentalizzante” come Pëtr Il’ič. Altrettanto vale per Šostakovič, che qui usa e impasta la musica francese in senso negativo, ma in realtà ne era affascinato, per la sua radicale inclinazione al vaudeville e al pastiche sarcastico – contrappunto “critico” del tutto azzeccato al taglio del film, mescolanza di alto e basso nel linguaggio, sincronia e asincronia con le vicende e i sentimenti illustrati e non accompagnamento passivo. Fu un colpo di genio postumo di Kubrick inserire nella colonna sonora del suo vaudeville psicoanalitico, Eyes Wide Shut, proprio il walzer n. 2 della seconda Jazz Suite di Šostakovič…
La comune di Parigi è vista attraverso gli occhi di una commessa dei Magazzini Nuova Babilonia, Louise (come Louise Michel e come l’eroina libertaria dell’opera di Charpentier), la fiera Elena Kuzmina spettinata meglio di Lilian Gish e “importunata” (diremmo oggi) dal padrone, e di altri “tipi sociali” – la moglie del padrone che lo tradisce con il deputato in cambio di appalti, l’ufficiale sadico, il giornalista democratico idealista che vuole una conduzione pacifica della rivolta ma alla fine si batte sulle barricate, Jean, il soldato-contadino diffidente della rivolta urbana e che, malgrado l’amore di Marie, si unisce ai versagliesi, scava la fossa di Marie condannata a morte e a quel punto grida “Vive la Commune!” e si fa uccidere. Poi ci sono le folle: i prussiani a cavallo, le clienti assatanate dei saldi e delle feste, gli artigiani, i poveri, le donne che strappano ai cannoni all’esercito dopo aver offerto maternamente il latte, gli insorti e i soldati di Galliffet che si arrestano un attimo ad ascoltare un pianista che suona lo strumento usato per puntellare la barricata (insieme alla bambola gigante dei Grandi Magazzini), i frequentatori alla Toulouse-Lautrec del Café chantant prima della rivolta, a Versailles e nell’oscena celebrazione del massacro…
Il tutto mixato con un montaggio frenetico, iper-griffithiano, che solo a tratti si paralizza in sequenze morte e tuttavia spesso ripete la formula.
Inutile ricordare che in quello stesso 1929 splendeva un’altra variante del mito: Berlino, la Babylon an der Spree, come ricorda la popolare serie televisiva recensita su Cult alla fine del trascorso anno…
Leggi l’articolo sul cinema sovietico della Rivoluzione di Ambra Lancia