approfondimenti
ITALIA
Ancora una strage sul lavoro: disastro fossile a Calenzano
Ancora morti sul lavoro, questa volta in uno stabilimento di stoccaggio di petrolio. La transizione energetica è ormai un ricordo del passato per il nostro governo che neppure la menziona più, mentre la violenza dei combustibili fossili, causa principale dell’emergenza climatica, colpisce la classe lavoratrice e i territori
Nell’Italia paese record per morti sul lavoro, durante la giornata del 9 dicembre si è compiuta una nuova strage. Nella piana fiorentina di Calenzano, in un sito industriale di Eni, si è verificata una violenta esplosione causata probabilmente dalla dispersione di vapori di idrocarburi nell’area di carico delle autobotti. L’esplosione, così potente da essere percepita anche dai sismografi, ha causato 5 morti.
Il sito di Calenzano è enorme, il perimetro è di ben 170.000 metri quadrati ed è attivo dal 1956. Dal 1971 è collegato tramite un oleodotto al petrolchimico di Livorno. Il deposito contiene, secondo il gestore del sito, ben 152.000 tonnellate di oli minerali, soprattutto gasolio (attorno alle 132.000 tonnellate). Al suo interno si svolgono operazioni di stoccaggio, trasferimento, scarico e carico su autobotti.
Calenzano si trova in una delle tante zone del Paese diventate ecosistemi fragili per essere state sacrificate al profitto del capitale. Nella piana tra Firenze e Prato la cementificazione urbana e industriale è elevatissima, è stato costruito un nodo logistico centrale, con il suo portato di cemento, impermeabilizzazione dei suoli e traffico su gomma. Un’alluvione nel novembre 2023 causò un morto e gravi danni alla popolazione.
Tutte le morti sul lavoro sono tragiche: sono espressione di assenza di scrupoli da parte della classe padronale, sono la prova della carenza di tutele della classe lavoratrice e sono il simbolo di un sistema capitalista che mette al centro il profitto di pochi. Per aumentare il profitto, si abbassa qualunque costo, anche a scapito di vita e salute delle persone.
Tuttavia in questo caso la morte di questi cinque operai genera a mio parere ancora più rabbia. Era il 1997 quando a Kyoto si firmò un primo protocollo per ridurre l’emissione di gas climalteranti. Con quel documento le Nazioni Unite ammisero che i combustibili fossili erano i principali responsabili del cambiamento climatico.
Se i governi italiani succedutisi negli ultimi 28 anni avessero fatto anche un solo piccolo passo per fare uscire l’economia italiana dalla dipendenza da fonti fossili, stragi del genere non avrebbero luogo. Il deposito di Calenzano semplicemente non dovrebbe esistere se si fosse scelto di uscire dal fossile come la scienza chiede da decenni. Invece lo stabilimento è lì, continua a stoccare 132.000 tonnellate di petrolio in una zona tra le più densamente popolate della Toscana, con il beneplacito degli amministratori locali. Ricordiamo infatti l’amena uscita di Giani, attuale presidente PD della regione, che nel 2020 disse che sarebbe andato con i carri armati contro chi si fosse opposto a un rinnovamento del petrolchimico Eni di Livorno finalizzato a mantenerlo in vita. Rinnovamento peraltro in seguito mai avvenuto.
Non sono pochi i luoghi d’Italia, come Calenzano, segnati da Eni: Gela, Livorno, Brindisi, la Val d’Agri, sono zone tristemente note, dove per anni comitati, associazioni o singole persone si sono strenuamente battute contro gli impatti nel territorio delle infrastrutture della multinazionale.
Sono lotte faticose e impari, che raramente hanno portato qualche vittoria, forse solo nel caso della condanna subita da ex manager Eni nel 2021 per traffico illecito di rifiuti tossici in Val d’Agri.
La multinazionale, controllata al 30% dal Ministero del Tesoro, nel frattempo difende strenuamente il suo operato, in Italia e altrove. Poche settimane fa ha denunciato per diffamazione Antonio Tricarico, di Recommon, per aver affermato a Report che vi è una sovrapposizione di tempi tra l’assegnazione a Eni della licenza di sviluppo del ricco giacimento di gas di Zohr, al largo delle coste egiziane, e la drammatica vicenda che ha visto il rapimento e l’uccisione del ricercatore universitario Giulio Regeni da parte delle forze di sicurezza del Cairo.
Ricordiamo che quanto accaduto a Calenzano avviene nel quadro di un governo negazionista climatico, totalmente inadempiente rispetto agli Accordi di Parigi e che non finge neppure, come facevano i precedenti, di voler superare l’economia fossile.
A Baku durante la COP29 la premier ha affermato che «la natura va difesa mettendo al centro l’uomo [sic!] e senza ideologie». Dietro la pochezza di una frase del genere è facilmente comprensibile la cinica realtà: l’unica cosa che governo vuole mettere al centro è il profitto delle grandi aziende responsabili dell’emergenza climatica, con il portato di morti e devastazioni che questo determina e che Calenzano simboleggia.
I profitti delle multinazionali del fossile sono ancora oggi forza trainante dell’economia mondiale nonostante il collasso climatico che stanno provocando e nessun governo sta realmente mettendo in discussione il loro ruolo, tanto meno lo farà ora Meloni alleata del nuovo presidente degli Stati Uniti, fieramente negazionista.
In questo scenario cupo almeno quanto la nube nera che si è alzata per ore sopra lo stabilimento ieri, vanno notati i segnali in controtendenza. A poche centinaia di metri dall’impianto Eni vi è la fabbrica GKN.
In un post pubblicato ieri, 9 dicembre, il collettivo di fabbrica scriveva «A maggior ragione, con maggior forza. Riprendersi la vita in questa piana, prima che ci prenda la morte. Parlateci ora di decreti sicurezza, mentre ci attanaglia l’insicurezza globale […] Qua si aprono e si chiudono capannoni per sfuggire a contratti e leggi. Qua ti manganellano se chiedi di lavorare 8 ore per 5 giorni, si rivendicano le 40 ore settimanali, come nel 1800. Qua i soldi scorrono a fiumi e tra appalti, subappalti, si riciclano e nascono addirittura forme di mafia autoctone. Qua la media di malattie respiratorie e tumori è più alta di quella nazionale, perchè qua, l’aria è tra le più inquinate d’Europa. Qua aerei e inceneritori. Qua fondi finanziari chiudono fabbriche e magari la speculazione immobiliare ci fa la cresta. Beati voi. Che vi assolvete. Noi no. Noi schiumiamo di rabbia. Lasciati marcire qua, senza stipendi. […] A maggior ragione e con maggiore forza, che qua nasca il consorzio pubblico, la fabbrica socialmente integrata, un polo delle energie rinnovabili».
A poca distanza dall’esplosione e dalla strage un collettivo di fabbrica sta resistendo eroicamente da tre anni e mezzo per chiedere di convertire il proprio impianto industriale in ottica ecologista. Nel frattempo è stato ignorato e snobbato dalla classe politica di ogni colore ma questa vicinanza con Calenzano può apparire una tragica allegoria del tempo in cui viviamo e dell’urgenza di una lotta che sia insieme ecologista e anticapitalista. Oggi, perché domani sarà già troppo tardi.
Foto di copertina tratta dalla Pagina FB di Collettivo di Fabbrica Lavoratori GKN