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Dove tutto ha avuto inizio, dove è necessario ricominciare
Nel suo ultimo lavoro, “Tra la vita e la morte. La psicoanalisi scomoda” (manifestolibri 2020), Cristiana Cimino propone una lettura originale e inquieta di Freud, della sua riflessione sulla morte e sul femminile. Con Freud, e oltre, delinea un laboratorio fecondo, senz’altro per la psicoanalisi, ma anche per immaginare un nuovo intreccio tra questa e la prassi
Un inedito, nonché scandaloso percorso attraverso il pensiero di Freud è la proposta dell’ultimo libro di Cristiana Cimino, Tra la vita e la morte. La psicoanalisi scomoda (manifestolibri, 2020, 16 euro). Il titolo lo dice, la morte è la traccia che segna la via: una strada ardua, talora scoscesa, puntellata da ostacoli, interruzioni, svolte improvvise. La tematizzazione della morte, infatti, nell’elaborazione freudiana presenta tratti tutt’altro che lineari o sistematici. Oltre a costituire essa stessa uno dei punti di cesura più importanti nella teoria metapsicologica del Nostro: l’al di là del principio di piacere. È del resto il Freud inquieto, sperimentatore, illuminista, che per amore e onestà di ricerca cambia continuamente pista mettendo in discussione quanto affermato precedentemente, è il Freud che ripudia l’addomesticamento istituzionale, quello che Cristiana Cimino ci restituisce. Esattamente quello che il freudismo, proprio insieme al tema della morte e della sua pulsione, ha provato e ancora prova a tacitare. Siamo di fronte a una proposta etica e politica radicale, oltre che clinica, quindi.
Ma c’è di più. Come il femminile e il materno, la morte costituisce per Freud un «territorio proibito» – rinnova Cimino le parole e le indicazioni di Elvio Fachinelli. Attrazione e rifiuto sono i due poli tra cui oscilla l’ambivalenza freudiana nei confronti di questo altro «continente nero» – è la nota definizione, rassegnata, che Freud dà della sessualità femminile –, che forse proprio altro dal primo non è, piuttosto, con esso, è territorio altro, territorio dell’Altro. E allora questo libro si presenta anche come completamento di un percorso di ricerca legato proprio all’esplorazione e allo scandagliamento di siffatto territorio: se con Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile (manifestolibri, 2015) al centro era giustappunto il dark continent, l’ultimo lavoro di Cimino chiude virtualmente il cerchio – ma davvero solo virtualmente, perché la proposta in gioco ha a che fare con l’accettazione e l’assunzione di «un’apertura senza riserve» –, cogliendo la morte nel suo legame intimo con la sfera della Cosa materna e del femminile (che Freud non riesce a pensare).
Idealmente il punto di inizio di questo itinerario – anche biografico, oltre che intellettuale – lungo le tracce della morte in Freud è Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, insieme al coevo Caducità (1915). Di qui Cimino snoda la sua analisi attraversando alcuni dei momenti più importanti della produzione freudiana, fino alla sua conclusione, che, sempre idealmente, si può assegnare ad Analisi terminabile e interminabile (1937). Momenti salienti, certo per chi non ha voluto e non vuole ammansire la psicanalisi in nome di una fittizia armonia psichica al cui centro starebbe un altrettanto fittizio Io ben «rafforzato» e «raddrizzato». Rileggiamo allora per intero Freud, grazie a Cimino, sotto la luce dello scandalo originario della psicanalisi, quello dei conflitti che definiscono la psiche, di un soggetto affatto decentrato, della (auto ed etero) distruttività umana. Testi tacciati di metafisica o usati ai soli fini del padroneggiamento dell’Io, ritrovano tutta la loro pregnanza, la pregnanza della grande meditazione – sempre radicata nella clinica – sull’animale «smanioso» e «disadattato» che siamo. Per citare quelli che più sono oggetto dell’indagine di Cimino: Il perturbante (1919), ovviamente per Al di là del principio di piacere (1920), e poi Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Inibizione sintomo angoscia (1925), La negazione (1925), Il disagio della civiltà (1929); avvicinandosi al «continente nero» del femminile, si torna quindi indietro al Progetto di una psicologia (1895), ai Contributi alla psicologia della vita amorosa (1910-17), fino ai due saggi su la Sessualità femminile (1931) e La femminilità (1932).
