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MONDO
Ambiente e assedio. La battaglia ecologica in Siria del Nord-Est
Attraverso un’intervista a Gulistan Issa, Project Manager di Un Ponte Per, viene delineata la crisi ecologica nel Nord-Est della Siria e la risposta dell’Amministrazione Autonoma, che affronta le sfide ambientali con iniziative sostenibili, gestione comunitaria delle risorse e progetti di riforestazione
Nel Nord-Est della Siria, l’acqua è diventata una risorsa strategica e una questione di sopravvivenza. La crisi idrica che colpisce il Rojava non è solo il risultato di un clima sempre più arido o di vecchie infrastrutture, ma il frutto di un accerchiamento sistematico che mira a strangolare economicamente e socialmente questa esperienza politica. Il controllo delle fonti idriche e la riduzione forzata dei flussi d’acqua da parte della Turchia hanno amplificato una carenza già drammatica, aggravata dalla guerra e dalle sanzioni internazionali.
Fiumi un tempo vitali, come il Xabur e il Çaxçax, scorrono solo per pochi mesi l’anno, mentre città come Hesekê sopravvivono grazie a razionamenti e cisterne. L’agricoltura, pilastro dell’autosufficienza regionale, è in crisi. Al contempo, l’inquinamento delle falde acquifere e la mancanza di sistemi di depurazione efficienti stanno trasformando l’acqua potabile in un bene sempre più raro.
Il problema idrico è parte di una crisi ecologica più ampia. Lo smaltimento dei rifiuti, ad esempio, è spesso affidato a discariche non regolamentate, situate vicino alle fonti idriche. L’inquinamento atmosferico, dovuto alla raffinazione rudimentale del petrolio e all’uso massiccio di generatori a gasolio, contribuisce a un ulteriore deterioramento della qualità ambientale.
Nonostante ciò, il Rojava risponde con forza. Il modello del Confederalismo democratico ha posto l’ecologia al centro della propria politica, promuovendo iniziative dal basso per contrastare le difficili condizioni ambientali e geopolitiche.
Attraverso progetti di riforestazione, la riduzione dell’uso di fertilizzanti chimici e lo sviluppo di strategie di gestione comunitaria delle risorse idriche, si cerca di garantire che l’acqua rimanga un diritto per tutte e tutti e non un’arma nelle mani di poteri esterni.
Per comprendere meglio questa emergenza e le strategie adottate sul campo, abbiamo intervistato Gulistan Issa, Project Manager e Campaigner dell’organizzazione umanitaria Un Ponte Per. Nata a Hesekê nel 1994, ha vissuto e studiato in Siria, laureandosi in scienze farmaceutiche all’Università di Homs nel 2017. Subito dopo ha iniziato a lavorare con organizzazioni umanitarie e ora lavora sul campo, in Rojava, per contribuire a far fronte a una crisi ambientale con profonde radici politiche.
Ecologia e autogestione: un modello di resistenza ambientale
Nel Rojava, il modello del Confederalismo Democratico si propone come progetto che integra i principi ecologici nell’organizzazione sociale. L’autonomia amministrativa del Nord-Est della Siria si basa su un rapporto di equilibrio tra la comunità e la natura, affrontando con determinazione i limiti imposti dalle risorse disponibili. L’impegno verso un’ecologia politica non è solo teorico, ma si traduce in iniziative concrete. «Un esempio significativo è l’esistenza presso l’università del Rojava di una facoltà di Jinologia che si occupa di ecologia ed ecofemminismo. Questa struttura lavora per integrare i principi ecologici nella vita quotidiana, con particolare attenzione al ruolo delle donne nella gestione ambientale», spiega Issa.
Il ruolo delle donne in questa trasformazione è cruciale. Tra le figure più attive in questo ambito spicca Berivan Omar, vice co-presidente del dipartimento dell’Amministrazione locale. «Lei e il suo team stanno portando avanti un lavoro importante, affrontando le sfide ambientali e integrando le soluzioni ecologiche nel sistema di autogoverno», sottolinea Issa.
