approfondimenti
OPINIONI
Appunti per un’epistemologia di guerra
Il dibattito pubblico attorno al conflitto in Ucraina ha visto anche, da parte del giornalismo e dell’opinionismo mainstream, l’esaltazione della resistenza contro un’aggressione imperialista come valore astratto. Ma occorre mettersi in guardia dal manicheismo e guardare a esperienze concrete
In questi giorni, mentre la macchina bellica russa si stringe spietata sulla popolazione e il territorio ucraino, assistiamo ad un altro subdolo assedio, legato alla mobilitazione e il compattamento dell’immaginario del fronte interno italiano. Attraverso immagini, dibattiti, commenti, infotainment e breaking news ogni conflitto trascina non solo le vittime, ma anche chi lo osserva a distanza, in un abisso. È forse possibile provare a disinnescare, o quantomeno alleggerire, l’impatto delle retoriche interventiste e della cinica estetizzazione del militarismo di cui siamo, soprattutto spettatori. E’ possibile farlo, per esempio, tramite la rievocazione di altri contesti e conflitti, ed è in questa prospettiva che vorrei provare a richiamarmi alla mia ricerca etnografica sul separatismo del Kashmir.
Il Kashmir, per chi non lo sapesse, è un territorio conteso tra India e Pakistan, segnato da quello che viene definito “un conflitto a bassa intensità” di matrice separatista e islamista. In particolare il mio lavoro si è svolto nella parte indiana, e ha riguardato le dinamiche relative al perpetuarsi dell’ideologia separatista e della violenza politica a essa legata: un fattore endemico che in qualche maniera si è fatto idioma sociale, intrecciandosi praticamente ad ogni tratto culturale, quindi all’esistenza ordinaria di una popolazione che vive effettivamente attanagliata tra due forze di scala imponderabile rispetto alle possibilità di scelta dei singoli.
Il Pakistan, come si può ben immaginare, sostiene le organizzazioni separatiste, sobilla la guerriglia, alimenta i sogni d’indipendenza e, d’altro canto, la stessa annessione a questo paese rimane un’opzione popolare per molti Kashmiri.
Siamo in mezzo a due potenze nucleari, e per ovvie ragioni uno scontro aperto non è preso in considerazione dall’establishment militare di entrambi i paesi: da qui la “soluzione” della proxy war, combattuta per procura, infiltrando sul territorio indiano idee, armi e guerriglieri, che come germi contaminano la stabilità politica della vallata, erodendo la presa della sovranità indiana. Sovranità che di fatto si sostiene attraverso l’occupazione militare, la repressione del dissenso e quindi il monopolio della violenza legittima formalizzata in una serie di leggi draconiane che rendono i kashmiri, in quanto tali, potenziali terroristi.
In questo quadro l’approccio etnografico mi ha suggerito di andare a cercare un ambito circoscritto ed esperibile dal quale partire per affrontare la complessità del panorama geopolitico in questione. La Kanijang, letteralmente “la battaglia delle pietre”, la rivolta ritualizzata praticata dagli adolescenti kashmiri contro le forze armate indiane, è diventata così il cuore performativo, il frammento sociale attraverso cui comprendere la sterminata e intricata totalità in cui è incastonato.
Nella Kanijang, che in genere si svolge il venerdì dopo la preghiera, si trovano elementi metaforici legati alla costruzione di un effimero confine che in genere si muove tra la moschea e il campo militare più vicino, altri legati alla costruzione della mascolinità di chi la pratica, quindi i raccordi che ha la violenza praticata nel tessuto urbano adiacente e la protezione complice che il vicinato offre ai suoi attori.
Ma soprattutto la Kanijang, nel ludicizzare la perfomance della violenza, diventa un dispositivo del martirio ed alimenta quella polarizzazione tra vittime e carnefici che permette alla macchina del conflitto indo-pakistano di alimentarsi nella scala microsociale: il lutto, la rabbia, la necessità di vendicare i martiri e di portare avanti la causa per cui sono morti. Una volta innescato questo circolo vizioso chi ne è emotivamente invischiato non ha modo di liberarsene. E anche chi, come me, veniva da una realtà completamente diversa, in breve tempo è rimasto parzialmente impregnato di quelle stesse dinamiche emotive, per le quali la notizia di un soldato indiano fatto saltare in aria dai guerriglieri diventava subdolamente un qualcosa per cui essere un po’ contenti, un palliativo alla frustrazione.
