MONDO
Argentina, si accende lo scontro sul pagamento del debito
Tutti concordano sul fatto che buona parte del debito pubblico argentino sia illegittimo. Il nuovo governo peronista, però, vuole evitare il default e l’esclusione dei mercati. I movimenti sociali che lo hanno sostenuto, invece, chiedono di non pagare
Primo round tra l’Argentina e il Fmi
Mercoledì è stata una giornata particolarmente importante per la storia recente dell’Argentina. Mentre il nuovo ministro dell’economia, Martín Guzmán, pupillo del premio Nobel Joseph Stiglitz, riferiva al Congresso intorno alla situazione del debito estero, migliaia di persone sfilavano per le strade di Buenos Aires contro la presenza dei delegati del Fondo Monetario Internazionale nel paese.
Infatti, proprio mercoledì è atterrata la missione dell’organismo comandata da Luis Cubeddu, lo stesso funzionario che valutò le decisioni del governo argentino dopo il default del 2002, incaricata della revisione dei conti e di spianare la strada per le trattative sul debito di 44 miliardi di dollari che l’Argentina ha contratto con il FMI. Un ammontare relativamente ridotto, rispetto ai quasi 300 miliardi che il paese dovrebbe sborsare ai creditori privati, ma la cui ristrutturazione potrebbe funzionare da esempio anche per il resto delle scadenze.
Breve storia del debito argentino
Secondo quanto riferito dal ministro Guzmán al Congresso, il debito dell’Argentina si aggira intorno al 90% del Pil. Sebbene la sua composizione sia piuttosto antica, più della metà è dovuta alla politica economica portata avanti dal governo del conservatore Mauricio Macri tra il 2015 e il 2019. Durante questo periodo si è voluto applicare un mix di ricette ultraliberiste che, in teoria, dovevano permettere al paese di “integrarsi al mondo”: deregolazione del mercato di valute, apertura indiscriminata al commercio, incentivi per gli investimenti stranieri, riduzione del welfare e della spesa pubblica. Sebbene durante il primo anno di governo i mercati abbiano reagito positivamente, aprendo la possibilità per il Paese di accedere a crediti internazionali da cui era escluso sin dai tempi del crack del 2001 e delle vicende legate al pagamento dei famosi “Tango-Bond”, molto rapidamente le cose sono cambiate.
Il modello Macri ha premiato generosamente speculatori e arrivisti del sistema finanziario, garantendo tassi d’interesse che hanno toccato quota 80%. Cioè, era chiaramente più redditizio lasciare grandi capitali in banca durante un anno, per poi ritirarli con l’80% di interessi, che investire nel sistema produttivo e creare posti di lavoro. Per le industrie locali e la cittadinanza i prestiti sono diventati una chimera, visti gli interessi che chiedevano le banche, e l’attività industriale si è contratta rapidamente. Nel giro di pochi mesi il modello di Macri ha cominciato a produrre disoccupazione, ad aumentare le disuguaglianze e a definanziare lo stato.
Quando nel 2018 l’indebitamento privato aveva raggiunto livelli esorbitanti, i creditori hanno capito che sarebbe stato impossibile recuperare ciò che avevano prestato e si sono rifiutati di continuare a elargire denaro al governo argentino, che però non ha voluto cambiare ricetta e si è rivolto al Fondo Monetario Internazionale, ultima spiaggia per governi in crisi di liquidità. Il Fmi, sotto evidente pressione del governo statunitense che voleva assicurarsi la continuità di un esecutivo alleato come quello di Macri, ha concesso nel 2018 all’Argentina il prestito più grande della sua storia: 50 miliardi di dollari, portati poi a 57 con un secondo accordo. I pacchetti d’aiuto stanziati però non sono stati usati per promuovere l’industria o far fronte alla drammatica crisi sociale scaturita dalla recessione economica, ma per fermare la svalutazione del peso, la moneta nazionale, rispetto al dollaro.
In pratica la Banca Centrale argentina, violando tra l’altro l’articolo 6 dello statuto dello stesso Fmi, ha bruciato i fondi vendendo dollari nel mercato di valute per evitare che ne aumentasse il valore. Quella argentina è, nella pratica, un’economia bimonetaria, dove il valore del dollaro statunitense influisce direttamente sull’indice dei prezzi e quindi un aumento del dollaro significa un aumento generalizzato dei prezzi, dunque dell’inflazione. Anche in questo senso la politica di Macri è stato un fallimento totale: in quattro anni il dollaro ha aumentato il suo valore del 550%, la povertà è arrivata al 40% della popolazione, la disoccupazione al 10% – tra le donne sotto i 29 anni supera il 25% – l’inflazione si attesta intorno al 53% – la terza più alta al mondo dopo Venezuela e Sudan – e per le strade di tutta l’Argentina si sono riproposte scene angoscianti di miseria e denutrizione.
