approfondimenti
OPINIONI
Al mio amico (parte prima)
Lettera di un Ebreo che resta in Francia nella diaspora a un amico d’infanzia che ha compiuto l’alià e vive a Tel Aviv (prima parte)
Pubblichiamo qui, in due parti, su segnalazione e traduzione di Sofia Santosuosso, il testo (https://tsedek.fr/2024/10/11/a-mon-ami/) di una lettera anonima (mittente e destinatario con nome di fantasia) di un ragazzo ebreo francese anti-sionista che milita per il collettivo Tsedek! (collettivo ebreo decoloniale). A Parigi è un collettivo riconosciuto e la lettera ha circolato parecchio. Sebbene il fenomeno del ritorno in Israele (alià, lett. salita) da parte di chi è vissuto nella diaspora non abbia in Italia lo stesso peso quantitativo che in Francia, riteniamo utile dare testimonianza di questo dibattito.
Sabato 4 maggio 2024, 20:13, 12 notifiche. Discord, Instagram, Messenger, Telegram, punti di fedeltà Dectahlon e si finisce con Whatsapp che mi segnala un nuovo messaggio da te, Gabriel, il mio amico di Tel Aviv. Ci conosciamo da quando avevamo 10 anni, a 24 anni hai fatto l’Alya e anche una svolta politica a destra, mentre io facevo la mia verso sinistra. Tu trovi che rompere la vetrina di una banca è scandaloso, mentre per me ciò che è davvero rivoltante sono le leggi anti-sociali e la repressione, però siamo almeno d’accordo sul fatto che Star Wars significa molto più di quello che è stato.
Il 7 ottobre mi sono subito preoccupato per te e la tua famiglia. Tu mi hai risposto che eri scioccato, sconvolto, che è stato un orrore ma che ci saremmo difesi, che dovevamo difenderci, e speravi che fosse l’occasione per far riemergere un po’ il sionismo sepolto in me. Da buon amico ti ho risposto che in quel momento la sola cosa che m’importava erano la sicurezza tua e dei tuoi cari. Dal novembre del 2023 non ci siamo più scambiati nessun messaggio. Fino a sabato 4 maggio 2024, alle 20:13. Lo schermo del mio iPhone mi mostrava l’anteprima:
«Ci ho messo un po’ a scriverti, non volevo far finta di niente, non volevo fingere che non fosse successo nulla. Ancora adesso non so bene come dirlo, allora mi butto: ho visto sui social che ti sei avvicinato a Tsedek! e non capisco perché».
Gli algoritmi del web 2.0 ti hanno evidentemente rivelato il mio supporto al collettivo e una parte di me sperava e allo stesso tempo temeva questo momento. Abbiamo fatto insieme gli studi alla scuola ebraica sionista e, vista l’atmosfera su BFMTV, potevo ben immaginare che il mio coming out di Ebreo antisionista non sarebbe stato privo di conseguenze. Non oso ancora toccare lo schermo per vedere il resto del messaggio: è questo che metterà un punto a un’amicizia che dura da 25 anni? Dopo tutto, lo ha detto anche Raphaël Enthoven in un’intervista che tu hai ricondiviso sui social: ho perso degli amici per questo. In uno slancio narcisistico mi sono chiesto se quello stato non fosse indirettamente riferito a me. Forse la risposta è sulla punta della lingua.
«So che sei antinazionalista e anarchico, ne abbiamo parlato spesso e lo rispetto anche se non siamo d’accordo. Ma vederti sostenere dei discorsi menzogneri, fabbricati da un movimento totalitario, razzista, oscurantista e fanatico lo trovo indegno, desolante e inaccettabile. Siete dei burattini in mano agli antisemiti e questo mi fa tanta pena.
Tu conosci bene il problema, sei abbastanza intelligente per non aderire alla propaganda degli islamisti. Se lo trovi un compromesso accettabile, menti a te stesso e tradisci la visione del mondo che pretendi di difendere.
