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MONDO
“Apartheid in Palestina”: intervista a Gabriel Traetta
In questa intervista a Traetta, partendo dal suo libro “Apartheid in Palestina” pubblicato da Deriveapprodi, si ricostruisce la tortuosa evoluzione delle traiettorie istituzionali Onu in merito alla questione dei Territori Occupati, vagliandone efficacia o fallimenti e conseguenti ricadute legali e geopolitiche. Si affronta inoltre la questione dell’antisionismo equiparato nella narrazione mainstream con l’antisemitismo
Apartheid in Palestina è netto, sin dal titolo. È un libro che, senza indugi, sgombra il campo da incertezze interpretative sulla natura feroce del regime israeliano imposto ai Territori Palestinesi Occupati. Dalle sue pagine emerge nitida l’evidenza della crudele discriminazione perpetrata a danno di milioni di persone in Palestina in un’appassionata e puntuale analisi che è valsa al suo autore Gabriel Traetta il premio dedicato alla memoria di Maurizio Musolino, giornalista co-fondatore insieme a Stefano Chiarini dell’associazione Per non dimenticare Sabra e Chatila.
Insegnante nelle scuole primarie, Traetta è laureato in Relazioni internazionali con una significativa esperienza in contesti diplomatici all’estero e nell’attivismo contro crimini umanitari e di guerra nei confronti di vittime della discriminazione razziale.
Le pagine di Apartheid in Palestina sono refrattarie ad ambigui posizionamenti o inetti equilibrismi intellettuali, ricostruendo in modo lineare evidenze storiche, basandosi su robuste fonti documentali e bibliografiche. Il lettore trae indiscutibile beneficio dall’accurata disamina di tutti quegli eventi chiave che nel tempo hanno contribuito al consolidamento dell’odioso regime di apartheid vigente in Palestina.
La forza del libro risiede nella sua solida base di ricerca, ad esempio quando si concentra sulla tortuosa evoluzione delle traiettorie istituzionali Onu in merito alla questione dei Territori Occupati, vagliandone efficacia o fallimenti e conseguenti ricadute legali e geopolitiche. Molto ricca è la descrizione delle attività promosse dalle Nazioni Unite specie quelle relative all’istituzione di enti e agenzie coinvolti nella gestione della crisi umanitaria prodotta dall’avanzata sionista. Tutto ciò fa da sfondo alle pratiche di apartheid messe a nudo con una serie di dettagli che formano un tesoro informativo utile sia agli addetti ai lavori sia a chi voglia avvicinarsi alla conoscenza di questi temi.
Il merito del libro risiede nel metodo e nelle chiare parole che l’autore sceglie per argomentare danni umanitari e criminali ingiustizie alla base dell’apartheid su cui grava il peso dell’omertoso silenzio delle potenze occidentali.
Ne abbiamo parlato con Gabriel Traetta.
Nella sinossi di Apartheid in Palestina è espresso l’intento decostruttivo dell’impalcatura di una storia scritta dai vincitori. Il volume, che nel sottotitolo enuncia il tema delle prospettive future, dimostra a più riprese la debolezza intima e strutturale a livello storico e sociale del piano colonial-sionista. Insomma, appare complicato prefigurare un Israele vincitore. Qual è la sostanza decostruttiva che si affronta nel libro?
Questa domanda mi conduce con urgenza a discutere proprio della parte finale analizzata nel testo. E cioè del futuro. Sì, credo che lo scenario che Israele abbia di fronte sia buio, provo a spiegare perché.
Innanzitutto, preferisco parlare di società piuttosto che di Stato non perché le due cose non possano procedere in parallelo, ma perché è molto importante non svuotare di responsabilità quello che è il soggetto protagonista della storia e cioè i popoli, intesi non come singole individualità ma forma aggregata in comunità, quindi, società.
