cult
CULT
Ancora e comunque Resistenza
Che Italia è quella che celebra il settantasettesimo anniversario della Resistenza? E, soprattutto, cosa rimane della memoria di quegli eventi?
In questo tempo senza storia in cui il passato viene distrutto (parafrasando il titolo di un celebre saggio di Adriano Prosperi) la Resistenza è un pezzo di un mosaico di eventi sempre più lontani che ci giungono attraverso rifrazioni distanti e distratti. 77 anni sono tanti. Generazioni, idee, assetti politici, l’Italia di oggi è indiscutibilmente diversa di quella uscita dalla guerra e dalla Resistenza. E se questo valeva anche per il 1994 o per il 1956, forse qualcosa sta cambiando in modo più radicale: da una parte, lo sdoganamento dei ragazzi di Salò e il costante attacco ai e alle partigiane (da Pansa in poi), in modo sconnesso e astorico – niente a che vedere con il modo in cui la storiografia, giustamente, continua a interrogarsi sulla moralità e le scelte di chi combatté in armi contro l’invasore fascista; e poi, il moltiplicarsi di date memoriali, come quelle in onore degli Alpini il 26 gennaio, che se non esaltano il Fascismo sicuramente creano un panorama memoriale confuso e poco utile alla comprensione degli eventi. Dallo scoppio della guerra in Ucraina poi la Resistenza (con lettere maiuscola e minuscola) è stabilmente al centro del dibattito politico-culturale.
I valori della Resistenza
Uno dei nodi irrisolti collegati alla preponderanza del ricorso alla memoria pubblica a scapito di una diffusa conoscenza storica riguarda la nostra società oggi più che la comprensione e l’analisi degli avvenimenti del passato. Memoria pubblica e conoscenza storica non sono due processi necessariamente in antitesi tra loro; la storia recente ci racconta però di quanto il 25 aprile sia una data contesa nello spazio memoriale del paese, a prescindere dalla ricca e valida storiografia esistente sulla storia della Resistenza italiana. Per cercare di capire perché il 25 aprile possa essere percepito da alcuni come una data «scomoda» del calendario civile italiano sarebbe forse utile interrogarsi su quali sono le radici della società italiana e se quelle radici, che storicamente sono fissate nella Costituzione del 1948, il cui preludio è stato scritto da migliaia di combattenti contro il nazi-fascismo, hanno subito nel corso dei decenni dei mutamenti. Il problema che sembra aver attanagliato la società italiana dalla guerra di liberazione fino a oggi è quello della costruzione di un mondo nuovo.
La Resistenza aveva un nemico, i fascisti italiani e i nazisti tedeschi, chiaro, definito, contro il quale ha lottato e vinto. Si è caratterizzata come una reazione a un sistema dittatoriale al quale alcune centinaia di migliaia di italiani hanno deciso di non più sottomettersi, compiendo una scelta morale, quella della resistenza armata. Non a caso uno dei saggi più rilevanti e belli sulla storia della Resistenza italiana, quello pubblicato da Claudio Pavone nel 1991, ha per sottotitolo Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Lo Stato e la società venuti fuori dalla guerra di Liberazione hanno avuto come fondamento l’esperienza resistenziale, non nella sua accezione bellicista ma in quella valoriale. La Resistenza non si caratterizzava però soltanto per la sua reazione al nemico e al suo sistema di valori, ma anche per la sua carica propositiva, per un suo progetto di società in antitesi con quello affermato dal nemico.
Con il passare dei decenni, la carica valoriale della Resistenza è sempre più scemata, tanto nelle istituzioni quanto nella società; i primi ad accorgersene furono gli stessi partigiani, le cui voci si alzarono per denunciare già dagli anni Cinquanta che la Repubblica Italiana che avevano fatto nascere non corrispondeva ai loro ideali. Il problema della società italiana oggi non è come ricordare il 25 aprile ma comprendere se quei valori, dal 25 aprile 1945 al 25 aprile 2022 hanno fatto lo stesso percorso storico compiuto nello stesso arco di tempo dagli italiani, passando di generazione in generazione. Sta qui forse il grosso problema dello scambiare la memoria con la storia.
Resistenza o resistenza
In queste ultime settimane abbiamo potuto vedere come la Resistenza sia ancora viva e vegeta, e ancora e comunque l’evento fondante della Repubblica italiana, il prisma che usiamo per interpretare almeno un pezzo del nostro presente. La polemica, un po’ assurda, sull’utilizzo della parola resistenza dice naturalmente più del dibattito qui e ora, che della guerra in Ucraina. Ci dice, insomma, che da lì continuiamo a partire per guardare l’evento più importante del nostro tempo recente. Non è quindi casuale l’attenzione – spasmodica, ossessiva – dedicata all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (vale la pena specificare di cosa sia l’acronimo la parola ANPI, di recente un importante editorialista di un importante quotidiano italiano si è sbagliato). Questa attenzione arriva già in una fase di svolta per la principale organizzazione di ex partigiani combattenti: scomparsi tutti o quasi i e le partigiane, il compito dell’ANPI non è più quello di testimoniare e la lunga fase di transizione verso la post-memoria sembra ancora in ballo. In questo quadro, l’ANPI è ancora al centro del dibattito politico. Del resto, se proviamo ad allargare un attimo lo sguardo, non soltanto la crisi ucraina sembra – ma è un’illusione ottica – riproporre uno schema nato dopo il 1945, ma il panorama attuale pullula di riferimenti a quel periodo in generale: si parla di nazisti, si cita Hitler, non mancano neanche i riferimenti a Norimberga. Torniamo ancora a 77 anni fa.
