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All’origine del presente: le esistenze in bilico del 1977
Dove nascono e cosa hanno portato con loro gli eventi del 1977? Chi vi ha partecipato, con quali intenzioni? Quali erano i rapporti con il decennio precedente e quali quelli con l’epoca contemporanea? Sono le domande che guidano la bella raccolta di saggi storici a cura di Monica Galfré e Neri Serneri, “Il movimento del ’77. Radici, snodi, luoghi” (Viella)
Nel dicembre del 2018 è uscito un libro dedicato a un anno importante del secolo scorso, il libro è così titolato Il movimento del ’77. Radici, snodi, luoghi. Recensirlo a distanza di quasi un anno sembrerebbe inopportuno, se non fosse che racconta i concetti, le questioni, le contraddizioni che nutrono ancora la nostra vita contemporanea. Inutile dire che vita è politica, socialità, cultura, lavoro, insieme di relazioni, cioè tutto quello che ha fatto esplodere quell’anno clamoroso, trasformandolo in evento storico.
«Cari compagni, io sto male»: i punti da cui partire per entrare nel testo e quindi nei documenti e nei fatti ricostruiti e narrati sono tanti. Scelgo quello più insolito, uno dei titoli riportati in nota 61, a pag. 113, del saggio Nella crisi della società del lavoro, di Alessio Gagliardi. Il titolo rimanda alla lettura di una raccolta di lettere di quegli anni, inviate alla redazione del quotidiano “Lotta continua”. Le lettere introducono una condizione personale che rappresenta, a mio avviso, la principale chiave interpretativa del fenomeno. Non si intende certo suggerire che il malessere è il più importante strumento di conoscenza e analisi di un movimento e di un’epoca. Piuttosto, lo stesso esplicita la definitiva emergenza di un elemento che la politica, il partito, i movimenti non potevano più ignorare: il soggetto. A sostegno di questa ipotesi lavora anche la constatazione che in quell’anno Lotta Continua si era già sciolta, nel drammatico congresso di Rimini del novembre del 1976, ma il quotidiano continuava a esistere e tracciare necessità, desideri e prospettive di una generazione. Continuava cioè a raccogliere storie e testimonianze, espressioni personali ed eterogenee.
L’emergenza del soggetto, dirompente e irreversibile, la si deve con molta probabilità alla presenza e alle istanzerappresentate dal forte movimento femminista. Lo stesso, come ben raccontato da Paola Stelliferi nel saggio Il 1977 nel femminismo italiano, non fu privo di importanti contraddizioni e conflitti al suo interno, con il movimento operaioe con quello studentesco.
Di certo le contraddizioni, le provocazioni e le prospettive insolitamente rivoluzionarie del femminismo erano già ospitate nel suo slogan “il personale è politico”. A questo possono essere ricollegate l’insieme di espressioni artistiche di quell’epoca che mettono al centro l’esperienza personale e «che fanno supporre che la crisi delle utopie politiche avesse portato con sé il bisogno di rinsaldare il nesso tra individuale e collettivo, a “partire da sé”. Il contributo del femminismo è, in questo, difficilmente eludibile: si può anzi sostenere che, nel pieno della crisi dei movimenti, il femminismo abbia più o meno direttamente fornito ai nuovi attori del conflitto strumenti utili per elaborare forme di espressione culturale e politica alternative» (P. Stallieri, art. cit.,p. 85).
Fu dunque il femminismo in buona parte incubatore di necessità e disagi che si esprimeranno in relazione non pacifica con le pratiche di mobilitazione collettiva, proprio quando questa viveva la sua fase più intensa, radicale e, in alcuni casi, esiziale. Perché il 1977 fu anche lotta armata e violenza, che assunse caratteristiche eterogenee da città a città.
I saggi contenuti nel libro hanno origine dal convegno “Il movimento del ‘77”, che si è svolto a Firenze il 30 novembre e il 1 dicembre 2017, per iniziativa dell’Istitutostorico toscano della Resistenza e del Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo dell’Università di Studi di Firenze. Il lavoro segue un approccio eminentemente storiografico, la prospettiva non è quella dei testimoni, né quella dei protagonisti. Si tratta di rileggeree analizzare i documenti per ricostruire e interpretare il “fatto”, lavoro compiuto abilmente da una nuova generazione di storici.
