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CULT
Aprire spazi di liberazione con, e non sui, corpi di altr*
“Vegan Anti-specista. Per la liberazione animale” di Marco Reggio, Eris, 2024, insiste sulla dimensione politica del veganesimo, contro il veganwashing che lo banalizza senza mettere a fuoco l’alleanza politica con gli animali non umani in una pratica realmente sovversiva e trasformativa che ci faccia ripensare la nostra posizione di privilegio
Se si intende ragionare criticamente sui nostri posizionamenti, ”Vegan anti-specista. Per la liberazione animale e umana” è uno di quei libri che dovrebbero passare di mano in mano, animare le nostre discussioni e che tuttu dovremmo leggere o aver già letto (lo credo di tutto il lavoro di Marco Reggio). Se non è così, è perché il tema dell’anti-specismo e della liberazione animale sembra essere circondato da muri molto alti. Mi vengono in mente quei bricks che Sarah Ahmed evoca per esplicitare l’esistenza di alcune forme di discriminazione e marginalizzazione che sembrano invisibili – muri contro cui alcun* sbattono la testa, mentre ad altr* possono restare invisibili. Concedendoci di interpretare la riflessione di Ahmed in modo un po’ ampio, i mattoni in questo caso costruiscono barriere che tengono lontani gli animali non umani dallo spazio pubblico e dall’immaginare differenti forme di cittadinanza.
Il libro introduce inizialmente la questione del veganesimo affrontandola sia sul piano dei processi di (de)politicizzazione nel contesto neoliberista dei consumi sia sul piano epistemologico dell’antispecismo. Raccontando la storia che ha accompagnato la definizione del termine “vegan” nel discorso pubblico più recente, Reggio sottolinea come parallelamente a un crescente mainstreaming del termine emerga l’esigenza di radicare il veganesimo non a un’opzione su un menù ma alla sua dimensione di scelta politica. Scelta che si intreccia inevitabilmente con questioni etiche che hanno a che fare, tra le altre cose, con il consenso e con forme e pratiche di violenza agite sui corpi di altr* ovvero «mangiare carne è qualcosa che fai al corpo di qualcun* altr* senza il suo consenso» (Pattrice Jones, citata a p. 7).
Nei processi di depoliticizzazione del veganesimo si inserisce la pratica del veganwashing – in analogia con altre forme di sussunzione di pratiche politiche a fine di marketing che sia politico, aziendale, istituzionale (come pinkwashing, greenwashing…).
Ad agire differenti strategie di uso strumentale dell’esperienza vegan al fine di ripulire l’immagine di istituzioni e aziende troviamo da chi propone allevamenti “sostenibili” e promuove l’idea che esista una “happy meat’” fino a eserciti, come quello israeliano (ad esempio qui Reggio mette in luce i modi in cui Israele, mentre commette un genocidio contro il popolo palestinese, si mostra come una istituzione attenta a una politica inclusiva nelle proprie mense e allo stesso tempo agisce forme di deumanizzazione del popolo palestinese attraverso il repertorio discorsivo degli “animali umani”). Altra faccia della stessa medaglia sono i discorsi neo-orientalisti portati avanti da forze identitarie nazionaliste che anche in Italia costruiscono un “noi” civilizzato contro un ‘altro’ che non avrebbe a cuore la salute degli animali.
Insomma, sono innumerevoli le questioni di potere in gioco nel mancare di mettere a tema l’alleanza politica con gli animali non umani in una pratica di lotta che voglia essere trasformativa e sovversiva.
Il testo rimette il veganesimo al centro del discorso politico ricordando le numerose pratiche collettive introdotte dai gruppi antispecisti negli ultimi decenni, e attraverso queste ci ricorda che il veganesimo «può essere letto come pratica di consumo individuale oppure come una modalità di denuncia di uno sfruttamento che individuale non è, proprio perché è strutturale» (p. 19). Contro chi si muove su questo secondo piano, le forme di sabotaggio sono innumerevoli, difatti verso chi decide per uno stile di vita vegano esistono un insieme di pratiche (sia sul piano istituzionale che del quotidiano) che mirano a sostenere e riprodurre le norme che principalmente hanno l’obiettivo di non mettere in discussione il più rassicurante privilegio umano.