Esita Freud: la morte esiste, la prima guerra mondiale lo mostra nel modo più cruento (Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte) ed è ora che gli esseri umani accettino questo duro dato, che elaborino il lutto, se non vogliono svuotare la vita stessa di senso, come accade al malinconico Rainer Maria Rilke (Caducità); poi, torna invece a scrivere che nell’inconscio «non c’è nulla che possa dare un contenuto al nostro concetto di annientamento della vita», perché «nulla di simile alla morte è stato (…) mai provato, oppure quando ciò è avvenuto, come nel caso dello svenimento, non ha lasciato dietro di sé tracce apprezzabili» (Inibizione sintomo angoscia), pertanto l’angoscia di morte va letta attraverso l’angoscia di castrazione, paura dell’Io di essere abbandonato dal Super Io in «circostanze estreme». Eppure i due episodi di svenimento da Freud vissuti hanno lasciato eccome in lui delle tracce, durante il secondo, poi, tra le braccia di Jung si è ritrovato a sospirare «come deve essere dolce morire». Ma la traccia prima di una simile situazione di esposizione e abbandono, dal punto di vista del fantasma, è quella lasciata dal Nebenmensch, dall’essere umano più prossimo che per primo si prende cura dell’infans inerme, hilflos: la madre. Primo Altro, das Ding, la Cosa materna – con la terminologia del Progetto di una psicologia resa celebre dalla lettura di Jacques Lacan –, al tempo stesso il più familiare – potenza sorgiva dell’origine, dell’Uno scaturigine del Due – e il massimamente estraneo, inassimilabile. La separazione dalla Cosa materna non solo renderà possibile al bambino o alla bambina l’accesso all’ordine simbolico, al linguaggio, ma ne segnerà inevitabilmente il destino: sempre il soggetto cercherà la riunificazione (“dolce” e rovinosa) con essa. Come ci ha insegnato Lea Melandri, da qui – dalla potenza del fantasma – nasce il sogno d’amore.
La classica interpretazione edipica dei due svenimenti di Freud – nel 1909 e nel 1912, entrambi alla presenza di Jung, prima giovane allievo/figlio con desideri inconsci aggressivi verso il maestro/padre, poi ormai allievo di un tempo che è in procinto di abbandonare il maestro – non soddisfa Cimino, che ci invita invece a leggerli, con Fachinelli, come esperienze di avvicinamento da parte di Freud al «territorio proibito» della morte, del materno. Cimino torna anche sull’episodio di derealizzazione che colpisce Freud giunto in cima all’Acropoli (1904): il vissuto di irrealtà accompagnato dal pensiero «Io sull’Acropoli? Impossibile… (troppo bello per essere vero)… / Allora l’Acropoli esiste davvero» non rimanda tanto o solo all’angoscia di castrazione generata dal contenuto inconscio affiorato di aver superato il padre, come Freud stesso spiega a Romain Rolland, ma al «desiderio preistorico» per la madre, meglio, a quella «gioia eccessiva», «estatica» (è di nuovo Fachinelli) suscitata dalla possibilità di «respirare a pieni polmoni il soffio oceanico», il mare dell’origine. Freud, che a più riprese nel corso della sua vita afferma di essere estraneo al sentimento oceanico (L’avvenire di un’illusione, 1927) o all’esperienza del perturbante, in realtà mette in opera, tecnicamente, delle negazioni: riesce ad accedere a delle (sue) verità inconsce solo a patto di poterle negare, esse trapelano così sul piano intellettivo, senza essere accettate su quello affettivo. E d’altra parte, ci ricorda l’autrice, egli era oltremodo angosciato dalla morte, da quella dei suoi cari e dalla sua (di quest’ultima ha provato a lungo a calcolarne e prevederne la data). Dietro l’angoscia di castrazione, dietro la morte, c’è il desiderio di fusione definitiva con la Cosa, unica e primeva felicità capace di placare ogni tensione e spasimo. Ritorno all’origine che al tempo stesso terrorizza Freud – di qui la derealizzazione –, perché significa annullamento del proprio essere individuato, riassorbimento della propria identità nell’indifferenziato. Ecco il perturbante (das Unheimliche) per eccellenza, come riuscirà a intuire anche nel saggio del 1919: il materno. Il più familiare (heimlich) alla vita psichica «fin dai tempi antichissimi» che riaffiora producendo un effetto di estraneità e straniamento angoscioso in quanto rimosso (un– anteposto a heimlich in unheimlich è infatti il segno della rimozione, leggiamo verso la fine del saggio). Lo dimostrano in modo lampante i nevrotici per cui massimamente perturbante è l’apparato genitale femminile, ossia la loro (e di tutti) «antica Heimat». Emerge qui chiara, in tutta la sua attualità, la problematicità di un corpo materno (con cui quello femminile finisce per coincidere) quasi divino, onnipotente, inappropriabile e, proprio per questo, anche rigettato, cancellato, aborrito. Un corpo, ha scritto sempre Lea Melandri, «soggetto al sentimento inquieto che alterna l’estasi al disprezzo».