Se ti schieri dalla parte di esseri spregevoli come Mathilde Panot, Rima Hassan e tutta la banda schifosa de La France Insoumise, o di quelli come Judith Butler che parlano di resistenza di Hamas, stai assumendo un atteggiamento pericolosissimo che giustifica indirettamente il massacro degli Ebrei. Non posso credere che non ti renda conto che questa gente se ne fotte degli Ebrei. Non posso credere che tutto questo sia per te accettabile, ancora meno se penso che io stesso, insieme ai miei amici, la mia famiglia o i miei figli sarei potuto essere tra le vittime.
Certo, puoi benissimo pensare che il progetto sionista non è la nostra protezione migliore, potremmo discuterne come discutiamo d’altro. Ma allearsi a queste fecce è chiaramente una linea rossa che non dovresti oltrepassare.
In tutta onestà, non riesco a capire se ti sei avvicinato alla causa ben consapevole delle conseguenze mortali che potrebbe avere su di noi, o se non ti rendi davvero conto dei meccanismi esistenziali che coinvolgono anche te.
Sai benissimo che non sono partito in Israele per ideologia politica. Tutti vogliamo la pace, ma puoi comunque batterti per la pace senza reclamare la distruzione del nostro paese. Perché sì, Israele è il tuo paese, che tu lo voglia o no. Siamo lì da millenni e non abbiamo intenzione di andarcene.
Senza sperare di farti cambiare idea, spero almeno che le mie parole possano farti tornare in te, così da poter di nuovo parlare in serenità»”.
Sul momento avrei voluto risponderti con un emoji seccato, ma non avrebbe risolto niente. Tu ti saresti convinto di averci visto giusto e io non avrei fatto altro che soddisfare uno stupido impulso che avrebbe precluso ogni possibilità di comunicazione. Allora mi trattengo, passo tutto il giorno a pensare e finisco sull’app delle note; ne creo una nuova e scrivo nel titolo “Risposta a Gabriel”.
Sono contento di leggerti. Grazie per la tua onestà, che ha il merito di incidere l’ascesso che si era formato. Mentirei se ti dicessi che il tuo silenzio di sei mesi non mi ha ferito, ma adesso lo capisco. Resto comunque sorpreso di constatare che basta posizionarsi contro uno Stato-nazione per oltrepassare la famosa linea rossa quando per tutti questi anni ti ho visto oltrepassare le mie una dopo l’altra: mi parlavi di “Grande Sostituzione”, hai votato per Zemmour da Tel Aviv, pensi che la sinistra sia diventata islamogauchista, fustighi i wokes che contaminano le serie Netflix con la propaganda LGBT, ti preoccupi della lobby trans che invita le drag queen nelle scuole materne, parli di decadenza dell’Occidente e dicevi che bisognava mandare l’esercito per placare i selvaggi delle periferie dopo l’assassinio di Nahel da parte di un poliziotto.
A quei tempi mi dicevo: Gabriel è un mio amico d’infanzia, basta soltanto non parlare più di politica e continueremo a bere le birre insieme e ad agitare la testa alle feste techno. Dimenticavo che la politica è una storia d’affetti ed era chiaro che l’antagonismo politico poteva condurci alla rottura affettiva.
Bene o male non abbiamo mai ceduto e sarà allora Israele per te il punto di rottura, una misura degli affetti così essenziale che non si potrà più fare altrimenti. Ma leggendo attentamente il tuo messaggio, una cosa mi salta all’attezione: sconvolto dai miei like su Instagram, la tua incapacità a parlarmi in tutto questo tempo ti ha fatto sprofondare nell’ignoranza verso ciò che sono davvero.