Nel corso dei decenni, la società israeliana ha fabbricato un percorso diretto alla sua implosione e, con riferimento alle talvolta abusate categorie di vinti e vincitori, foriero di disastro. Una società fondata sull’apartheid poggia di fatto su un castello di sabbia, è debole per natura perché in ogni sua parte cova sempre una potenziale rivolta, sommossa o rivoluzione. A livello della leadership israeliana, riferendoci a personaggi apicali, ritorna spontaneo il riferimento al famoso discorso del 2015 dell’ex presidente Rivlin che evidenziò la composizione frammentaria della società israeliana costituita da quattro tribù: arabi ed ebrei laici, religiosi, ultraortodossi. Si tratta cioè di microcomunità al suo interno che non remano assolutamente nella stessa direzione. Una comunità, o se si preferisce uno Stato, deve interrogarsi sulle fragili fondamenta e prospettive fallimentari testimoniate anche dalle recenti e fortissime tensioni interne. Al momento, non si possono utilizzare le categorie relative a vinti e vincitori. Tuttavia, parliamo di un soggetto, Israele, che non è una società che sta “vincendo” ma che, al contrario, si è dotata da sola degli elementi che la faranno implodere.
Eppure agli occhi dell’opinione pubblica, nella narrativa più diffusa, Israele è perlopiù una potenza indiscussa, dominante…
Gli Stati forti hanno tutto l’interesse a far sì che la percezione che si abbia all’esterno di se stessi sia quella di una voce unica, da blocco monolitico. È una regola classica delle relazioni internazionali “più appari forte, più sei forte”. La narrazione mainstream che offre Israele non può che essere questa, strettamente intrecciata al suo interesse.
In effetti, si registrano crepe nella percezione che si ha di Israele anche tra suoi storici sostenitori internazionali. La stessa comunità ebraica statunitense osserva perplessa, persino disgustata, l’egemonia crescente della “tribù” più teocratica e ortodossa in seno a Israele. Un’espansione a danno della componente più laica. Tra l’altro, la legge di bilancio approvata di recente dal governo Netanyahu premia la componente haredi e investe ingenti risorse nella sostanziale annessione della Cisgiordania: una sorta di mega-condono ed espansione degli insediamenti coloniali sotto l’etichetta del sionismo religioso. Questo non allontana Israele dalle simpatie sinora complici dell’Occidente?
Per ciò che sta accadendo oggi in Israele è necessario ricordareil tentativo di riforma giudiziaria promossa dal governo attuale e le reazioni che sta scatenando. Quello che Netanyahu ha in mente è grottesco: animato com’è dalla paura di finire potenzialmente in galera, ha immaginato che con l’approvazione della riforma giudiziaria il governo potesse essere più incisivo nel condizionare l’azione della magistratura. Probabilmente, non si aspettava la veemente reazione che c’è stata da parte della società israeliana, soprattutto nella sua componente laica. Detto ciò, quello che trovo maggiormente rilevante è che, traendo spunto perlopiù dai media mainstream autori di un’informazione ampiamente distortacome quella recente de “la Repubblica” attraverso editoriali e interviste del suo direttore Molinari, noi occidentali siamo abituati a osservare tale crisi attraverso quella lente che ci fa apparire le tensioni civili in Israele come normali eventi di confronto politico in uno stato democratico che vive una fase di scontri tra poteri. In soldoni, il tutto è ricondotto a un conflitto tra magistratura e parte politica che noi italiani ben conosciamo dopo vent’anni di berlusconismo. Insomma, una cosa quasi del tutto normale, mentre non vi è minimo cenno in quegli scritti di un soggetto occupante, Israele, e l’altro che subisce l’occupazione, cioè i Palestinesi. Se questa non è propaganda, è almeno una lettura assai superficiale. Penso invece che bisogna andare ben oltre tale impostazione e comprendere che si parla di conflitti che hanno a che fare con il futuro di quella regione e quanto in questa discussione risulti marginale la realtà di ciò che Israele è: un regime di apartheid, un’etnocrazia.
Etnocrazia ben rappresentata nel nuovo esecutivo…
Netanyahu ha formato il suo nuovo governo rivolgendosi alla parte più sionista della società israeliana, quella dei partiti di Potere Religioso e Potere Ebraico, capeggiati rispettivamente da Smotrich e Ben-Gvir, oltranzisti ora divenuti ministri. Giusto per capirci, Itamar Ben-Gvir, nel corso della campagna elettorale di non più tardi di un anno fa circa, girava armato pistola alla mano, vantando diritti di supremazia e proprietà su Gerusalemme e sui Territori Occupati. Stiamo parlando di personaggi che in un qualsiasi contesto europeo verrebbero definiti terroristi, fascisti, il peggio del peggio.