Nel Rojava, la sostenibilità non è un concetto astratto, ma una necessità per la sopravvivenza. «L’ecologia è considerata un pilastro fondamentale», afferma Issa. «Se si guarda al modello di autogestione e alla struttura sociale della regione, diventa chiaro che la relazione tra ecosistema e comunità è essenziale per una vita sostenibile nel Rojava».
Gestione dei rifiuti e sanità
Nel contesto di un Nord-Est siriano in continua emergenza, la gestione dei rifiuti rappresenta una delle sfide più complesse per l’Amministrazione Autonoma. Per decenni, in tutta la Siria non è esistito un vero e proprio sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti, né tantomeno un programma strutturato di riciclo. Negli ultimi anni, sono stati avviati alcuni progetti sperimentali che mirano a trasformare radicalmente questo settore, pur scontrandosi con budget limitati e infrastrutture insufficienti.
«Con Un Ponte Per abbiamo avviato un progetto di gestione dei rifiuti solidi e di riciclo, realizzato in collaborazione con il Dipartimento municipale dell’ambiente e prosegue da circa due anni. L’iniziativa ha introdotto aree di compostaggio per i rifiuti organici, con materiale raccolto dai mercati ortofrutticoli e dai ristoranti. Tuttavia, le risorse disponibili non permettono di coprire l’intera regione a causa di un budget estremamente limitato. Non possiamo intervenire su tutta Hasakê, Qamişlo o il resto del Rojava».
Il ruolo delle amministrazioni locali è stato determinante. «Le municipalità hanno fatto un grande sforzo per dotarsi di veicoli adibiti alla raccolta dei rifiuti e per mettere a disposizione spazi dedicati al compostaggio», prosegue Issa.
Oggi, il progetto pilota avviato a Hasakê ha permesso di separare i rifiuti in categorie – carta, plastica e organico – e di collegare questo processo alle cooperative economiche locali. «Attraverso le cooperative legate all’autogoverno, i materiali riciclabili vengono venduti a una delle poche aziende di riciclo presenti nella regione. Il ricavato viene reinvestito in progetti sociali. Uno degli esempi più concreti di questa iniziativa è la creazione di uno spazio per le donne: con i fondi ricavati dalla vendita di cartone e plastica, alcune cooperative hanno aperto una piccola palestra e un club sportivo. Accanto alla palestra è stato allestito uno spazio per i bambini, permettendo alle donne di avere del tempo per sé».
Oltre ai rifiuti solidi, il Rojava deve affrontare anche il problema dello smaltimento dei rifiuti sanitari. In assenza di infrastrutture adeguate, ospedali e cliniche rischiano di trasformarsi in focolai di infezioni, rendendo essenziale un sistema di gestione efficace. «Da cinque anni portiamo avanti un progetto specifico per la gestione dei rifiuti sanitari, in collaborazione con la Mezzaluna Rossa Curda», spiega Issa. «Abbiamo coinvolto oltre 60 strutture sanitarie in tutta la regione, da Qamişlo a Dêrik, da Tabqa a Manbij».
Uno degli obiettivi principali è stato quello di introdurre la separazione dei rifiuti per categorie direttamente all’interno delle strutture sanitarie. «Abbiamo formato il personale medico su come trattare i rifiuti pericolosi», afferma Issa. «Abbiamo poi costruito aree di smaltimento sanitario fuori dalle città per evitare contaminazioni».
Oggi, esistono più di 15 aree dedicate allo smaltimento dei rifiuti medici nel Rojava. Il processo prevede diversi passaggi: «I rifiuti vengono raccolti quotidianamente dal personale municipale e trasportati nelle aree dedicate. Qui vengono smaltiti attraverso un sistema che include frantumatori di vetro, riduttori di volume per aghi e siringhe, e inceneritori per materiali contaminati come mascherine, garze e guanti». Il progetto è stato, poi, affidato alle autorità locali. «La municipalità e il dipartimento sanitario, insieme alla Mezzaluna Rossa Curda, gestiscono oggi questo sistema, portando avanti le procedure di separazione e smaltimento».
