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Al via Short Theatre, un “prisma” che attraversa la città di Roma

La diciannovesima edizione del festival di arti performative inizia oggi per proseguire fino al 15 settembre, con oltre 50 progetti e 40 compagnie presenti. Una molteplicità di proposte italiane e internazionali ricercata dalla direttrice Piersandra Di Matteo

Sperimentare significa esplorare diverse direzioni, cercare linee di fuga e intersezioni, ricondurre la visioni ai suoi aspetti meno indagati e consueti. Il festival internazionale dedicato alla creazione contemporanea e alle performing arts Short Theatre apre oggi la sua diciannovesima edizione, la quarta diretta da Piersandra Di Matteo provando appunto a porsi come un “dispositivo stratificato” nel contesto romano – in termini di linguaggi, formati, luoghi in cui andranno in scena spettacoli, performance, mostre, talk ma anche sensi che vogliono essere stimolati dalle proposte della rassegna (una particolare attenzione è infatti dedicata all’udito e al suono).

«Il mescolamento è una scelta che si è andata radicalizzando nel corso del tempo – dice la direttrice Di Matteo a proposito del programma di curatela – e riguarda istanze estetiche, politiche e i diversi posizionamenti soggettivi. C’è la sperimentazione di formati e linguaggi svolta soprattutto in chiave intergenerazionale: per questo a Short Theatre saranno presenti artiste che magari si esibiscono per la prima volta, oppure nomi internazionali che hanno girato pochissimo in Italia oppure ancora compagnie e autrici maggiormente affermate nel panorama internazionale».

Negli undici giorni di programmazione (da oggi fino al 15 settembre) si contano infatti oltre 50 progetti, 40 compagnie provenienti da 13 paesi diversi (Italia, Francia, Spagna, Svizzera, Brasile, Danimarca, Svezia, Rwanda, Stati Uniti, Germania, Canada, Palestina, Messico) per 13 location dislocate in 4 municipi capitolini.

Il titolo dell’edizione è Viscous Porosity, come da libretto, «una chiamata ad accendere la percezione sull’interconnessione tra le relazioni umane, naturali e sociali, sul contagio e la capacità di trasformazione reciproca».

Una buona parte del programma avrà luogo negli spazi de La Pelanda, al Mattatoio nel quartiere di Testaccio – storica sede del festival. Ma la rassegna, come ha provato sempre più a fare nel corso delle ultime edizioni, andrà a toccare molti altri punti della città, dal cimitero monumentale del Verano al parco Tevere Marconi fino a vere e proprie sale teatrali quali Angelo Mai, Teatro Basilica e altri. In questo senso, la molteplicità dei formati (dalla frontalità degli spettacoli di danza a progetti site specific) si interseca con diversi modi di fruizioni, con differenti concezioni della spettatorialità che corrispondo a differenti dialoghi con le realtà romane.

«Le tensioni che attraversano il festival hanno molto a che fare con il lavoro che abbiamo portato avanti con vari luoghi della città – prosegue Di Matteo – sia luoghi non deputati alle arti sceniche, sia quel circuito di piccoli teatri, più o meno privati, che si incastonano dentro i municipi». Il tutto in un’ottica di sostegno a quei soggetti che cercano di produrre cultura in maniera libera e indipendente: «L’idea di fondo è che il festival non sia solo un appuntamento estemporaneo, ma che anzi sia capace di stabilire una rete di collaborazione con quei presidi che invece permangono per tutto l’anno (un esempio in questo senso è il progetto di residenze di ricerca dislocate nella regione Lazio, Spore).

Spiega Di Matteo: «Stiamo vivendo tempi molto complessi. È indubbio che ci sia un’ondata nera di conservatorismo che avrà conseguenze pesanti rispetto alla possibilità di esprimere certi posizionamenti, certi linguaggi e certe estetiche. Stiamo assistendo all’occupazione di alcuni luoghi di potere da parte di soggetti che rivendicano spesso un’idea di cultura affine alla propaganda e al consenso. Per questo diventa estremamente importante salvaguardare e proteggere spazi come festival e rassegne indipendenti, che tra l’altro vivono condizioni di precarietà e di precarizzazione ancora più radicale che in passato».

Short Theatre è dunque, negli auspici della direttrice, il luogo dove certe cose possono capitare. Un evento che aspira ad assumere «una dimensione prismatica all’interno di un contesto già altamente stratificato come quello di Roma, anche come strategia per poter intercettare nuovi e diversi pubblici».

E, come detto, la molteplicità rappresenta uno dei tratti distintivi dell’edizione: dai nomi internazionali – la compagnia catalana El Conde de Torrefiel, i tedeschi Rimini Protokoll, fino alle prime nazionali di performer e danzatrici quali Dana Michel (leone d’argento alle Biennale del 2017), Mette Ingvartsen, Ola Maciejewska e altre – alle artiste e compagnie italiane – Annamaria Ajmone, Cristina Kristal Rizzo&Diana Anselmo, Fanny&Alexander – alle proposte emergenti e “fuori formato”, con particolare cura e attenzione all’aspetto acustico (fra veri e propri concerti, performance basate sul ritmo e sul suono, progetti speciali di drammaturgia performativa accessibile e partecipativa nati in collaborazione con persone cieche e ipovedenti, La memoria risiede nel lobo dell’orecchio di Alessandro Bosetti).

Qui il programma completo.

Immagine di copertina di Inés Bacher