Dovremmo forse discutere di oggettività, parzialità e punti di vista privilegiati dal lavoro. Quella storica però, come ogni altra ricerca scientifica, ha l’obbligo di dichiarare metodologia e taglio, così nel caso del libro in questione, qualunque tentativo o timore di una lettura omogenea dei fatti, viene risolta dall’individuazione di tre aree principali di indagine. La prima è quella delle “storie, culture e prospettive”, la seconda quella delle “pluralità territoriali”, la terza quella relativa alla “democrazia, violenza e repressione”. Tre canali importanti, non isolati, lungo i quali far scorrere e rileggere gli avvenimenti, le sfumature, le tracce lasciate, le quali probabilmente conducono fino a… domani.
Nella prima area di studio sono individuate le diverse tensioni e prospettive che confluirono nel “movimento”, dal femminismo appunto, fino alla “generazione introvabile”, quella di estrema destra, che in modi insoliti tentò di far proprie alcune rivendicazioni e modalità espressive, passando per il vortice di produzioni culturali, “feste, balli e letture” che sono “l’altra faccia del ’77”. Nella seconda vengono indagate le realtà territoriali, le differenze tra Genova e Torino, Roma, Milano, Firenze, Bergamo. Una panoramica da cui non si può prescindere per aver chiara la ricchezza difficilmente gestibile delle tensioni e dei desideri, che nutrirono tanto la “crisi della militanza” quanto le sue espressioni più viscerali.
«”Riprendiamoci la vita” grida il movimento del ’77 per contestare i “sacrifici” del “governo delle astensioni” e per criticare il modo, considerato disumano, di fare politica dei gruppi dell’estrema sinistra», scrive Luca Cirese nel saggio dedicato alle strutture meno esposte e meno indagate dell’epoca: i circoli proletari giovanili di Milano, Torino e Roma, studiati per «evidenziare la fase che precede e prepara il movimento del ‘77» (p. 219).
L’analisi del rapporto tra violenza e repressione è la terza sequenza, quella che chiude il libro con unaserie di “scene” che vanno da Parigi e dal rapporto che la capitale francese ebbe con molti esponenti del movimento, fino al ruolo del reparto della Celere italiana e ai suoi conflitti interni. Quelli elencati sono tutti elementi, è bene ricordarlo, che legano il 1977 al 1968, delineando un decennio che fu più di una parentesi. «Nella prospettiva del “lungo ‘68 italiano, il movimento del ’77 fu un modo per fare i conti con se stessi e recuperare respiro e risorse», scrive Simone Neri Serneri nel capitolo dedicato al decennio in questione.
Dunque il ’77 è stato un anno più lungo dei canonici dodici mesi, una parentesi temporale nella quale si sono condensati un gran numero di episodi e insieme a essi di esistenze e prospettive. Per questo quell’anno e il movimento che lo ha caratterizzato risultano essere un campione affidabile di un lungo processo storico e sociale, dal quale ricavare indicazioni e ipotesi di letture lungo i decenni a venire.
Se c’è una proposta che può tenere assieme e comprendere al meglio quanto successo, questa è «accogliere le contraddizioni», anche per leggere, ad esempio,«la continuità oltre le rotture» rappresentata dall’Autonomia operaia. Protagonista indiscussa «che non a caso molti se non tutti continuano a scrivere con l’A maiuscola, come se si trattasse di un’entità metafisica di cui si può parlare al singolare, invece di una miriade di collettivi spontanei, sorti dal disfacimento dei gruppi saldamente ancorati alla conflittualità del territorio» (Monica Galfré, “Senza passato né futuro”. Il difficile rapporto del ’77 con la storia, p. 22).
L’anno 1977 è stato collettore di istanze a tratti così eterogenee che per tenerle insieme la ricerca storica deve farsi filologica e ripercorre a ritroso l’origine di parole d’ordine, che sono significati e strategie con cui gruppi, movimenti, progetti politici e soggetti agirono. Un collettore capiente ed elastico, ma non così tanto da resistere alla pressione di siffatte esigenze. Un collettore che esplode inevitabilmente e lancia frammenti nei decenni successivi, che vanno ricomposti proprio a partire dal significato dei termini rilevanti.
Potrebbe forse giovare alla comprensione dei profondi legami tra quell’anno di lotta e di cambiamenti e l’epoca successiva, fino ai giorni nostri, la redazione di un glossario utile a individuare le parole e i concetti principali del dibattito politico.
“Non garantiti”, “operaio sociale” e “operaio disseminato”, “rifiuto del lavoro”, “desiderio”, “differenze”, “soggetto”, “femminismo”, “auto narrazione”, “maschilismo”, “autodeterminazione”… Per ribadire, quarant’anni dopo, nell’epoca dei “femminicidi”, delle “donne al potere senza femminismo”, del lavoro autonomo, precario e senza garanzie che non esistono rotture e riflussi definitivi, al massimo rimozioni, più o meno dolorose, che torneranno puntualmente a chiedere il conto.