È perciò che ti offro questa lunga risposta nella quale proverò a sforzarmi di fare chiarezza. Non voglio entrare in un dibattito, quanto mostrarti che i postulati che mi attribuisci sono falsi. Libero di dire che è inaccettabile, che mi sbaglio, che sono ingenuo e che così tradisco padre, madre e patria; ma se lo fai voglio che sia sulla base di ciò che ti scrivo, e di nient’altro. Ti chiedo soltanto di essere attento alle mie parole. Fino alla fine. Non perché tu aderisca al mio pensiero, ma perché arrivi a conoscerlo, perché non ti inganni, perché non ceda ai pregiudizi menzogneri sulle mie posizioni, perché se mai sarà decretata la fine della nostra amicizia, voglio che accada in nome della verità
Non si tratta di politica
Io so che non sei partito per Tel Aviv per opprimere i Palestinesi, ma per ricominciare gli studi e aprire una nuova pagina della tua vita. Non ci sei andato per ideologia ma per ideale. A 24 anni è perfettamente normale. Poi, i discorsi sionisti all’ultimo anno di scuola: questo ti forgia. Celebrare Yom Haatsmaout vestiti di blu e di bianco come la nostra bandiera, cantare l’Hativka alla fine di ogni Bar-Mitzvah, imparare i canti dei pionieri al corso di Ebraico moderno, fare una gita scolastica alle università di Tel Aviv all’ultimo anno dopo aver visitato Auschwitz al primo, perché ci hanno detto che lì era presente il nostro avvenire, perché è più facile per noi, Ebrei francesi, di emigrare in Israele piuttosto che in Canada, perché così si ottiene rapidamente la nazionalità senza altra condizione se non quella di essere Ebrei, perché quello è il nostro paese. Tutto ciò ci ha influenzato, ha fatto di Israele un orizzonte possibile, desiderabile, inevitabile.
Undici anni più tardi ti propongo di fare insieme lo sforzo di guardare indietro a come questo ideale è nato, come è fatto, ciò che l’ha modellato. Immagini quanto sia complicato dissociare il tuo Alya dai meccanismi politici e ideologici che lo nutrivano da decenni e a cui siamo stati esposti fin da bambini. Non avere coscienza politica non ci esime dall’essere soggetti politici.
Ma allora qual è questa linea ideologica e politica che il movimento sottende? Tu mi dirai che si tratta di trovare un rifugio in mezzo a un mondo che ci è ostile, un mondo antisemita. È per questo che hai scelto Israele invece del Canada: è più che una scelta logistica, è una scelta esistenziale. Ilan Halimi ci ha sconvolti, Hyper Cacher ha confermato la tua decisione e la Shoah ne ha fatto una regola di base: non possiamo contare che su noi stessi. Andando in Israele, ti sei detto che avresti finalmente vissuto in un paese in cui essere Ebreo non sarebbe stato più una minaccia.
Il sionismo è la risposta evidente all’antisemitismo, e poiché il sionismo deriva il suo nome da Sion, sinonimo di Gerusalemme, allora deve essere antico come il giudaismo. Fare l’Alya significa recuperare la nostra identità, le nostre radici, la nostra mitologia.
Ciò che amiamo dire, ciò che ci hanno detto, è ciò che ho creduto anch’io. Eppure il professor Bensaïd, al corso di storia ebraica, ci diceva che questo movimento è nato nel diciannovesimo secolo. Ricordati delle diapositive in sala 301 che mostravano i discorsi di Herzl. Ricordati del suo ritratto all’ingresso della scuola. Ricorda ciò che ci diceva la professoressa Peretz col suo accento israeliano: che no, il nostro paese non è nato a causa della Shoah, ma che era in programma già cinquant’anni prima. Era un modo di legittimarlo: ci avevamo pensato prima dei nazisti, perché i sionisti ci lavoravano dalla fine dell’Ottocento. Era importante comprendere che la Shoah non è stata il detonatore del sionismo, ma un acceleratore, e ancora di più una conferma della sua pertinenza, della necessità di questo movimento. Movimento tuttavia datato e situato nella storia. Perché se arriva sicuramente prima dei nazisti, arriva anche parecchio dopo Mosè. Non è perché una dottrina politica trae la sua legittimazione da antiche scritture che la sua nascita le è contemporanea. Il sionismo non è un ritorno alle radici. Tra la scrittura della Torah e la nascita del sionismo sono trascorsi millenni di storia, di tradizioni, di culture ebraiche, a prescindere dai conflitti e dalle epoche. Fare del sionismo l’Alpha e l’Omega del giudaismo significa impoverirlo, cancellare questo complesso di tradizioni.