(da commons.wikimedia.org)
C’è una definizione dell’antropologo David Riches, riguardo al fenomeno della violenza, che in qualche modo ne rende limpidi alcuni meccanismi operativi: l’atto della violenza è sempre legittimo per alcuni testimoni e illegittimo per altri. È a partire da questa idea di costruzione della legittimità, peraltro inclusa anche da Weber nella sua definizione dello Stato, che vorrei tornare al presente del conflitto in Ucraina e alla nostra ambigua posizione di testimoni/spettatori.
La legittimità dell’invasione russa per noi è ovviamente inaccettabile: Putin è un folle, le cause storiche sono fiabe degne delle analisi di Propp, le ragioni umanitarie propaganda putiniana, quelle strategiche paranoie di un regime autoritario inesorabilmente al collasso.
L’aggressione Russa non è solo illegittima, ma irrazionale e inumana. In Russia, se le cose funzionano peggio che qui, considerato che siamo in democrazia, sospetto che questa stessa visione per molti si applichi alle strategie della Nato e dell’occidente. Senza valutare le ragioni specifiche, lo considererei un amato dato di fatto, legato al funzionamento della propaganda di guerra.
In questo momento, in Italia, il solo il fatto di sforzarsi di comprendere le ragioni suscita sdegno o derisione, e questa direttrice morale e reputazionale sta plasmando l’evoluzione della circolazione di idee, riprendendo peraltro la matrice manichea novax/provax. Questa recente dinamica sociale ha di fatto istituzionalizzato e sedimentato una capillare polarizzazione ideologica che sfortunatamente sembra rientrare nell’opaco concetto di “nuova socialità” menzionato recentemente da Mario Draghi.
In questo paradigma di pensiero, la stessa analisi della complessità, il tentativo di formulare prospettive alternative o mediane e quindi includere visioni antitetiche o discordanti, viene derisa, diventa un esercizio sterile di energie intellettuali e emotive, se non un vero e proprio pericolo. “È overthinking” – ci insegnano – o “neneismo”, sfruttando alcuni tra i tanti ambigui neologismi sentinella in circolazione.
Dall’altra parte si erge, com’è stato peraltro in buona parte delle recenti avventure militari occidentali in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, il controverso discorso monumentale della resistenza: un cavallo di troia argomentativo di cui Cia e Nato sembrano essersi appropriati elegantemente nel confezionare le narrative interventiste degli ultimi decenni, e che in qualche modo mette sotto scacco buona parte del tradizionale pensiero critico progressista ponendolo davanti ad un inaggirabile paradosso.
Come infatti non parteggiare per Davide di fronte a Golia? Come non voler diventare in qualche modo l’aiutante dell’eroe nella sua lotta contro il bieco usurpatore? È vigliaccheria non sostenere militarmente la resistenza ucraina, come si sente dire da diversi commentatori dalle colonne dei principali quotidiani nazionali?
L’espressione “resistenza” ha assunto infatti le vesti di un archetipo argomentativo trasversale e pervasivo, un’espressione bulldozer per certi versi, che spiana la strada a prese di posizione più legate all’emotività che ad analisi lucide e lungimiranti. In Italia c’è poi la questione della Resistenza con la R maiuscola, e non sono stati in pochi a chiamarla esplicitamente in causa come riferimento comparativo per il caso Ucraino, senza che questa associazione fosse accompagnata da un serio esame delle differenze storiche e strategiche. Questa associazioni del resto sembrano consone su un versante, mentre dall’altro diventano inequivocabilmente fuffa whataboutista. Anche il topos nazifascista, sin dall’inizio della pandemia, è diventato un leitmotiv retorico delle opposte narrazioni in campo, e, a partire da questo substrato, l’appropriazione retorica è stata messa immediatamente in atto per il conflitto in corso. Ancora una volta da entrambe la parti.
In qualche modo devo riconoscere che la mia fascinazione, in principio un po’ ingenua, per il separatismo kashmiri era partita da presupposti simili rispetto all’idealizzazione della resistenza: i primi sei mesi della mia ricerca, nel 2008, sono coincisi con una sommossa di massa in cui la protesta, più che implicare azioni di guerriglia, si era incentrata sulla Kanijang. In parallelo a una crisi politica questa pratica si era fatta fenomeno quotidiano e diffuso nella rete urbana di Srinagar.
Dai primi anni 2000, sostanzialmente in seguito alle evoluzioni del post 11 settembre nel mondo islamico, la lotta armata aveva perso slancio e soprattutto la popolazione civile era esausta, avendo in buona parte preso coscienza del fatto di trovarsi vittima di un fuoco incrociato in cui la mobilitazione locale era resa sostanzialmente vittima sacrificale.