«Dove tutto ha avuto inizio». Questa, la meta della pulsione di morte, della distruttività umana. Nessun padroneggiamento della perdita è davvero in questione – nel gioco del rocchetto del piccolo Ernst, nella coazione a ripetere –, come tanti, al contrario, si sono ostinati ad asserire, bensì – ecco il grande scandalo della psicanalisi freudiana che Cristiana Cimino affronta e da cui riparte – un «soddisfacimento pulsionale diretto» originato dal ritorno continuo, demoniaco, sul luogo del trauma. Spinta indefessa a raggiungere, nel medium del sintomo, la «fonte del male» (la separazione dal primo Altro consumatasi con l’accesso all’universo simbolico) per «ripristinare un mitico godimento assoluto»: azzerare i limiti dell’incesto, della castrazione, financo della vita, per realizzare il sogno fusionale. Lo sconcerto supremo è che Thanatos si rivela essere la versione estremistica, il volto più pervicace, di Eros: non c’è effettivo dualismo nella nuova economia pulsionale delineata da Freud; se piacere, come detta il suo Prinzip, è riduzione della tensione, degli stimoli, allora il Todestrieb persegue il piacere più grande, l’annullamento definitivo di ogni eccitazione. Pulsioni di vita e di morte, scrive Cimino, secondo «un inquietante paradosso», finiscono per «confluire in un’unica pulsione che tende all’unità e alla quiete». Eros, traccia solo delle deviazioni rispetto alla meta ultima. A conclusioni molto simili, ricorda l’autrice (e di sfuggita anche lo stesso Freud), era giunta quasi dieci anni prima Sabina Spielrein, con il suo La distruzione come causa del divenire (1912). Al di là del principio di piacere appare dunque «il luogo dove è collocata la madre», la «divisione originaria dell’esperienza che dà forma a tutto lo psichismo, costringendo il soggetto a ritrovare l’oggetto perduto in quanto das Ding». «Non si vuole guarire perché si vuole continuare a ripetere», l’inconscio insiste – scrive in pagine davvero intense Cimino – mosso dal «desiderio di impossibile ricongiungimento a un Altro assoluto». Non desiderio di morte in quanto tale quindi (Todestrieb risulta quasi fuorviante in effetti), ma di «non-vita»: «se la possibilità di vita è lo sforzo titanico di affrancarsi da das Ding e di accedere ad altro», oltre il fantasma materno. Thanatos, come ogni ripetizione mitica e rituale del medesimo, assurge a protezione rispetto alla vita esposta, aperta alla variazione e, come tale, spalancata sull’abisso. Il sintomo, del resto, dispone anche una nicchia, sofferente, ma al riparo. È la clinica qui a parlare: quella che fronteggia quotidianamente questa insistenza dell’inconscio, nociva e nondimeno motivo di piacere; la clinica che si propone di sollecitare e alimentare il lavoro di Eros, di sostenere le sue deviazioni, le sue molteplici, possibili costruzioni, senza smettere però di guardare negli occhi l’abisso.
Freud oscilla, tra istanze ripetitive e gesti a un passo dall’apertura al nuovo, ma alla fine capitola. E capitola dinanzi al dark continent del femminile, che non riesce a slegare dalla traccia materna (Sessualità femminile). Il legame amoroso, infatti, non si distacca dallo schema della nostalgia, dal «movimento centripeto di ri-trovamento [destinato al fallimento] dell’oggetto agognato e proibito». Così, Cristiana Cimino mette in luce un rovesciamento degno di rilievo: è Freud che non riesce a fare il lutto da das Ding, più che il giovane Rilke, che in quella famosa passeggiata nell’estate del 1913 manifestava la propria afflizione di fronte alla caducità di tutte le cose. Ma la parola poetica di Rilke, dopo aver taciuto, arsa, spersa per il deserto del Leidland – terra del dolore –, torna a nominare l’essere e ne nomina proprio la transitorietà, la commistione di bello e tremendo. Consapevolezza della perdita ineluttabile, che rende però visibile «l’altro versante», potente, creativo, della malinconia e dell’Unheimliche: «quello di un’apertura estatica al mondo». Né ascesi né caduta, ma nel mezzo, dove «Con tutti gli occhi vede la creatura / l’aperto».