Tuttavia, le difficoltà restano enormi. «Purtroppo, nel contesto attuale, progetti come questi vengono considerati secondari rispetto all’emergenza umanitaria e alla sicurezza. Eppure, senza una gestione efficace dei rifiuti, la crisi ambientale della regione rischia solo di aggravarsi». Il lavoro portato avanti in questi anni dimostra, però, che un cambiamento è possibile, anche nelle condizioni più difficili.
Demilitarizzare l’acqua
Nel Rojava, la gestione dell’acqua è diventata una battaglia politica e umanitaria. La costruzione delle grandi dighe sul Tigri e sull’Eufrate da parte della Turchia, nonostante gli accordi internazionali, ha ridotto drasticamente il flusso idrico verso Siria e Iraq. Ma il problema non si limita alla siccità: l’acqua è oggi uno strumento di pressione geopolitica, usato per soffocare il Nord-Est siriano.
«Fin dall’inizio, la Turchia non ha rispettato gli accordi sulla gestione delle risorse idriche», spiega Gulistan Issa. «Ma la situazione è peggiorata con l’occupazione di alcune aree strategiche, come la stazione idrica di Alok, principale fonte d’acqua per 1,5 milioni di persone tra Hasakê, Tel Tamer e Al-Hol».
L’invasione turca di Serekaniye nel 2019 ha segnato un punto di svolta. «Da allora, la stazione di Alok è sotto il controllo dell’esercito siriano filo-turco, che ne ha interrotto l’operatività, privando d’acqua non solo i curdi, ma anche arabi, yazidi e cristiani», sottolinea Issa. «Hasakê dipende ormai da pozzi privati, con acqua di dubbia qualità, mentre nel campo di Al-Hol, il più grande e instabile della regione, la mancanza d’acqua ha aggravato le condizioni sanitarie, aumentando il rischio di epidemie come colera e COVID-19».
L’uso dell’acqua come strumento di guerra ha avuto conseguenze devastanti sulla popolazione. «Le persone fuggite da Afrin sono state costrette a spostarsi più volte: prima a Tell Rifaat e Shahba, poi a Raqqa e infine a Hasakê, dove ora vivono in scuole trasformate in rifugi d’emergenza».
Per risolvere la crisi idrica, l’autogoverno del Rojava ha cercato un accordo con le forze filo-turche per riattivare la stazione di Alok: in cambio della fornitura di elettricità, il flusso d’acqua avrebbe dovuto essere ripristinato. «Ma mentre l’autogoverno ha rispettato i termini, l’acqua è arrivata solo a intermittenza, una volta a settimana per poche ore», denuncia Issa.
A complicare ulteriormente la situazione, la Turchia ha intensificato i bombardamenti sulle infrastrutture energetiche, colpendo impianti strategici a Derik e Derbasiya. «Da un lato chiedono elettricità, dall’altro bombardano le centrali», spiega Issa.
La Turchia non si è limitata a controllare l’acqua potabile, ma ha anche preso di mira la produzione di energia idroelettrica. «La diga di Tishreen, che alimentava Kobane, Raqqa e persino Hasakê, è stata colpita ripetutamente», racconta Issa. «L’obiettivo è chiaro: creare un collasso energetico che renda impossibile la vita nella regione».
In risposta, la popolazione ha organizzato proteste alla diga, resistendo anche nel freddo dell’inverno. Di fronte a questa emergenza, la comunità internazionale è rimasta in silenzio. «L’acqua è diventata un’arma di guerra, eppure nessuno interviene».
UPP e altre organizzazioni continuano a fare pressione affinché l’acqua venga smilitarizzata.
Inquinamento e guerra
Nel Rojava, l’inquinamento atmosferico e il degrado ambientale non sono solo il risultato di un’industrializzazione caotica, ma anche una conseguenza diretta della guerra.
«L’estrazione e la raffinazione del petrolio nel Nord-Est della Siria rappresentano un grave rischio per la salute», spiega Issa. «Molte persone soffrono di problemi respiratori e tumori. La maggior parte dei pazienti oncologici della regione è costretta a recarsi a Damasco per ricevere cure, perché qui mancano le strutture necessarie». Le condizioni di vita sono talmente precarie che problemi come le emissioni tossiche passano in secondo piano. «Le persone non hanno accesso all’acqua potabile ogni giorno, quindi la qualità dell’aria diventa un problema secondario», afferma Issa. «Il gasolio grezzo viene usato per il riscaldamento nelle case, spesso in stufe rudimentali che riempiono l’ambiente di fumi tossici».