E se si parla di privilegio, non a caso, ci ricorda Reggio, uno dei modi per sminuire e ridicolizzare chi fa una scelta vegan è quello di associarne la dieta alla perdita di una certa idea convenzionale e normativa di maschilità. Se da un lato questo ci ricorda che la scelta vegan è una scelta inevitabilmente legata alle norme di genere, ci dice anche che è potenzialmente destabilizzante dei regimi di genere, è una scelta queer.
Fino a che punto è possibile, dunque, pensare a un soggetto transfemminista e queer che metta in discussione il sistema eteronormativo senza costruire intrecci con la lotta antispecista? Partendo da qui, il libro si interroga anche sulle esperienze di lotta dei movimenti rispetto ai processi di razzializzazione, neocoloniali e abilisti che passano attraverso il ripensamento della relazione con l’altr*, la pratica del posizionamento, e il ripensamento in senso ampio del soggetto della politica.
Il libro si conclude con un riferimento a Sarah Ahmed e alla figura della guastafeste (una figura di rottura del discorso capace di rovinare la festa, sia questa un pranzo di Natale o una grigliata militante) e riporta il veganesimo alla dimensione di lotta, che si gioca non tanto sul livello della nostra (in)coerenza individuale, ma su quello della questione politica. Reggio ci invita a pensare «il veganesimo critico come una forma di hacking del sé, secondo la formula coniata dal Gruppo Ippolita: una dieta – e molto più di una dieta – che riprende stili e tecnologie in modo autonomo, creativo e irrispettoso delle regole per modificare l’identità in senso anti-normativo» (p. 59).
L’estate scorsa ho chiesto a delle persone mie care di fare un esercizio, cercare nella loro lingua (italiano e francese) quali modi di dire venissero in mente che riguardano in qualche modo gli animali. Ecco alcuni esempi: «trovarsi in un carro bestiame», «stancarsi come un mulo», «assistere alla macelleria fatta dalla polizia» e qui, chi vorrebbe tra chi parla essere al posto del mulo, di un pollo boiler, di un vitello?
A una presentazione del numero di “Leggendaria” Rivoluzione antispecista (2024) con Marco Reggio alla libreria Antigone di Milano, una delle persone presenti si è interrogata sul perché ci avesse messo tanto tempo ad abbracciare la scelta vegana antispecista nonostante riconoscesse di avere molti strumenti a sua disposizione. È una domanda tutt’altro che banale.
Potremmo dire che in parte è perché l’esperienza degli animali non umani nel sistema capitalista in qualche modo ci è tenuta lontano dagli occhi – occhi che si possono strizzare mentre un tir supera la nostra macchina in autostrada stipando centinaia di corpi disabilizzati dall’industria alimentare, per poi riaprirli quando ci sentiamo al sicuro di non vederli più; al sicuro noi, non loro, non gli “altri”.
Ma come il mio piccolo esperimento mette in luce, il nostro linguaggio è pieno di riferimenti alla violenza sistemica agita verso gli animali. Come fanno quei muri a godere di una proprietà e il suo opposto? Ad essere dotati di invisibilità e allo stesso tempo così presenti nel linguaggio?
Io non lo so quale sia la riposta. Con le posizioni antispeciste non si può “barare”, la scelta critica vegana è una pratica che richiede di ripensare le nostre soggettività e le nostre ecologie (Fatima Ouassak, Per un’ecologia Pirata, 2023), significa ridiscutere il nostro quotidiano e l’azione politica insieme alla nostra intimità. Una mia cara amica dice che questo spaventa molt*, riguarda un privilegio intoccabile che ha a che fare con il prendere coscienza della violenza che agiamo (abbiamo in molt* presente la frase “lo so che sarebbe giusto ma…”). E come ci ricorda Reggio, riguarda la scelta tra chi è degno di vita e di morte, in altre parole chi è degno di lutto.
Immagine di copertina: Animal Resistance
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