Anche in questo caso, però, bisogna analizzare le dinamiche della società e non ricondurre i cambiamenti in atto al volere di questo o quel politico, frequente errore che spesso commettiamo con un’interpretazione “leaderistica” della storia con singoli politici in grado di dare una direzione alla società. La verità è proprio l’opposto: i politici non sono marziani atterrati in Italia, Israele o negli Stati Uniti. È la società che produce i politici. Quando il Ben-Gvir o lo Smotrich di turno affermano concetti razzisti di espulsione o eliminazione dei palestinesi non dobbiamo immaginare una società israeliana attonita spettatrice. Buona parte di essa sostiene proprio questo: il politico ne è interprete. Queste cose vanno dette, altrimenti si deresponsabilizza la società israeliana rendendola estranea all’installazione del regime di apartheid.
Nel libro, si fa riferimento alla risoluzione Onu 181 del 1947 (che conferisce a un movimento politico e coloniale il diritto di fondare uno Stato) come a un «provvedimento ingiusto e immorale ma legittimo e internazionalmente riconosciuto», ricordando anche un approccio teorico tratto dalle opere di Karl Marx. Viceversa, la risoluzione 194 del 1948 relativa al diritto al ritorno dei profughi palestinesi non è stata mai rispettata o riconosciuta. In che rapporto stanno due risoluzioni di questa portata? E in che rapporto sta in generale una risoluzione delle Nazioni Unite rispetto a ciò che poi realmente si verifica sul territorio? Tra l’altro, in Apartheid in Palestina il robusto apparato cartografico in appendice è esso stesso in grado di spiegare come siano andate le cose nel corso degli anni, nel totale disprezzo degli orientamenti di diritto internazionale e degli stessi intendimenti Onu.
È una domanda complessa e, al tempo stesso, molto attuale. Parliamo di eventi del passato e però ogni giorno ci focalizziamo sulla relazione e le contraddizioni espresse da diverse disposizioni prodotte dalla massima e più autorevole organizzazione del sistema internazionale. Siamo in uno scenario globale dove alcune norme assumono peso e significato diversi in base al contesto in cui vengono applicate. Il diritto internazionale è uno o esistono plurimi diritti internazionali? Le disposizioni del diritto internazionale valgono per tutti o in base al contesto applicativo e agli attori coinvolti? Ovviamente, il diritto internazionale è, dovrebbe essere, uno. Nello specifico, la Quarta Convenzione di Ginevra prevede che uno Stato non può occupare uno Stato terzo e, facendolo, viola le norme di diritto internazionale. Allo stesso modo, costituisce illecito anche la deportazione di una popolazione di un territorio occupato. Nel mondo reale, invece, le norme di diritto internazionale vengono continuamente interpretate in maniera diversa in base al contesto e agli attori coinvolti. L’esempio lampante è contemporaneo e riguarda l’invasione dell’Ucraina.
Siamo tutti d’accordo nel mondo occidentale, seppur con varie sfumature, sul fatto che la Russia stia occupando l’Ucraina, un Paese sovrano. Non lo sosteniamo perché siamo di sinistra, centro o destra. Semplicemente, utilizziamo un parametro, costituito dal filtro del diritto internazionale, che permette appunto di sostenerlo. In base allo stesso ordinamento giuridico, i vari Stati hanno la possibilità di adottare lo strumento delle sanzioni nei confronti del Paese che commette la violazione. Ed è ciò che si sta attuando nei confronti della Russia. Guardiamo adesso alla Palestina: tutte le risoluzioni Onu, tutti i report senza eccezione, definiscono Israele soggetto occupante. Non c’è dubbio su questo. Al più, potrebbe sussistere dubbio solo relativamente a quando far risalire la data iniziale dell’occupazione. Utilizzando i criteri del diritto internazionale, l’occupazione risale al 1967. Da quasi sessant’anni, dunque, nessuno dei Paesi del blocco occidentale ha mai posto sanzioni contro Israele. È la pratica dimostrazione di un’applicazione asimmetrica del diritto internazionale condizionato da contesto e parti in causa.
Ritornando dunque alla domanda, nel caso della risoluzione dell’istituzione di uno stato israeliano, il blocco diplomatico che la sosteneva era molto determinato nell’attuarla tant’è che ha avuto conseguenti effetti pratici. La risoluzione riguardante il diritto al ritorno dei profughi nelle loro terre d’origine, invece, non ha avuto il medesimo sostegno ed è stata una delle tante risoluzioni Onu rimaste semplici enunciati. Non dobbiamo dimenticare che le risoluzioni dell’Assemblea generale sono per natura dichiarazioni di principio: non c’è un’autorità, un ente, un organo, un potere preposti alla loro obbligatoria implementazione.