Attacco alla storia
In questa masnada di riferimenti poco chiari e utili, sterilizzati a uso politico, in Italia si continuano a moltiplicare le date memoriali. In principio fu il 27 gennaio, Giorno della Memoria, nato dopo iter parlamentare lungo e complicato, invecchiato e anestetizzato in fretta. Poi è arrivato il 10 febbraio (“e allora le foibe???”), e ancora il confusissimo “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (tutto insieme, senza analizzare e distinguere), che si commemora il 9 maggio. Quasi nessuno conosce il “Giorno della libertà”; il testo della legge recita: «La Repubblica italiana dichiara il 9 novembre “Giorno della libertà”, quale ricorrenza dell’abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». Da ultima e non senza polemiche è arrivata la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, il 26 gennaio, un giorno prima del Giorno della Memoria e solo due settimane prima di quello del Ricordo. Anche a livello pratico, difficile immaginare la fattibilità di tre giornate memoriali in poco più di 16 giorni. Un pasticcio. E poi la data, come già notato da molti, è quanto di più sbagliato ci possa essere, visto che commemora la battaglia di Nikolajevska, durante l’invasione italiana dell’Unione Sovietica. Marco Mondini, storico e autore di Tutti giovani sui vent’anni. Una storia degli alpini dal 1872 a oggi, ha detto al Post: «Fin dal dopoguerra la narrazione epica di ciò che avvenne a Nikolaevska ha tolto quell’episodio dal suo contesto, e cioè la guerra di aggressione e l’ha posto in una bolla a se stante. Si celebra la sconfitta e il sacrificio di poveri giovani disperati che cercavano solo di tornare a casa». E nota come la data più giusta sarebbe stata il 15 ottobre, giorno di fondazione del corpo degli Alpini.
Invece ottobre proprio non deve proprio piacere al Parlamento italiano. Il 16 ottobre era la data più adatta per ricordare la Shoah, italiana il giorno della deportazione degli ebrei romani, quando più di mille persone furono deportate dai nazisti con l’attiva collaborazione dei fascisti italiani. Una data relativa all’Italia e che avrebbe posto al centro del dibattito la questione delle responsabilità italiane nella Shoah – che invece, fuori dagli studi storici, si continua a eludere.
Ancora e comunque Resistenza
Lo dice anche Stefania Ficacci nella nostra intervista, i concetti sono più importanti delle date. Queste, aggiungiamo noi, finiscono per diventare spesso feticci vuoti, giornate per rituali stanchi, per distrazioni di massa. Evitare che questo accada è la sfida più grande per il 25 aprile, 77 anni dopo, e soprattutto per gli anni a venire.
Come lo scorso anno, proviamo, in questo piccolo speciale, a tenere viva la memoria riempiendola di nuova linfa, provando a segnalare come la storiografia racconta la Resistenza. Simeone del Prete ha scritto dell’ultimo libro di Santo Peli (uno dei più importanti storici della Resistenza), un antidoto a semplificazioni e rovescismi sempre più diffusi. Si potrebbe poi ripartire da quello che si è escluso. Come scrivevamo l’anno scorso «l’Italia è una Repubblica fondata sulla rimozione del passato coloniale e su una scarsissima presa di coscienza delle responsabilità italiane sulla Shoah»; e se, confusamente, qualche passo in avanti sul secondo punto si è fatto, la rimozione del passato coloniale è ancora un tema fondante nel modo di essere italiani. Lo scorso anno abbiamo guardato al ruolo di un gruppo di ex colonizzati nella Resistenza (quella Banda Mario che sarà presto protagonista di un film), quest’anno guarderemo alla resistenza libica al colonialismo italiano con il libro di Alessandro Volterra e Maurizio Zinni, Il leone, il giudice e il capestro, una storia della repressione italiana della resistenza libica tra il 1928 e il 1932. Stefania Ficcaci, oltre a guardare al ricordo della Resistenza nei territori cercando di legarli alla loro evoluzione (come i cambiamenti demografici), ci invita a pensare alla storia di chi ha fatto la memoria della Resistenza, come le donne che nel primo dopoguerra. Infine, ci sembrava importante pubblicare un esempio di come la Resistenza viene raccontata alle nuove generazioni.