Già da qualche anno le organizzazioni armate erano composte principalmente da pakistani e afghani, erano nati gruppi di controinsurrezione finanziati dall’India e, in base alle diverse sfumature ideologiche, le fazioni avevano iniziato a scontrarsi tra loro per ritagliarsi spazio, visibilità e quindi finanziamenti. Questo il caos in cui si precipita in una guerra per procura, in cui le potenze in gioco non possono, per ovvie ragioni, scontrarsi direttamente. La violenza diventa endemica, le rese di conti personali si mescolano con l’ideologia, mentre la diffusione di armi, di risentimento e di frustrazione fanno il resto. Questo credo sia un probabile effetto a lungo termine di quella che, a nostro comodo, chiamiamo resistenza. Almeno così mi sembra sia stato in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria.
La Kanijang del 2008 poteva essere considerata una mitigazione della violenza totale in cui i ragazzi cresciuti negli anni 90, e in qualche modo rimandava proprio a quell’archetipo di resistenza che si sta attivando nella retorica mediatica di questi giorni in funzione delle posizioni interventiste. La strategia, più o meno pianificata che fosse da parte della leadership separatista, era proprio di estendere quel supporto morale, normalmente presente dai testimoni più o meno diretti della zona di vicinato o dei frequentatori della moschea, in una scala più ampia, attraverso la copertura mediatica della rivolta.
Quale immagine riprende infatti più fedelmente l’icona di Davide che combatte con Golia, di quella del ragazzo che lancia pietre a soldati armati e protetti da mezzi corazzati? Quale espressione più limpida della purezza ideologica, della “spontaneità” di una lotta politica?
Se il modello afghano (quello degli anni 80 della resistenza dei mujhaidin supportati dalla Cia contro l’Unione sovietica) aveva innescato l’inizio dell’insurrezione anti-indiana del 1989, ora il format dell’intifada palestinese diventava la nuova mitologia e la nuova strategia.
Nell’arco di un’estate le vittime tra i manifestanti sono state circa un centinaio: un numero che, con uno sguardo cinico, potrebbe anche non essere considerato eccessivo. I risultati politici di mesi di manifestazioni, scioperi, coprifuoco, feriti e martiri è stato però ancora una volta nullo. A posteriori anzi diversi analisti hanno valutato come le proteste siano state soprattutto funzionali all’interno delle politiche elettorali regionali e nazionali.
Io mi ero lasciato ben trascinare dall’entusiasmo collettivo, e come molti avevo iniziato a credere che l’Azadi, la libertà, fosse dietro l’angolo. Frequentavo del resto regolarmente scontri e manifestazioni e il contagio emotivo non risparmiava nessuna delle mie conoscenze. Questo lasciarsi trasportare dall’esperienza collettiva sarebbe risultato un passo fondamentale, necessario ma non sufficiente, nel definire il mio essere testimone della violenza in quello che considero l’approccio etnografico. La natura di quel sincero e innocente trasporto, oggi, la riconosco proprio nell’entusiasmo interventista promosso in pompa magna da praticamente tutto l’apparato politico e mediatico.
La delusione che ne è seguita, chiamata dai kashmiri “la stagione dell’introspezione”, ne sarebbe stata il compendio, che insieme ad un’analisi distaccata dei fatti, avrebbe avuto sbocco nella scrittura di Linee di Controllo (Meltemi 2018) e la realizzazione del documentario After Prayers.
La stagione dell’introspezione, per i kashmiri, significa una rivalutazione a posteriori dell’euforia separatista, orientata principalmente a comprendere le ragioni per cui la mobilitazione è fallita. Implica distacco, disillusione, ma anche l’elaborazione lucida delle possibili strumentalizzazioni del sentimento separatista.
Faysal era un amico ventenne che in qualche modo amava idealizzare la Kanijang e che, nonostante non fosse uno dei più impavidi lanciatori di pietre (almeno secondo suo fratello e a quanto ho visto), grazie a uno stile intellettuale in qualche modo distaccato era diventato un interlocutore privilegiato nel mediare le mie interpretazioni della rivolta come rituale con quelle di chi vi partecipava.
Un giorno durante una di queste interessantissime discussioni, in cui stavo cercando di comprendere l’ordine morale in cui si produce la Kanijang, vedendo che stava romanticizzando troppo il martirio intrinseco agli scontri, gli ho fatto una domanda un po’ tagliente: “Quante madri credi che vogliano che i loro figli vadano a lanciare le pietre?”
Faysal un po’ infastidito, ma consapevole che era il caso di mentire, mi aveva risposo chiaramente: “Nessuna.”
