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Ascesa, caduta e rinascita di Lula nell’intervista-documentario di Oliver Stone e Rob Wilson
Presentato in séance spéciale, l’ultimo documentario di Oliver Stone e Rob Wilson, Lula, narra la biografia e la storia politica dell’attuale Presidente del Brasile, che emerge come modello di una leadership progressista e alternativa all’ultradestra reazionaria
Non è un’operazione facile ripercorrere in 90 minuti di intervista e docu-biopic la vita personale e l’attività politica, che dura da 46 anni del Presidente del Brasile Lula. Ci provano Oliver Stone e Rob Wilson che presentano in anteprima al Festival del Cinema di Cannes in séance spéciale Lula. Non è questo neanche il primo documentario che si concentra sulla crisi brasiliana degli ultimi anni, preceduto dall’uscita quasi a caldo nel 2019 dal lavoro della direttrice Petra Costa The Edge of Democracy (Democrazia al limite), ora su Netflix. La particolarità del lavoro a quattro mani di Stone e Wilson è di ricostruire quella storia in prospettiva biografica, cominciando dal principio.
Luiz Inácio Lula da Silva nasce nel 1945 nello Stato brasiliano di Pernambuco da una famiglia poverissima. Ha sette fratelli, una madre analfabeta che fa fatica ad arrivare a fine giornata con il cibo in tavola. Suo padre si trasferisce, subito dopo la sua nascita, nello Stato di San Paolo, per lavorare. Si rivedranno quasi un decennio dopo, quando anche tutto il resto della famiglia migra verso la città di San Paolo. Solo in quel momento si scopre che il padre aveva costruito una famiglia parallela, sposato un’altra moglie, generato molti altri figli. Lula riesce a studiare per poco, fino alla quarta elementare, per poi cominciare a lavorare come lustrascarpe prima e come metalmeccanico in una fabbrica di rame e poi di automobili dopo. Perde il dito di una mano che si disintegra sotto il peso di una pressa. Il docu-intervista-biopic alterna le parole dell’ora Presidente con immagini selezionatissime di archivio. Il montaggio veloce, forse persino affastellato, mostra delle foto di repertorio di Lula insieme alla prima moglie che muore di epatite con il loro bambino, due anni dopo il matrimonio. Il problema si sarebbe risolto se non fossero stati poverissimi e avessero avuto accesso alle cure sanitarie. Si ri-sposa nel 1974 con Marisa Letícia Rocco, che sarà sua compagna di vita e politica fino al 2017, quando a sua volta decede per ictus.
In quegli anni, cioè a partire dal 1964 fino al 1985, in Brasile governava una dittatura militare (il regime dei Gorillas) a forte base nazionalista e anticomunista, che aveva destituito il Presidente João Goulart allora democraticamente eletto. Quello che spinge Lula a impegnarsi in politica, a partire dal 1975 circa, è il suo stesso lavoro e le condizioni di precarietà lavorativa in cui versano la gran parte di coloro che vivono sotto la soglia del salario minimo. Conquista rapidamente la leadership del Sindicato dos Metalurgicos do ABC e organizza tra gli scioperi più infuocati di quegli anni, spesso repressi con la carcerazione. È in quel momento che elabora – come ricorda nella docu-intervista – la tesi secondo cui quando si conduce solo una “lotta economicista” finalizzata all’aumento salariale non si riesce a uscire dal loop dell’inflazione e dall’aumento degli affitti. Occorre, dunque, passare, una volta verificato che al Congresso nazionale non siede nessun lavoratore, a una lotta che sia anche politica. Il PT (Pardido dos Trabalhadores) viene fondato nel 1980. Due anni dopo Luiz Ignacio Lula da Silva prende il solo nome legale di Lula, più facile da ricordare in sede istituzionale ed elettorale. Quello stesso anno si svolgono le prime elezioni democratiche in Brasile, dopo quasi vent’anni.
Ne passeranno altri venti di intensa attività politica e tentativi elettorali mancati prima che Lula, nel 2002, venga eletto, per due mandati consecutivi Presidente del Brasile. L’elezione si colloca, come il documentario non manca di ricordare, nel panorama dell’”onda rosa” che ha segnato la svolta in America Latina verso forme di riformismo progressista di stampo socialdemocratico. Il sud America era stato la sede di sperimentazione del neoliberalismo, almeno a partire dal golpe cileno del 1973, quando diventa il territorio di sperimentazione della diminuzione della spesa pubblica e dell’abbattimento del ruolo dello Stato nel contesto del dispositivo economico e politico (a colpi di sparizioni) instaurato da Gustavo Pinochet. Dopo un processo di parziale democratizzazione della regione che però ancora vedeva un’economia basata in larga parte sull’informalità, la povertà, la disoccupazione, le diseguaglianze, la “onda rosa”, inaugurata da Hugo Chávez in Venezuela (primo presidente amerindo della storia del sud America), Néstor Kirchner e Cristina Fernández de Kirchner in Argentina (seconda presidente donna della storia del sud America), Evo Morales in Bolivia e Lula, appunto, l’”onda rosa” inaugura una politica rivolta alla redistribuzione interna e alla limitazione dell’intervento nord americano nell’economia del sud.