Tra gli strumenti istituzionali che l’Onu ha predisposto negli anni, l’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) è l’agenzia più rilevante per diffusione territoriale e impatto sociale. Istituita come strumento di natura temporanea, è sostanzialmente diventata permanente ma con numerosi limiti operativi e un ruolo circoscritto per incidere sui crimini comprovati. Nel libro, la questione Unrwa è ampiamente affrontata, è possibile tracciare un quadro complessivo della sua azione e dei suoi limiti?
L’argomento Unrwa è molto vasto. Con l’istituzione nel 1948 dello Stato di Israele, ben 750mila rifugiati palestinesi vanno a comporre un quadro di grave emergenza a cui l’Onu (peraltro istituita da soli due anni) decide di far fronte istituendo l’Unrwa quale agenzia deputata al soccorso dei rifugiati palestinesi. Nata per scopi umanitari, con compiti concentrati a sostenere e sviluppare le potenzialità umane dei profughi occupandosi di istruzione, costruzione infrastrutture, sanità, servizi sociali, microcredito e così via. Insomma, l’Unrwa assorbe nel suo mandato prerogative e responsabilità tipiche di uno Stato. Un’agenzia, perciò, che si occupa di enormi problematiche dovendo governare una comunità assai complessa quale quella costituita da rifugiati. Nel tempo, oltretutto, costoro sono arrivati a essere ben 5 milioni. Ad aggiungere difficoltà operative nella gestione Unrwa è il fatto che l’agenzia segue i rifugiati palestinesi in un territorio a tasselli distribuiti in più realtà politiche e Stati, comprendendo Cisgiordania, striscia di Gaza, Gerusalemme, Libano, Giordania, Siria.
Un’agenzia-Stato, all’interno di una situazione frastagliata ed esplosiva. Che sostegno ottiene dagli altri Stati geograficamente interessati?
Per forza di cose, l’Unrwa ha come interlocutori sia l’Autorità nazionale palestinese sia lo Stato di Israele in una condizione di costante negoziazione e alla ricerca di un continuo equilibrio. Lateralmente al lodevole compito umanitario svolto, bisogna fare due considerazioni di carattere più politico. La prima, se vogliamo di natura “micro”, è che nell’intera regione mediorientale, con ormai 30mila dipendenti, l’Unrwa è l’organizzazione che di fatto rappresenta un datore di lavoro stabile e sicuro. Oltretutto, per entrare a farvi parte, bisogna dimostrare totale estraneità all’attivismo politico in un territorio dove tutto è atto politico, anche quello di scegliere una strada piuttosto che un’altra dove magari è presente un checkpoint militare. Tale esigenza d’ingaggio è da comprendere anche perché Unrwa è continuamente sotto attacco con l’accusa di essere contigua a posizioni terroriste non solo da Israele ma anche dal blocco dei Paesi occidentali.
L’altra osservazione, “macro”, riguarda la dimensione internazionale e istituzionale: l’Unrwa sin da subito è stata istituita con poteri limitati, vista la base strutturale del budget quasi totalmente dipendente da privati. Infatti, solo il 2% delle risorse economiche sono ricavate da fondi messi a disposizione dall’Onu, mentre il 98% delle stesse è rappresentato da donazioni dipendenti da mille fattori, non ultimo il colore politico: Trump, ad esempio, annullò completamente le donazioni Usa che costituivano la prima fonte di donazione privata a favore dell’Agenzia. È vero invece che i Paesi dell’Unione Europea sostengono l’Agenzia che, però, non ottiene sostegno compatto dai Paesi arabi con realtà nazionali che si sottraggono a tale supporto non ritenendosi responsabili della sciagura palestinese.
L’Unrwa è certamente una presenza significativa, necessaria e lodevole per i compiti svolti ma che, trasformatasi da temporanea a sostanzialmente permanente, diviene organica nello scenario assoggettato alle politiche aggressive di Israele. La sua condizione di “Stato che Stato però non è” rischia, seppur involontariamente, di depotenziare la velleità di autodeterminazione palestinese?
