ROMA
In apnea tra le sardine. Voci dalla piazza di Roma
Impressioni e punti di vista dei partecipanti alla mobilitazione nazionale raccolti il 14 dicembre in piazza San Giovanni
«Perché respiri? Io respiro e basta. E l’antifascismo uno lo respira e basta», dice una delle sardine che sabato 14 dicembre hanno riempito piazza San Giovanni a Roma. Un episodio che incuriosisce, al di là della sua temporalità e dei suoi retroscena. Più che indagare chi ha convocato la piazza e con quale scopo, la curiosità è attratta dal capire quale sia il fil rouge, il collante, che ha portato così tanta gente a manifestare. La risposta non può essere semplice: l’età è variegata, più alta rispetto alle aspettative; l’amplificazione arriva solo a chi sta davanti, metafora casuale dello scollamento tra le poche voci che a nome di quella piazza vorrebbero parlare e i tantissimi corpi che la riempiono; il complesso della mobilitazione risulta silenzioso e rotto solo a tratti da cori più o meno isolati.
Nell’ultimo rapporto il Censis affronta il tema del rapporto delle persone con la rappresentanza istituzionale e partitica. Quello che emerge è un quadro che più che di abbandono, del dramma del restare orfan*, parla di un distacco quasi sereno in cui l’arena politica è osservata da lontano, con la stessa lontananza con cui si assisterebbe ad un reality show. Un quadro in cui l’uso di antidepressivi e sedativi è aumentato del 23% in tre anni. In cui le persone si dichiarano tendenzialmente sfiduciate, sia verso le promesse di ripresa economica o per un possibile miglioramento delle condizioni di vita materiali, sia verso l’“altro” inteso in senso lato.
In effetti è un quadro che si rispecchia in quello che viene fuori dalle voci raccolte nella piazza delle Sardine. «Se non c’è una base comune diventa una battaglia ogni giorno, cioè ognuno deve sopraffare chi la pensa diversamente – racconta Roberto, 64 anni – Iniziamo a pensare a sentirci civilmente uniti in un unico contenitore fondante, e poi ognuno la pensa come vuole».
A differenza di altri movimenti della storia recente, da occupy agli indignados, in questa mobilitazione non pare esserci una richiesta di forme di democrazia innovative o più profonde. Anzi, c’è una tendenziale fiducia nelle istituzioni e nel sistema della rappresentanza, con qualche vaga idea di risignificare entrambi i termini a fronte di ciò che si percepisce come uno svuotamento del discorso politico. Marta, una ragazza di 24 anni, si chiede perché, nonostante così tante persone scendano in piazza, Salvini goda ancora di un forte consenso. Si risponde da sola con queste parole: «Perché la gente va in piazza ma non a votare. Questa gente dovrebbe essere qua per combattere anche questa mentalità, non tanto il governo, ma la mentalità delle persone in Italia, che non partecipano, non hanno un’identità politica, se ne fregano. Come a Roma, per esempio. Se non conosci quello che ti circonda poi non sai manco chi votare».
In molt* parlano di “anti-politica”, intesa come dominio del superficiale a scopo elettorale, e di populismo, interpretato come il raccoglimento intorno al leader su tematiche non essenziali rispetto a quelli che sono definiti i temi “veri” (mai nominati esplicitamente). Lo stare in quella piazza è visto come un antidoto a tali derive: la piazza deve creare le precondizioni perché si possa tornare a fare politica. Il che è tradotto in diversi modi tra loro coerenti: da un lato rifondare uno spazio che sia una “res publica” in cui poter dibattere, benvengano le diversità d’opinioni, dall’altro curare le modalità di discussione.
Mentre un ragazzo del gruppo delle Sardine Nere interviene a spinta dal palco, interrotto da una canzone sparata per coprire la sua richiesta di abrogazione delle Leggi Sicurezza, evidentemente troppo radicale secondo il portavoce Santori, in piazza si parla di razzismo a migrazioni. «Il tema è più generale, non è un problema solo di Roma o dell’Italia, attraversa tutto il mondo occidentale – Laura, 35 anni – Guardiamo quello che succede in Europa, la Brexit è un discorso basato sulla paura, un’inquietudine profonda che divide molto di più di quanto possiamo pensare. Dobbiamo lavorare su questo, agire su preoccupazioni simili, che sono molto diffuse. Non è casuale che diversi partiti neonazisti stiano crescendo. Abbiamo un nome e un cognome [il riferimento è a Matteo Salvini, nda] ma stiamo parlando anche di un qualcosa che si muove in modo molto più profondo e a cui bisogna fare molta attenzione. Questa piazza è un buon antidoto, ritroviamoci insieme e capiamo quello che succede».