La vittoria del peronista Alberto Fernández alle elezioni di ottobre 2019 ha aperto un nuovo capitolo nella storia del debito. Tra le prime misure, il nuovo governo ha rifiutato l’invio dei pacchetti d’aiuto del Fmi che dovevano pervenire entro il 2020, fissando l’ammontare del debito con l’organismo a 44 miliardi di dollari. Il totale del debito estero argentino, senza contare nuovi interessi che sicuramente aumenteranno con le dilazioni previste, si attesta intorno ai 330 miliardi di dollari, di cui circa 180 scadono entro il 2023, cioè durante il periodo di governo di Fernandez. Che ha già chiarito che il debito è assolutamente insolvibile.
La piazza dei movimenti sociali per chiedere di non pagare il debito (11/02/2020)
Debito, governo e movimenti: che fare?
La questione del debito è la pietra angolare su cui gira oggi l’intera politica argentina. Per riprendersi dalla crisi il paese ha bisogno di politiche pubbliche e investimenti statali, che però non potrebbero mai arrivare se le entrate fiscali fossero destinate al pagamento delle scadenze del debito. Il ministro Guzmán ha lasciato chiaramente capire che l’intenzione del governo è pagare fino all’ultimo centesimo. Eppure, la sinistra presente in parlamento e anche buona parte dei movimenti sociali che sostengono il governo propongono un’altra uscita.
Infatti, il debito estero argentino, secondo alcune dottrine internazionali già applicate in casi come l’Iraq post-Saddam o la Cuba post-indipendenza dalla Spagna, un debito contratto da un governo, di qualsiasi natura esso sia, che a risaputa dei creditori non favorisce gli interessi del popolo, può essere considerato odioso e illegittimo. Il caso argentino si presenta così come un caso da manuale. Più della metà del debito è stato contratto nell’era Macri e ha favorito solo chi ha investito, via pagamento di interessi stratosferici elargiti dalle casse dello stato argentino. E anche il debito del Fmi può rientrare in questa categoria, visto che nemmeno un soldo è stato usato per politiche sociali o infrastruttura, ma per regolare, senza successo, il mercato delle valute.
I movimenti chiedono quindi la revisione del debito e la dichiarazione della sua illegittimità, quindi il non pagamento delle scadenze. Una strada già seguita in passato da altri governi latino-americani come quello di Rafael Correa in Equador. Ma per il governo di Fernández, impegnato a ricucire la relazione coi mercati internazionali e con il Fmi, quest’idea è impraticabile. Infatti secondo la visione più liberale, mettere in discussione la regolarità del debito condannerebbe il paese all’esclusione da ogni tipo di mercato finanziario e lo allontanerebbe dalla possibilità di ri-inserirsi nel sistema mondiale.
Eppure, pagare significherebbe dare legittimità a vere e proprie ingiustizie: tra i 10 miliardi che l’Argentina deve al Club di Parigi – composto dai governi europei che si sono uniti negli anni ’50 per esigere il pagamento del debito proprio a Buenos Aires – si trovano anche gli interessi per un gasdotto di fabbricazione tedesca e un sottomarino olandese comprati durante la dittatura militare (1976-1983), mai costruiti e i cui fondi sono spariti nel nulla ma iscritti a conto del fisco argentino. E il pagamento di quel debito scandaloso è oggi un intralcio allo sviluppo del paese.
Molti movimenti, specialmente quelli legati al Coordinamento dei Lavoratori dell’Economia Popolare (Ctep) e sindacati hanno oggi un piede in due scarpe: da una parte sostengono con forza il nuovo governo e hanno di fatto diversi dirigenti tra le fila dei suoi ministeri, dall’altra rivendicano posizioni che la maggioranza della coalizione peronista rifiuta apertamente. Una contraddizione che si ripropone comunque intorno a diversi punti dell’agenda dei movimenti sociali argentini. Il caso più recente è quello della provincia di Buenos Aires: il governatore Axel Kicillof – ex ministro dell’economia durante il secondo governo di Cristina Kirchner – ha congelato pochi giorni fa l’aumento previsto per i salari dei maestri della provincia per pagare parte della scadenza del debito, e ha già creato scompiglio tra i sindacati e movimenti che mercoledì chiedevano di dichiarare l’illegittimità del debito nei pressi del parlamento.
La relazione di Guzmán al Congresso ha messo in chiaro alcune cose: il debito verrà pagato, ma non secondo le scadenze previste; i pagamenti non intaccheranno la spesa di governo nel welfare e negli incentivi alle industrie; in ogni caso il governo è disposto a fare qualche sforzo per evitare a ogni costo un nuovo default. «Il Fmi deve accettare il fatto che è in parte responsabile della crisi del debito argentino», ha assicurato, una posizione che per ora mantiene una certa pace tra chi stava dentro e chi stava fuori dal Congresso mercoledì pomeriggio.
Foto di copertina di Prensa Sol