Ci sono diversi modi per essere testimoni della violenza, per trovare il proprio posizionamento mai stabile all’interno della triade composta da ideologia, empatia e analisi. Nessuno di questi tre elementi può essere, a mio parere, escluso in funzione di una comprensione quantomeno onesta della complessità con cui si ha a che fare. Faysal evidentemente, nelle sue argomentazioni stava strumentalmente censurando parte della verità di cui era consapevole. Lo faceva, credo, non in malafede, ma per dinamiche legate all’autorappresentazione del sé e del movimento di cui si sentiva parte.
Non ho mai pensato di giudicarlo per questo, ma allo stesso tempo mi rendevo conto che il mio posizionamento richiedeva livelli di narrazione diversi, in cui la contraddizione tra ideologia e empatia fosse messa in luce da uno sguardo più ampio e critico.
È forse nell’incontro con Firdousa, la madre di Wamiq Farooq, un ragazzo di 12 anni ucciso durante gli scontri del 2010, che questa tensione mi si è rivelata più nitidamente sul campo. Firdousa, oltre ad esprimere il dolore per la perdita del figlio, non nascondeva la rabbia nei confronti dei militari indiani. Ricordava con nostalgia gli anni ’90, quando questi tremavano quando dovevano affrontare il mujahidin. Firdousa chiedeva giustizia, ma una giustizia che nel suo universo esistenziale sembrava inesorabilmente coincidere con la vendetta. Ho partecipato a funerali durante i quali i genitori dei martiri, nel presagire una nuova Kanijang approssimarsi per sancire il lutto collettivo, dichiaravano che tutto questo sarebbe andato avanti fino a che l’ultimo dei Kashmiri non fosse caduto. Firdousa però non avrebbe mai voluto che gli altri due figli facessero la stessa fine del primogenito: a Danish, di vent’anni, era proibito uscire quando c’erano scontri e sommosse, e mi si è detta molto preoccupata del fatto che Azam, il più piccolo, avesse attacchi di rabbia e di panico ogni qualvolta vedeva un uomo in divisa.
Un giorno, preparandomi il riso che avrei consumato insieme ai suoi figli, mi aveva detto che, quando mi sarei finalmente deciso a convertirmi all’Islam, il mio nome sarebbe stato Osama. Una dedica a Osama Bin Laden, che per lei era un santo. Io e Danish abbiamo sorriso della sua proposta, e a oggi non ho smesso di considerarla una sincera dimostrazione d’affetto. Nel suo orizzonte morale di fatto lo era, ma il fatto che Firdousa simpatizzasse per Al Quaeda e fosse in qualche modo fiera nel considerare Wamiq un martire della causa Kashmiri, non implicava che volesse avere altri figli morti per la causa.
Un terzo incontro, fondamentale, che voglio qui evocare, è quello con il mio caro amico Oyoub. Oyoub è stato uno dei pionieri dell’insurrezione armata Kashmiri, ha ricevuto l’addestramento per combattere in Afghanistan contro i Russi nei primi anni ’80 ed è stato comandante di Hizbul Mujahidin, una fazione propakistana che dominato la scena per tutti gli anni ’90. Oyoub, nel 1991 è rimasto cieco e mutilato per l’esplosione di una mina che stava preparando per un alto ufficiale indiano.
Ora, se escludiamo i famigliari più stretti, giace solo e dimenticato: non è un martire morto e sepolto e facilmente utilizzabile per giustificare la causa separatista e soprattutto, dati i trascorsi, conosce e parla con cognizione dei retroscena della guerriglia e degli interessi implicati. Oyoub è un eroe dimenticato dell’insurrezione, uno scomodo e stridente testimone. Rispetto alla Kanijang dice che al 90% i ragazzi che ci vanno lo fanno per divertirsi e non sanno quello che fanno. Ma lui stesso, parlando del suo primo viaggio in Afghanistan, a 19 anni, ne parla nei termini di un’esperienza intensamente adrenalinica e formativa, durante la quale si è divertito (“I enjoyed that time”). Oyoub mi ha detto più volte di non vere rimpianti per quello che ha fatto e per quello che gli è successo, ma che non può escludere il fatto di essere stato usato. Considera questa un’amara verità, specie quando parla dei martiri della guerriglia e della Kanijang.