La guerra ha impedito lo sviluppo di infrastrutture più sostenibili. «Non esistono impianti di trattamento avanzati e il petrolio viene raffinato con metodi primitivi fuori dai centri abitati», spiega Issa. «La situazione è aggravata dal fatto che il Rojava è costantemente sotto attacco. Senza sicurezza, nessun progetto di lungo termine può essere realizzato». La dipendenza dal petrolio è quindi inevitabile. «Per costruire una nuova Siria servirebbe un’economia stabile, acqua sicura e un piano di sviluppo».
Oltre alla raffinazione del petrolio, i bombardamenti turchi hanno avuto un impatto ambientale devastante. «Gli attacchi con droni e raid aerei stanno contaminando le riserve idriche sotterranee», denuncia Issa. «A causa di una fuga di sostanze tossiche, uno dei laghi di Arisha è stato avvelenato, uccidendo tutti i pesci. È una catastrofe ecologica».
Le conseguenze a lungo termine di questo degrado ambientale sono incalcolabili. «Non parliamo solo di inquinamento atmosferico, ma di un avvelenamento sistematico dell’ecosistema», spiega Issa.
Costruire un futuro sostenibile
Nonostante le limitazioni tecniche e le risorse ridotte, il Rojava continua a cercare nuove soluzioni. «Il Confederalismo Democratico coinvolge attivamente le comunità locali nella gestione delle risorse», spiega Issa. La transizione ecologica, sebbene ostacolata dalla guerra, resta un obiettivo condiviso. «Si organizzano corsi sulla qualità dell’acqua a Kobane e il dipartimento idrico ha sempre partecipato con entusiasmo», racconta Issa. «Forniamo strumenti moderni per il monitoraggio, ma il vero motore del cambiamento è l’impegno della popolazione».
Anche la formazione del personale sanitario e tecnico è una priorità. «Le autorità locali cercano sempre di ampliare le proprie competenze», spiega Issa.
Le restrizioni internazionali hanno aggravato la situazione. «Dopo il blocco dei finanziamenti USAID, molti servizi essenziali sono stati colpiti», denuncia Issa. «Nonostante alcune eccezioni per i programmi salvavita, molte strutture sono rimaste senza supporto».
Accanto alle istituzioni locali, numerose associazioni civili stanno contribuendo alla sensibilizzazione ambientale. «Organizzazioni come Green Tress e Green NES stanno promuovendo la riforestazione e la cura del territorio», racconta Issa.«Hanno persino avviato programmi educativi nelle scuole, dove ogni studente ha piantato un albero nel cortile per imparare a prendersene cura».
La visione del Rojava è quella di un futuro basato sulla sostenibilità e sull’autosufficienza. «Vogliamo una Siria verde, un Rojava pieno d’acqua e vegetazione», afferma Issa con determinazione. «Un tempo questa regione era chiamata Al-Jazeera, l’isola circondata dai fiumi Eufrate, Khabur e Tigri. Ora il Khabur è quasi scomparso, l’Eufrate si sta prosciugando e il Tigri è costantemente minacciato».
Gli ostacoli sono enormi: bombardamenti, restrizioni alle frontiere, budget ridotti e una situazione politica instabile. Nonostante tutto, la speranza non è persa. «Ci battiamo per un Rojava che possa vivere senza guerra, senza scarsità d’acqua, senza inquinamento», conclude Issa.«E anche se oggi tutto sembra difficile, sappiamo che un altro futuro è possibile».
La foto di copertina è di Alessia Manzi
Un Ponte Per opera nel nord-est della Siria dal 2015, riabilitando numerosi ospedali, aprendo cliniche e ambulatori, fornendo assistenza a sfollati e profughi nei principali campi, tra cui Al-Hol. Oggi, la sospensione dei finanziamenti USA alle organizzazioni umanitarie minaccia la continuità di molti progetti, anche nella Siria del Nord-Est. Puoi sostenere UPP cliccando qui e selezionando “intervento in Siria”