Freud, invece, si infrange contro la «roccia basilare» dell’angoscia di castrazione, che non solo sembra impedire ogni esito positivo ai percorsi analitici, ma lo fa ricadere nella prospettiva biologistica (Analisi terminabile e interminabile). Incapace di risolvere l’enigma della femminilità, regredisce al discorso destinale dell’anatomia. È a un passo dall’individuarla quella dinamica che eccede l’ordine fallico, quando posa la sua attenzione sull’amore della bambina per la madre che spariglia le carte dell’Edipo, ma poi, come con gli episodi dei suoi mancamenti, come con il soffio oceanico, distoglie lo sguardo, nega, torna sulle piste già note, che confermano un’epoca – patriarcato naturalizzato. La storia è conosciuta: l’invidia penis – nel senso letterale della mancanza d’organo – determina le vicissitudini psichiche delle donne (biologicamente intese appunto); deluse dalla madre (la prima imperfetta, che manca di…), esse sposterebbero prima l’amore sul padre da cui anelano un bambino (come sostituto dell’organo che non c’è), fino poi, nel caso dell’entrata più riuscita nell’Edipo, a operare effettivamente questa sostituzione, da adulte, con la generazione di un bambino proprio (Sessualità femminile; La femminilità). Ecco il ritorno del femminile al materno. Cimino allora si serve di Lacan, innanzitutto per passare dall’organo al fallo (ossia alle rappresentazioni, alle «insegne» di potenza e potere che l’immagine del primo si porta dietro), e per parlare di femminile come “posizione” (e non come dato biologico), del suo godimento differente da quello di ordine fallico. Per pensare il divenire donna che, evidentemente, non riguarda solo le donne. Assumere il limite della castrazione, compiere il lutto dalla Cosa materna, per andare, cioè, nella direzione di un femminile che eccede la struttura edipica, che fa esodo dalla presa simbolica e, questione più che mai urgente, dall’«universale ossessivo maschile» (quello che, temendo la «contaminazione femminile», in difesa della propria virilità presuntamente minacciata risponde con violenza efferata contro altri, contro l’altra). È un esodo dalla potenza del fantasma – «transito dalla madre alla donna» lo ha definito anche Cimino –, che richiede di attraversare fino in fondo la crisi della Legge del Padre, dell’ordine simbolico – qui la radicalità della proposta clinico-politica –, non col fine del rinnovato ripristino dello stesso, ma in direzione di nuove soluzioni. Che sono nuove posizioni e nuove regole erotiche e politiche di contro al solo “potere che frena” del Leviatano, al disagio della civiltà. E però, rovesciare le gerarchie, far saltare i dualismi ipostatizzati dal pensiero patriarcale (maschile/femminile, attivo/passivo, naturale/storico, ma anche santa/meretrice, come Freud stesso insegna, primato della genitalità/perversione polimorfa) non vuol dire avallare illusioni di armonie, di facili utopie. E come non vedere, tra l’altro, che siamo ancora in piene mormorazioni. Al contrario, solo la consapevolezza della caducità, delle scissioni e dei conflitti che ci riguardano dischiude la «somma apertura al nuovo». Un al di là dell’ordine simbolico, che però non si chiude, come tale, nel silenzio mistico – come ha protestato giustamente Luce Irigaray, da cui la scomunica da parte di Lacan e dell’École freudienne –, pena il far ricascare il femminile nel luogo del rimosso. Dal “fuori” in cui è collocato, parzialmente sottratto alla legge dell’ordine fallico, esso si rimette piuttosto in ascolto del punto di scaturigine del linguaggio, ne riattraversa ludicamente il campo, per nominare altrimenti il mondo. Nuovo apprendistato alla vita, avrebbe detto, forse, Clarice Lispector.