Ecco: se si parla di un conflitto, se si vuole essere testimoni, specialmente quando questo vuol dire essere fruitori di immagini, testimonianze, discorsi di alto impatto emotivo -comunque estratti parziali di una realtà in cui il dolore è incastonato nella complessità- si dovrebbe immaginare di avere sempre a che fare con le contraddizioni di un Oyoub, con le sue consapevolezze dettate dall’esperienza e la riflessione, con la sua solitudine di eroe-non martire emarginato. È l’avvicinamento alla psicologia più profonda di chi un conflitto l’ha vissuto, combattuto e patito che ci può aiutare a comprendere la complessità senza necessariamente scinderla dall’elemento elementarmente umano. Oppure una Firdousa. Una madre che però può essere anche quella di un soldato indiano, mandato in Kashmir da un villaggio sperduto del Bihar, rimpolpato di propaganda nazionalista e di machismo anti-islamista. Oppure la madre di un soldato semplice russo carbonizzato nel suo tank o quella ucraina che abbiamo visto ritratta dopo il bombardamento sull’ospedale di Mariupol.
Si dovrebbe cercare di capire com’è possibile l’assurdo, in base a quali interessi e perversi equilibri si produce, in seguito a quale pedagogia ragazzi della stessa età si trovano ad ammazzarsi e torturarsi a vicenda per qualcosa che ha a che fare con l’onore e l’orgoglio, l’unica cosa che rimarrà di loro insieme a qualche medaglietta inscatolata come promemoria formale del lutto.
Ragazzi, che come i quelli kashmiri della Kanijang, fino a poco prima di morire pensavano che la guerra fosse un prestigioso gioco.
Questo è un lavoro che compete, credo, agli antropologi, come ai pensatori critici in generale, anche nel momento in cui non si trovano sul campo, immersi nella realtà sociale di cui devono parlare. Questo sforzo immane di comprensione, che impedisce di fatto una stabilità interpretativa, che fa sentire deboli rispetto a narrazioni geometricamente definite, permette una visione simultaneamente vicina e lontana dalla realtà di cui parliamo. Altrimenti il rischio è che la voce degli intellettuali diventi semplicemente una rimodulazione delle narrazioni egemoniche, banale e cinica legittimazione del perpetuarsi del circolo vizioso della violenza. Le stesse possibilità di sussistenza di un contropensiero sono state evidentemente erose in questi ultimi due anni da una controinformazione deformata dall’intercettazione demagogica del malcontento. L’espressione “complottismo”, e i dibattiti che l’hanno circondato, racchiudono approssimativamente in sé il Dna di questo processo regressivo.
Rispetto alla mitologizzazione della resistenza, al senso di approssimazione emotiva derivato dall’esposizione mediatica, all’estetizzazione seduttiva della violenza e al sedimentarsi di semplificazioni manipolative, dopo aver vissuto per anni in un contesto come quello Kashmir, mi ritrovo a considerare come umanissime basi epistemologiche nella lettura del conflitto attuale proprio Firdousa, Faysal e Oyoub e le loro elaborazioni contraddittorie degli effetti della violenza sulla loro sfera personale. So che il semplice impulso ad assecondarle, purtroppo, non sarebbe sufficiente a risolvere o quantomeno mitigare il conflitto, ma paradossalmente finirebbe solo per generare altri martiri, altre madri disperate, altri figli pronti a morire. E sottolineo che il nostro status di testimoni/spettatori del conflitto ucraino va rielaborato esattamente in questa prospettiva.
Posso però affermare anche che l’approssimarsi alla psicologia di queste tre persone, per ovvie ragioni qui evocata in estrema sintesi, può essere un prezioso strumento per leggere la storia del conflitto ucraino nel suo farsi nel presente, per elaborare posizionamenti alternativi alla imperante semplificazione binaria.
Firdousa, Faysal e Oyoub, i fondamenti umani che qui ho ripreso in brevi ritratti, risultano infinitamente complessi quando compresi attraverso un’empatia che deve essere bilanciata dalla più gelida scala geopolitica. I due livelli in questione fanno emergere prospettive tra loro simbiotiche, non mutualmente esclusive, che devono essere affrontate con lo slancio di un umanesimo radicale, immunizzato dalla contagiosa seduzione di retoriche e spettacolarizzazioni bellicistiche. Del resto, la Storia con la S maiuscola e le minute storie personali, come credo insegni l’antropologia, non sono dimensioni tra loro slegate, ma vivono in continuità, alimentandosi dialetticamente.Tenerle entrambe presenti come complementari, in una sorta di strabismo cognitivo, può servire non solo a evitare la parzialità, la drammatizzazione strumentale, e la polarizzazione, ma anche a trovare un punto di effimero equilibrio tra la geometria delle analisi politologiche e i gorghi al contempo emozionali e ideologici attraverso cui i conflitti stessi, anche grazie ai loro più distanti testimoni, si nutrono e si propagano.
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In copertina: un soldato nel Kashmir (foto di Jrapczak)