Secondo diverse delle persone intervistate, all’«aberrazione dell’identitarismo» prodotta da Salvini, bisogna opporre un popolo che non sia definito per esclusione di quante e quanti migrano ma piuttosto dal riconoscersi come parte di una stessa comunità, in termini propositivi e non oppositivi. Una comunità che tuttavia è anche una patria, tanto che la piazza delle Sardine si apre con l’inno di Mameli.
Circola l’idea che per tornare a fare politica sia necessario non rimettere in discussione i temi dell’antifascismo e dell’antirazzismo, mentre i femminismi non sono mai citati. Soprattutto al centro di interventi e battute c’è l’idea di superare i discorsi di odio: il linguaggio deve essere cortese, dialogante e le diversità d’opinione accolte.
Restare lontano dall’odio e dalla violenza sembrano, soprattutto nelle dichiarazioni dei “leader”, un collante universale tra le Sardine. Eppure nella piazza ci sono forme di partecipazione eterogenea. Il coro «odio la Lega» riecheggia qua e là, mentre qualcuno afferma che «odiare Salvini sarebbe uno scivolone». Una signora dai capelli rossi ci tiene a chiarire, in risposta al maldestro invito rivolto dalla sardina Stephen Ogongo al fascista Di Stefano che: «Queste piazze delle sardine non sono di destra, sia per il linguaggio che per il modo di porsi. CasaPound non ha niente a che fare con questa manifestazione, poi non per forza devi essere contro CasaPound, perché non devi essere per forza contro qualcuno. Sicuramente non abbiamo lo stesso humus, lo stesso modo di vivere la vita». Un ragazzo con una bandiera della pace messo a mo’ di mantello scherza: «Se vogliono scendere in piazza e dichiararsi antifascisti e cantare Bella Ciao, dirsi antirazzisti, per lo Ius Soli e per l’accoglienza, e hanno quindi cambiato idea, siamo contenti».
Altro tema caldo è il dibattito su violenza e nonviolenza, con tutte le sfumature questi due concetti possono assumere. «Io ho vissuto insomma i movimenti dal ‘68 al ‘77 – dice Paolo, 60 anni – Lì ci si menava, qualche volta si sparava. So’ sempre stato pacifista, quindi le prendevo da una parte e dall’altra oggettivamente. Comunque ci sono delle situazioni in cui bisogna pur fare qualcosa, non è che si può sempre porgere l’altra guancia. In Italia la non violenza è fondamentale, poi se stai in Sud America, insomma ci stavano anche i sacerdoti che prendevano il mitra, ma qui da noi il contesto è diverso. Lì c’è una storia di violenza molto più esplicita, qui più sotterranea».
L’antisalvinismo, comunque, rimane il collante principale dell’aggregazione delle sardine, ma non esaurisce del tutto le ragioni della presenza in piazza. Di esplicita opposizione al governo non c’è traccia, se non per quel che concerne l’abrogazione dei decreti sicurezza. Una partita centrale su cui lo stesso autoproclamatosi rappresentante Mattia Santori si è trovato a dover fare un passo indietro rispetto alla sua prima proposta di semplice modifica sulla base delle indicazioni del Presidente della Repubblica.
Di contenuti positivi capaci di unire la mobilitazione non se ne vedono tanti. La discussione sui temi è rimandata ad un secondo momento. Di rivendicazioni redistributive o sociali, per il momento, non c’è neanche l’ombra. Un passo indietro rispetto alla vivacità o alla radicalità di contenuti che altri movimenti recenti son stati in grado di esprimere. L’attenzione sembra anzi molto calibrata sull’evitare che temi potenzialmente divisivi entrino in campo.
In ogni caso vale la pena lasciare il beneficio del dubbio a una piazza che certo esprime una disponibilità a esserci ma sembra farlo attraverso un’istanza partecipativa con caratteristiche lontane da quelle del banco di pesci. In un banco, ma anche in uno stormo, le interazioni tra vicini, le relazioni di prossimità si coordinano dando vita a un corpo collettivo. Le sardine per il momento sembrano più dei pesci in un acquario: manca qualsiasi vibrare sincrono e sono ancora troppo quiete per essere marea. Rimane la curiosità, sia mai che quest’acquario riescano a romperlo.
Tutte le foto sono di Claudia Rolando