Come ha scritto Augusto Illuminati nel libro del 2017 per Manifestolibri, Populisti e profeti, «in questa fase la parola “populismo” subisce uno “slittamento semantico” […] passando a designare ogni misura o movimento contro-egemonico che contrasta la globalizzazione e la privatizzazione dei beni pubblici, pur con tutti gli equivoci fra populista e popolare e fra spontaneismo, leaderismo carismatico e partecipazione organizzata». Lula incarna tutte queste forme della politica. Il programma più rilevante che segna la sua presidenza è “Bolsa Familia”, che prevede la redistribuzione economica e scolastica nelle fasce economiche più povere. Ora dobbiamo pensare che il Brasile è lo Stato più grande della regione sudamericana e conta una popolazione di 215 milioni di persone, quanto l’Italia, la Francia e la Germania messe insieme. Il programma di assistenza sociale di Lula fa uscire dalla povertà 20 milioni di persone e altri 39 milioni diventano classe media. I numeri aiutano a misurare la portata dell’intervento.
In materia di economia e politica internazionale, il Brasile, insieme agli alleati della ”onda rosa” di cui il documentario riprende le dichiarazioni presidenziali, contrastano lo strapotere degli Stati Uniti la cui visione “coloniale” e “imperialistica”, rifiutando accordi come quello del Free Trade Area of the Americas. Dopo che nel 2010 il Fondo Monetario Internazionale aveva incluso tra i suoi azionisti i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), è proprio in Brasile che nel 2014 questi stessi paesi si autonomizzano costruendo delle loro istituzioni autonome, quali la New Development Bank BRICS.
Ma è proprio nella visione delle relazioni internazionali e nella valutazione del ruolo degli Stati Uniti nell’impeachment di Dilma Rousseff (la successora di Lula) che la docu-intervista tradisce alcune note di giusto, certo, ma sovraccaricato complottismo di Oliver Stone (che non solo ha firmato come regista opere come Wall Street nel 1987 e JFK nel 1991, ma anche una serie di documentari su Snowden, Putin, ecc.) L’esperienza del PT nella politica istituzionale del Brasile si arresta, infatti, bruscamente tra il 2016 e il 2021, quando tramite il golpe giudiziario “Operazione Autolavaggio” condotto dal giudice conservatore, Sergio Moro, mille persone vengono perquisite, inquisite e incarcerate in regime preventivo con l’accusa di riciclaggio di denaro e corruzione. Tra queste, ci sono anche Rousseff e Lula. La prima viene destituita, il secondo incarcerato per 14 mesi in regime preventivo nel carcere federale. Lula in quel momento ha più di 70 anni. Entrambi saranno prosciolti nel 2021, dopo la pubblicazione da parte di “The Intercept” (come ricorda il fondatore del giornale online, Gleen Greenwald) di tutti i messaggi tra Moro e i procuratori, che fa crollare il castello di false accuse dietro l’attacco al PT e il ritorno dell’estrema destra al governo. Come ricorda lo stesso Stone in un’intervista rilasciata per il sito ufficiale del Festival, l’idea del film è quella di mostrare «come funziona il mondo di oggi, come il potere usi tutte i suoi fili», anche utilizzando lo scandalo politico.
Ma per chi guarda, è soprattutto nella rappresentazione simmetrica di Lula vs Jair Bolsonaro, quest’ultimo eletto nel 2018 con Sergio Moro ormai divenuto Ministro della Giustizia, che emerge con forza la contrapposizione tra due modelli di leadership antitetici. Bolsonaro è ripreso con un fucile automatico, quando promuove l’uso delle armi per difesa personale; oppure mentre incoraggia lo stupro, l’eliminazione fisica degli oppositori politici, la distruzione dell’Amazzonia con la scusa che la scienza attorno al cambiamento climatico falsificherebbe i dati. Siamo di fronte a quel miscuglio di politiche ultra-neoliberiste di deregolamentazione e politica fascista e suprematista, che costituiscono il modello dell’ondata reazionaria che attraversa gran parte del nord e sud America, così come l’Europa e l’Asia. Lula nella sua intervista non manca di ricordarlo. E così la sua stessa ri-elezione a fine ottobre del 2022, al ballottaggio, vinto sul filo (Lula con il 50,83% contro il 49,17% di Bolsonaro), segna i destini del paese e del mondo intero e chiude il documentario con un messaggio politico che esula dalla grandezza della biografia individuale di un uomo che pure ha dedicato quasi 50 anni all’attività sociale e politica. Lula diventa, nel lavoro di Stone e Wilson, anche il nome di un’alternativa alle forme di leadership conservatrici e di estrema destra che allo stato attuale dominano in diverse regioni del mondo.
Le foto provengo dall’Espace Press-Kit Films del Festival del Cinema di Cannes e sono in fair use