Il sionismo non è stato che una risposta, tra le altre, all’antisemitismo europeo. Scrivo tra le altre perché i nostri corsi hanno attentamento evitato di trattare le correnti marxiste e rivoluzionarie, cavalcate in modo altrettanto massiccio dagli Ebrei che credevano che la loro emancipazione sarebbe passata per la rivoluzione sociale. Non è questa la sede per fare un corso di storia, e altri lo farebbero molto meglio di me. è per questo che ti consiglio, se ti interessa, la lettura del libro Antisionisme, une histoire juive, di Béatrice Orès, Michèle Sibony et Sonia Fayman, che hanno raccolto i testi delle correnti ebraiche che si opponevano al sionismo. Oltre alle correnti marxiste, l’introduzione ne registra altre tre: le assimilazioniste, le religiose e le liberali.
Associare gli Ebrei a uno stato-nazione non solo è recente nella storia del mondo e nella storia ebraica, ma è anche fortemente contestato a partire dalle sue origini. No, non dimentico Mosè e Canaa, il Regno di Giudea e di Samaria, David, Salomone e i Geremiadi. Quando scrivo stato-nazione non scrivo terra. È in ogni caso possibile amare questa terra, sentirvi un legame storico, spirituale, religioso, abitarci, viverla, tutto ciò che vuoi, senza dover per forza costituire uno stato-nazione coloniale – concetto occidentale – in terra araba. Perché è in questo modo che il sionismo è stato pensato e si è materializzato.
Voglio qui precisare che quando scrivo sionismo occorre che tu vi legga sionismo politico, quello concepito da Théodore Herzl – che, come sappiamo, si è realizzato – e di cui lo stato di Israele continua oggi il lavoro nella sua variante contemporanea. Non parlo di sionismo culturale, che non aveva l’ambizione di creare uno stato moderno, ma seplicemente di riconnettersi a una certa forma di spiritualità ebraica e che si ritrova oggi anche nell’antisionismo. Questa precisazione vale per tutto l’insieme delle mie frasi, quelle che hai già letto e che leggerai.
Il problema, ai miei occhi e agli occhi della stragrande maggioranza di quelli e quelle che popolano il mio campo e con cui ho oltrepassato la tua linea rossa, non è il fatto che su quella terra ci siano degli Ebrei, nuovi o antichi che siano. Il problema non è che vi bevano le birre coi piedi nella sabbia. Il problema non è che mangino dei falafel tornando a casa dalla spiaggia alle tre di notte. Il problema non è che si visiti il muro del pianto. Il problema non è che tu ti sia sposato in quella terra, che vi abbia ballato, fatto un figlio a cui trasmetterete a modo vostro le tradizioni ebraiche. Il problema non è che tu abbia fondato una famiglia ebrea su una terra a cui sei legato per delle ragioni che ti appartengono.
Il problema è credere che tu possa farlo unicamente grazie alla legittimazione di uno stato-nazione ebraico. Pensare che abbiamo bisogno di una forma statale centrata su un motivo identitario per abitare il mondo comporta una mancanza di immaginazione e da questa mancanza di immaginazione derivano conseguenze reali: voler imporre la maggioranza ebraica ai danni delle popolazioni già presenti sul posto. Ai danni implica trasferimenti forzati e espulsioni. Ai danni significa, nei fatti, la pulizia etnica di centinaia di villagi autoctoni. Pulizia significa prima, nei fatti, espropriazioni, massacri e distruzione sistematica della loro storia; poi, la macchina di propaganda revisionista che è stata messa in piedi per giustificarla. Lo so, tu mi dirai, ma gli Arabi ci hanno attaccato, non volevano gli Ebrei, noi non abbiamo fatto altro che difenderci! Conosco questo racconto, vi ho anch’io aderito e piuttosto che entrare in un dibattito interminabile ti propongo di scoprire un contro-racconto, un racconto complementare, se preferisci, nella lettura de La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappé.