Sarebbe interessante ascoltare la risposta a questa domanda se posta ai diretti protagonisti. Da quel che si osserva, il mainstream politico d’Israele non chiede, ma magari lo desidera, che l’Unrwa sia soppressa. La presenza dell’Unrwa oggettivamente produce effetti calmieranti le tensioni dovute al conflitto israelo-palestinese. Questo si osserva molto bene nello scenario più depresso di Gaza, dove se non ci fosse l’Unrwa insieme con altre agenzie umanitarie a distribuire pasti, migliaia di persone morirebbero letteralmente di fame. I rifugiati, dal canto loro, organizzano spesso manifestazioni di protesta dai toni anche molto accesi, lamentando il ridimensionamento costante, anno dopo anno, delle attività dell’Unrwa che riceve risorse sempre meno consistenti.
È bene sottolineare che l’Unrwa ha responsabilità sul piano del sostegno umanitario e non può rientrare in un quadro di responsabilità politiche. Certamente, svolge un lavoro nobile che, però, rischia di essere solo un palliativo alla sofferenza palestinese: se ogni giorno Israele bombarda, deporta, occupa, demolisce, colonizza, arresta, uccide, la dimensione umanitaria resterà sempre molto indietro rispetto all’evoluzione della realtà geopolitica. La soluzione alla questione palestinese va ricercata oltre, nella dimensione politica.
Quando e perché è divenuta evidente e consistente la denuncia dei crimini di apartheid da parte di Israele, argomento centrale dell’analisi contenuta nel libro?
Quando parliamo di questo odioso crimine contro l’umanità, è bene ricostruire del come si sia arrivati oggi a poter giustamente parlare di apartheid. Bisogna infatti usare molta cautela prima di arrivare ad accusare una comunità o uno Stato di adottare e implementare questo tipo di crimine così tremendo. È perciò sempre molto importante riferirsi a fonti autorevoli e personalmente faccio riferimento a quelle dell’Onu. Innanzitutto, la definizione di apartheid è quella derivata dalla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale per cui con apartheid si intende un crimine che comporta atti disumani adottati per mantenere e stabilire il dominio di un determinato gruppo etnico su tutti gli altri e la loro sistematica oppressione. Varie sono le entità Onu che hanno apertamente associato questo tipo di crimine al regime israeliano. Il primo caso è riferibile al report del 2007 dell’allora Relatore speciale per il monitoraggio dei diritti umani in Palestina John Dugard che già espresse con franchezza grave preoccupazione per le politiche israeliane adottate, configurabili come crimine di apartheid.
Il libro ha il merito di riportare fedelmente documenti comprovanti atti o eventi ufficiali a sostegno della condizione di apartheid. È molto rilevante il caso del report Escwa (Economic and Social Commission for Western Asia) sotto la responsabilità della segretaria esecutiva Rima Khalaf al quale sono stati opposti violenti tentativi per tacitarlo…
Nel corso degli anni, i report dei Relatori speciali hanno continuato a confermare ed evidenziare lo stato di apartheid fino alla richiesta di indagine della Corte internazionale penale per la verifica di crimini di pulizia etnica. Questo filone è andato avanti fino all’episodio spartiacque del 2017. Tra gli organi principale dell’Onu vi è il Consiglio economico e sociale che è diviso in commissioni regionali: l’Escwa è quella che si occupa di Asia occidentale compreso il Medio Oriente. Ebbene, il report Escwa del 2017 dettaglia in modo assai approfondito la messa in atto da parte di Israele di un regime di apartheid. Il documento è amplissimo, però un paio di cose vanno qui menzionate. In esso, infatti, si fa un’analisi delle leggi e degli strumenti giuridici che Israele ha ideato per rendere concreta l’apartheid. Ad esempio, evidenzia la legge della Knesset, il parlamento israeliano, per cui nessun partito politico può esistere, operare e competere elettoralmente se mette in dubbio il carattere espressamente ebraico dello Stato di Israele. Ciò vuol dire che, per legge, in Israele non si può neanche pensare di superare la supremazia ebraica. Altro aspetto denunciato dal documento Escwa è quello per cui a partire dal 1967 lo Stato israeliano ha follemente prodotto quattro tipi diversi di regimi giuridici che governano la comunità palestinese. Esiste un regime giuridico che governa i palestinesi che hanno lo status di cittadino israeliano. Poi quello che governa i palestinesi cittadini di Gerusalemme. Inoltre, esistono le leggi militari a cui sono sottoposti i palestinesi di Gaza e Cisgiordania e infine un insieme complicato di norme finalizzate a impedire il ritorno di palestinesi che vivono al di fuori del controllo israeliano. Il documento riporta casistiche concrete. Una a mo’ di esempio: in Cisgiordania, un palestinese scaglia una pietra per colpire un israeliano e, a parità di condotta ma con ruoli rovesciati, un israeliano fa lo stesso nei confronti di un palestinese. Ebbene, il palestinese verrà arrestato e sottoposto immediatamente alle procedure di legge marziale ritenuto colpevole fino a prova contraria. All’israeliano verranno applicate le garanzie dell’ordinamento civile israeliano, dunque innocente fino a prova contraria.