Aspettando che cominci la lettura ti faccio una domanda. Non è per avere la tua risposta, ma piuttosto perché tu faccia l’equazione con calma nella tua testa, senza sguardi esterni, senza fotocamera, senza obblighi, per avere il lusso intimo dell’onestà intellettuale: non trovi strano che tu, vissuto a Porte de Vincennes, cresciuto in Francia, abbia il diritto di avere la nazionalità israeliana in qualche mese solo in quanto Ebreo, mentre i discendenti degli espulsi che oggi vivono dietro un muro o in mezzo alle rovine, dall’altra parte di una frontiera stabilita il secolo scorso, non hanno alcun diritto? Non vedi la manovra essenzialista e falsificatrice che consiste nel creare un legame con un paese che non si abita a svantaggio di coloro che vi abitano realmente? Consideri davvero, dentro di te, questa situazione come giusta?
Me l’hai già detto: la vita è ingiusta, non siamo nel mondo degli orsetti del cuore. Violenze, espulsioni, è così che la storia del mondo si è scritta, si scrive e continuerà probabilmente a essere scritta. È così.
Certo. Ma non soltanto tale risposta non rende più nobile ciò che è successo: fa anche dimenticare che le vittime di queste violenze sono ancora vive oggi, sotto il giogo dell’entità statale che le ha espulse. Non potendo più tornare esattamente dove abitavano, chiedono di avere gli stessi diritti di quelli che sono venuti dopo di loro. È la base stessa della loro resistenza, resistenza che ha preso più forme, dalla guerriglia al terrorismo passando per dei movimenti più pacifici – anche questi costantemente repressi.
In un universo parallelo, i palestinesi sono stati decimati e i pochi sopravvissuti sono stati integrati nello stato di Israele dal mare alla Giordania e si battono contro le discriminazioni e la povertà in cui vivono nelle riserve, alla maniera degli indiani d’America. In un altro universo parallelo, i paesi arabi hanno cancellato gli Ebrei presenti su quella terra. Questi Ebrei si ritovano oppressi in un ghetto, il loro accesso all’acqua, al cibo e al lavoro è controllato da uno stato palestinese e alle manifestazioni di sinistra sventolano drappi con la croce di David. In un terzo universo parallelo, i palestinesi sono partiti per fondare un altro stato-nazione ai danni di un’altra popolazione, come hanno fatto gli Ebrei sionisti. Ma nella realtà sono là, non vogliono partire, non possono partire,
Siamo lì da millenni
È essenziale che tu comprenda che non riesco a prendere sul serio chi dice di discendere da un popolo millenario e che in realtà viene da un popolo inventato dieci giorni fa. Non giustifico alcuna presenza, quale che sia, in nome di un radicamento identitario. Ciò che mi importa è come le persone vivono dove vivono, qui, ora; il loro posto nella società che abitano e nei rapporti di dominazione in atto all’interno di un sistema capitalista, razzista, coloniale e patriarcale. Ciò che mi importa è che queste persone abitavano davvero in quel luogo e che si sono fatti espellere o assassinare in nome di un’ideologia suprematista, fondamentalmente impregnata di nazionalismo e colonisalismo europei e che si appoggia oggi su delle giustificazioni mitologico-religiose.
Mi hai letto bene: suprematista. Se i fatti storici non ti bastano, se preferisci le idee, leggi insieme a me ciò che ha detto Max Nordeau durante il secondo congresso sionista del 1898: «Dobbiamo aspirare a creare di nuovo un giudaismo del muscolo, dobbiamo diventare di nuovo degli uomini dai toraci prominenti, con corpi d’atleti e lo sguardo fiero e dobbiamo allevare una giovinezza agile e muscolosa che deve svilupparsi all’immagine dei nostri antenati, gli Asmonei, i Maccabei e Bar Kokhba. Deve essere perfettamente all’altezza delle lotte eroiche di tutte le nazioni».
Evocazione di un passato fantasmatico, glorificazione di un corpo militare per la giovinezza, vocabolario nazionalista e virilista: hai visto bene come questo discorso riempie tutte le caselle della supremazia bianca e non ha niente da invidiare ai suoi compagni dell’epoca. E se il pensiero identitario e suprematista ha, come sappiamo, delle conseguenze devastanti sulle popolazioni, esso si fonda inoltre sul falso, sull’immaginario.
Tu mi dici che siamo là da millenni, ma non so chi sia questo noi. La mia famiglia non era lì, e nemmeno i miei antenati noti. Allora può darsi che io discenda da un popolo che ci viveva 3000 anni fa, ma anche in questo caso non funziona: essendo mio padre convertito, tutto porta a credere che non aveva antenati tra i Maccabei. Tanto peggio per la gloria della mia dinastia.
Tu potresti dirmi che ho ereditato le tradizione, ma a dirla tutta la mia eredità ebraica viene piuttosto dalla Tunisia e ritengo pure di essere più legato al paese d’origine di mia nonna in Corsica che a Israele, così come sono più legato ai The Who che a Sarit Haddad.
Immaginare il popolo ebraico come un blocco monolitico e omogeneo è storicamente, geograficamente e sociologicamente falso. Questo legame può risultare certamente piacevole: si ha l’impressione di essere inclusi in una storia mitologica e, come te. anch’io amo Il signore degli anelli, ma noi non siamo né elfi né orchi.
Tu mi dici che Israele è il mio paese, che lo voglia o no. Mettiamo in chiaro questa cosa: il mio paese è la Francia. E se la Francia è il mio paese, non è per i suoi valori, né per il patriottismo né per il nazionalismo, ma perché ci vivo, ci lavoro, perché le sue istituzioni hanno una presa su di me, perché la sua polizia può arrestarmi, la sua giustizia condannarmi, il suo sistema sociale prendersi cura di me e perché ho una carta d’identità francese da qualche parte nel cassetto. È un fatto amministrativo e sociale. Dire che Israele è il mio paese è un pensiero quasi magico. Non ci vivo, non ci lavoro, lì ho degli amici e una parte della mia famiglia, dei bei ricordi di vacanze e sì, un certo attaccamento sentimentale. È vero che negli anni l’HaTikvah mi ha dato i brividi. Ma sarai d’accordo che sarebbe strano fondare una politica intorno a una reazione istintiva. Un attacco sentimentale non rende mio un paese, se non in modo individuale, come quando una persona dice che si sente a casa sua come sinonimo di ”sentirsi bene”, come quando passeggio brillo per boulevard de Charonne o quando arrivo nel paese di mia nonna in Corsica. È un sentimento che appartiene a tutti. Sarebbe ridicolo se questo sentimento fosse rivendicato da persone diverse da me, e sarebbe ancora più ridicolo farne uno Stato.
Ma continuiamo ad attraversare la nostra riflessione come camminavamo nei corridoi del quinto piano. Osserviamo, insieme, le conseguenze di questa idea che farebbe di Israele il mio paese solo perché sono Ebreo mentre abito a migliaia di chilometri di distanza. Non senti un’eco? L’eco di un pensiero antisemita che considera l’Ebreo straniero nel suo proprio paese? L’Ebreo non davvero francese, l’Ebreo sleale? Non ci vedi tutto ciò che ha alimentato l’ideologia antidreyfusarda? Non vedi una corrispondenza oggettiva tra sionismo e antisemitismo? Se l’estrema destra francese mostra il suo appoggio a Israele non è perché si è liberata del suo antisemitismo. È solo perché hanno esattamente la stessa logica politica. La Francia ai francesi, Israele agli israeliani e siamo punto e a capo.