Perché dunque questo report del 2017 è un episodio spartiacque?
La reazione istituzionale statunitense e israeliana al report è stata quella del copione classico seguito in questi casi, con accuse di razzismo e antisemitismo alla direttrice Escwa e conseguente richiesta all’allora segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres di far ritirare il documento. Ne è seguita un’aspra battaglia diplomatica tra il Segretario generale e la Segretaria esecutiva Escwa che alla fine si è risolta con le sue dimissioni. Questa decisione, però, non ha inibito gli effetti scatenanti dal contenuto del report Escwa che ha fatto così da apripista a una più ampia e trasversale denuncia dell’apartheid israeliana.
Quali sono atti più recenti di denuncia dell’apartheid?
Nel biennio 2021-22, le due più importanti Ong che si occupano di diritti umani, vale a dire Amnesty International e Human Rights Watch, hanno pubblicato rispettivamente due report molto ben strutturati che dimostrano l’istituzione di un regime di apartheid in Israele. In aggiunta a ciò, la grossa novità è stata rappresentata dall’iniziativa di B’Tselem, organizzazione israeliana che ha prodotto un documento giunto a medesime conclusioni: in questo caso per la politica israeliana è molto più difficile accusare di antisemitismo un ente costituito da civili ebrei. Nello scenario di denuncia e preoccupazione, è doveroso ricordare il puntuale report di Francesca Albanese, attuale Relatrice speciale Onu per i Territori Occupati Palestinesi.
Nel profilo conclusivo del libro, vi è un importante paragrafo dedicato alla questione antisemitismo/antisionismo con riferimento particolare agli effetti infausti contenuti nel documento dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). Oggi, non si può esprimere una sana critica al sistema israeliano senza essere tacciati di antisemitismo. Oltre a ciò, studi, ricerche accademiche vengono inibite o troncate e, in modo impattante, a livello politico è raro osservare nette prese di posizione di leader o altri esponenti contro i crimini compiuti nei Territori Occupati. Anche il nostro governo aderisce ai criteri proposti da Ihra…
Il tema antisemitismo/antisionismo è fondamentale. Negli anni, è diventato una sorta di refugium, un “tana salva tutti”: la definizione di comportamenti antisemiti è uno strumento potentissimo atto ad accusare chiunque sia solo lievemente critico nei confronti della politica israeliana. Per carità, non che non vi siano in giro atti e comportamenti espliciti di antisemitismo e quindi giustamente da perseguire e condannare, ma le parole della definizione Ihra hanno strumentalmente creato uno strumento mostruoso nelle mani della retorica sociopolitica israeliana. Cosa c’è di peggio di essere accusati di razzismo e discriminare qualcun altro per motivi religiosi o per il colore della pelle? La deterrenza dell’accusa infamante ha funzionato.
È uno strumento potente di cui si è dotato Israele e perciò è importante decostruirlo. Da maestro di scuole primarie seguo la strada più semplice, quella dell’approccio linguistico. Antisemita vuol dire nutrire contrarietà verso Sem, il figlio di Noè. Nella tradizione biblica, Noè è il progenitore di tutti i popoli ebraici e quindi, da un punto di vista letterale, antisemita vuol dire contrario ai Semiti. Nel tempo ha acquisito un’accezione diversa, tuttavia inizialmente i Semiti sono tutti coloro che parlano una lingua del ceppo semitico. Traslando ciò al mondo contemporaneo stiamo parlando di circa 200 milioni di arabi, 50 milioni di persone che parlano l’amarico, prima lingua d’Etiopia e quindi 9 milioni di individui che parlano l’ebraico. Per antisemitismo dovrebbe intendersi contrarietà a tutti questi soggetti. Gradualmente, nell’Europa dell’800, in un’epoca dove l’idea coloniale prevale, si va diffondendo sempre più l’accezione della parola antisemita partorita da un’accozzaglia di idee, teorie, argomentazioni razziste, pseudoscientifiche atte a discriminare un soggetto di fede ebraica come singolo o la comunità ebraica in toto. L’antisemitismo, sempre dobbiamo ricordarlo, non è un prodotto della cultura araba ma nasce nella cultura europea. Si parte dall’antigiudaismo cristiano e si arriva all’orrore dell’antisemitismo nazi-fascista o financo a quello dei partiti di estrema destra che continuano a professarsi antisemiti. È insomma una costruzione europea di discriminazione razzista verso la comunità ebraica.
Chiaro, siamo su un piano infinitamente distante da quel che debba intendersi per antisionismo.
Il sionismo, in sintesi, si è tradotto in una forma specifica di colonialismo. Si parla cioè di colonialismo d’insediamento che ha per obiettivo l’espulsione, anche tramite l’eliminazione, di un popolo indigeno che abita un dato territorio che si intende colonizzare e la sua sostituzione con il proprio corpo etnopolitico attraverso due strumenti: il regime di occupazione e l’immissione di coloni. L’antisionismo è perciò contrarietà a un processo politico.
Qual è il terreno di coltura dal quale prende nutrimento la distorsione delle definizioni Ihra?
Vale la pena ricordare alcuni passaggi storici della posizione dell’Onu sul tema dell’antisionismo. Cosa che andrebbe diffusa e discussa in tutte le scuole, nei corsi di politica e di diritto: nel 1975, quindi in un’epoca contraddistinta sicuramente da una diffusa vittoria globale di forze e ideologie socialiste o progressiste, l’Assemblea generale dell’Onu approva la risoluzione 3379 che definiva il sionismo una forma di razzismo e di discriminazione razziale. Dopo quasi vent’anni, nel 1991, a ridosso del crollo comunista e con l’instaurarsi di una potente egemonia Usa, si decide di revocare e annullare la risoluzione 3379. Nel 1998, poi, viene istituita l’Ihra per apparenti fini nobilissimi quali iniziative di lotta all’intolleranza e promozione della didattica sulla Shoah, magari ci fossero attività serie nelle scuole orientati alla lotta contro la xenofobia, il razzismo, l’antisemitismo! In realtà, Ihra crea una serie di definizioni al centro della critica attuale che evidenzia un vero e proprio uso strumentale del concetto di antisemitismo pilotato dalla leadership sionista. Basta fare una lettura leggermente più approfondita dei testi Ihra e ci si rende conto della disonesta equiparazione tra antisemitismo e antisionismo. Cose del tipo quali la possibilità di critica a Israele solo a patto di rilievi che siano simili a quelli che siano rivolti a qualsiasi altro Paese… Ma cosa vuol dire? Posso criticare Israele solo impiegando critiche simili e utilizzate per altri? E se Israele adotta politiche completamente differenti non posso più analizzarle e criticarle?
E ancora, sostenere che lo stato di Israele sia uno stato razzista equivale a negare il diritto dell’autodeterminazione alla popolazione ebraica. Questo è anche peggio! È evidente che non sussiste alcun nesso tra le due cose. Insomma, siamo nello scenario del “se non facesse piangere, farebbe ridere”. Purtroppo, i testi Ihra assumono valenza legale e Stati come l’Italia appoggiano tali definizioni.
L’operazione antisemitismo uguale ad antisionismo ha, almeno in parte, funzionato e creato in maniera molto abile un contesto da tifoseria ultrà che va oltre il concetto di alleanze politiche: o tifi Israele o sei anti-Israele. Questo spirito rischia di non lasciare spazio a nessun ragionamento. E non possiamo permetterlo.
Apartheid in Palestina è in libreria, edito da Derive e Approdi, rilevante contributo al dibattito sulla questione israelo-palestinese e fedele a uno degli esergo in esso contenuti, frutto del pensiero di Michel Foucault: «Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione».
Immagine di copertina di Openverse di Libertinus