Ci sarebbe l’opzione religiosa, ma non sei inconsapevole che esiste anche una rivendicazione antisionista religiosa come quella dei Naturei Karta. Quando anche ci fosse questa credenza messianica abbracciata dall’estrema destra isralieana, per quanto mi riguarda non credo in Dio e non interpreto letteralmente la Torah e l’Esodo. Niente da fare, allora.
Può darsi che adesso tu abbia sviluppato una visione idealista delle cose. Idealista nel senso che le idee vivono in forma autonoma, staccate dalla realtà: in questo caso Israele non è un paese con un’amministrazione, un esercito, una polizia, una giustizia, dei conflitti sociali, ma un’idea. È questo che difendi. Delle nostre discussioni a scuola, al pranzo dello shabbat in famiglia o al corso di Yahadout, ogni azione di Israele è sempre stata difesa o relativizzata in nome di questa idea, e ci appigliavamo ad ogni frammento di realtà per dimostrarlo: noi anticipavamo ogni bombardamento; un leader di Hamas si nascondeva tra i civili per forzarci a commettere grandi danni collaterali; abbiamo trovato delle munizioni in degli ospedali e questo è bastato alla nostra buona coscienza, perché ci venisse assicurata la nostra moralità superiore, ed è così che accettavamo decine di centinaia di morti. La contestualizzazione parziale e a senso unico, legata a un fantasmatico noi.
Questa è la forza dell’idea. Si alimenta di tutto, fa fuoco in tutto il bosco, deforma la realtà nella nostra testa. L’idea ti permette di trascurare rapporti di forza e condizioni materiali. L’idea di permette di far passare Israele per il paese oppresso quando i suoi carrarmati attraversano le rovine. L’idea ti permette di dire noi per tracciare un legame essenzialista da Mosè a BHL passando per i Maccabei, Karl Marx, Spinoza, Patrick Bruel, la tua famiglia, la mia, i nostri amici, te e me. E quando diventa troppo, quando i fatti ti travolgono, quando la tua immaginata unicità non regge più davanti alla molteplicità del reale, tu sali ancora più in alto poiché la realtà è insostenibile, fa deragliare l’idea; allora la negazione si intensifica, diventa la lotta del Bene contro il Male, ed eccoci di nuovo al Signore degli Anelli, versione troppo estesa.
Ma quale sarebbe questa idea, alla fine? Quella di un paese che assicura la mia sicurezza in quanto Ebreo? Poiché non ci vivo, dobbiamo però constatare che questo paese non mi protegge e fa anzi l’inverso, gridando dappertutto che è il mio paese, che devo essere solidale, e legandomi ai suoi crimini agli occhi degli altri. Devo confessarti che mi fa un po’ incazzare. Se lotto contro le politiche francesi e i crimini del governo francese, non è certo per essere assimilato a quelli di un altro paese.
Israele come idea di un rifugio? Perché no, ma anche sposando incondizionatamente il punto di vista israeliano, un paese costantemente in guerra, di recente sconvolto da 1200 morti atroci – dirai pogrom –, un paese su cui cadono regolarmente missili, un paese che si dice costantemente in pericolo e che ha bisogno di bombardare in massa per assicurarsi la pace, non è esattamente ciò che chiamerei un rifugio, ma l’esatto contrario, direi piuttosto una trappola.
Se sei stato attento alle mie parole, Gabriel, capisci che a prescindere dalla prospettiva che possiamo assumere, Israele non è il mio paese né in senso materiale né in senso ideale né in senso religioso. Pretende ciò che vuole, come l’ex-tossico e possessivo di mia sorella: dice che lei gli appartiene trattenendola per la manica, ma non è nient’altro che un piccolo perverso narcisista che pensa che tutto ruoti intorno a lui dicendo che non può vivere senza di lei.
Il sionismo non è solo una cattiva protezione: è diventato, ai miei occhi, il nemico degli Ebrei.
Immagini di copertina e nel testo tratte da Wikicommons
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