MONDO
Afghanistan, la necessità di un bilancio
Vent’anni di guerra hanno portato al ritorno al potere dei talebani: un esito fallimentare sotto tanti punti di vista. Ma la “tragedia afghana” assume tratti differenti a seconda del contesto da cui la si guardi
Si può tentare un bilancio degli ultimi vent’anni di guerra afghana, conclusasi a sorpresa il 15 agosto 2021, considerando almeno tre angoli visuali. Uno che osserva quel conflitto dal nostro paese, l’Italia. Un altro che lo osserva più in generale da Ovest, con gli occhi dell’intera coalizione occidentale che ha investito nel conflitto – specie in Europa e Stati Uniti – le maggiori risorse nel comparto militare e negli esecutivi Karzai e Ghani. Un altro ancora posto a Est, come se osservassimo la fine della guerra da Oriente: dai confini del Pakistan o dell’India, dalla Cina e dall’Iran e, ovviamente, dall’Afghanistan.
Visto dall’Italia
Assodato che questa guerra ventennale è stata una sonora sconfitta, il nostro paese non sembra voler fare i conti col suo recente passato. Nonostante il Parlamento abbia tenuto incontri individuali con diversi attori (Ong, giornalisti, attivisti etc) manca tuttora un dibattito parlamentare pubblico che affronti il bilancio di vent’anni di spesa militare (circa 9 miliardi a fronte di un risicato 5-7% in interventi di sviluppo). Che affronti il tema della guerra sia alla luce dell’articolo 11 della Costituzione (l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa), sia alla luce dei nuovi impegni militari che coinvolgono il paese.
È mancata anche una scelta coraggiosa in senso diplomatico: se chiudere le ambasciate è stata una cattiva idea, altrettanto lo è stata quella di chiudere l’ufficio della Cooperazione italiana.
Viene da chiedersi come si possano tutelare e sostenere i diritti tanto sbandierati (parità di genere, libertà di stampa ecc.) non avendo chi può negoziarli sul posto e non potendo contare dunque su chi potrebbe difendere e garantire gli attori italiani della società civile rimasti in loco. Inoltre chi controllerà che la spesa umanitaria prevista vada nella direzione scelta dal nostro paese?
Ora si favella sia di un dibattito parlamentare pubblico sia di una rappresentanza Ue a Kabul in cui saremmo attivi anche noi. Bene, ma si tratta di scelte tardive e che segnano sia una mancanza di coraggio politico sia una direzione del nostro intervento per il futuro.
Dov’è l’Occidente?
Prima di tutto va indicato cos’è Occidente per i guerriglieri islamici che hanno vinto la guerra. Per loro, come per i mujahedin che lottarono contro l’Urss, rientra a pieno titolo nell’Occidente anche la Russia, percepita, al pari di noi e degli americani, come un corpo estraneo che rappresenta l’Ovest. È importante perché ciò fa capire anche che per Mosca non sarà così facile riguadagnarsi posizioni in Afghanistan anche se questa guerra non ha combattuto. Non di meno la vittoria talebana lascia un vuoto che si può riempire anche se ciò richiederà tenacia, diplomazia e denaro, tutti strumenti con cui Mosca lavora da tempo in Afghanistan.
Nel nostro caso (europei e alleati americani), il conflitto afghano ci appare evidentemente come una sconfitta senza precedenti in grado di surclassare, almeno nell’impatto mediatico sull’opinione pubblica dei Paesi impegnati, addirittura la guerra del Vietnam e le scene dell’ultimo assalto agli elicotteri che si levavano in volo dal tetto dell’ambasciata americana.
Una sconfitta che è ancora una nebulosa con molte domande e poche confuse risposte: a cosa è servita questa guerra ventennale? Quanto è costato sostenere un governo corrotto, senza un reale sostegno popolare e figlio di elezioni con risultati chiaramente manipolati (col nostro consenso)?
Come è stato possibile non accorgersi che l’esercito afghano esisteva in parte solo sulla carta e che, per il resto, si è arreso ai Talebani dopo un’evidente (ma solo adesso) opera di trattativa e negoziazione tra guerriglia e generali, governatori e sindaci di città che si sono consegnate senza combattere? Infine, che eredità lasciamo nel paese dell’Hindukush? Partiremo da qui.
L’eredità che lasciamo
L’eredità che lasciamo è davvero poca cosa, nonostante la strenua difesa di alcuni valori disseminati nella società afghana o meglio in un’élite urbana ristretta e chiaramente dipendente – come per altro la macchina dello Stato – da finanziamenti esterni. Ma diritti di genere, libertà di stampa ed elezioni – ancorché ristrette a una fetta di popolazione (che nel caso del suffragio si è andata sempre più riducendo) – non bastano se si guarda alle promesse fatte già nella Conferenza di Bonn del 2001 dopo la cacciata dei Talebani: riforme dello Stato e Costituzione, riforma del sistema penale, sviluppo rurale e sostegno all’imprenditoria, garanzia di accesso a servizi essenziali, grandi infrastrutture.
Dopo vent’anni il quadro è tragico: al momento della partenza dell’ultimo marine, sette afgani su dieci vivevano ancora sotto la soglia di povertà; l’accesso alla sanità pubblica era ridotto alle grandi realtà urbane e su un modello di sanità privata per molti inarrivabile.
Anche l’istruzione restava un fenomeno con luci e ombre che, benché garante della parità di genere, consentiva un accesso assai minore rispetto a quanto si credeva: a fine 2016, a 15 anni dall’intervento, il governo afghano si accorgeva che non erano 11 milioni i bambini che frequentavano le circa 17.000 scuole del Paese – come la propaganda voleva – ma solo sei, circa la metà. Alunni e soldati dunque solo sulla carta.
Sul sistema giudiziario va ammesso che quello talebano, per quanto certamente meno garantista, si è dimostrato più veloce ed efficace. Le grandi infrastrutture hanno privilegiato soprattutto la logistica militare (aeroporti) mentre scuole, ospedali, centri di salute e sociali hanno assorbito in media – fatta cento la spesa totale civile-militare – tra il 5 e il 10% dell’intero investimento occidentale.
Visto da Oriente
Visto dai Talebani il bilancio della guerra è ovviamente non solo più che scontato ma addirittura sorprendente per loro stessi. Questo movimento, oscurantista nei valori e difensore della tradizione, è riuscito a imporsi come un modello nazionalista il cui primo obiettivo era cacciare l’invasore – dunque por fine al conflitto – proponendosi come fronte sovratribale e non solo (come all’inizio) monoidentitario pashtun. Benché il paese versi su un crinale pericoloso che, per mancanza di beni di prima necessità e di circolante, rischia uno scontento che può riattizzare sacche di resistenza anche armata e benché la minaccia dello Stato islamico (IsKp) sia tutt’altro che contenuta, l’Emirato può così giocarsi la carta della pace.
Per molti afghani, contrari sia alla guerriglia in turbante sia al governo sia agli occupanti (come dimostrarono i movimenti pacifisti dal basso del 2019), il consenso ai Talebani riempie ora il vuoto di consenso creatosi, col prolungamento della guerra, in coloro che avevano sperato nel 2001 in una stagione di pace dopo i vent’anni di guerra precedente (dieci di occupazione sovietica, sei di guerra civile intra-mujahedin, quattro di conflitto tra Talebani e chi resisteva loro).
La scommessa sulla pace può funzionare solo a patto che l’amnistia proclamata dall’Emirato venga osservata e che vengano puniti gli eccessi, le ruberie, le vendette e gli omicidi connaturati alla fine di ogni conflitto ma alimentati da comandanti e rais locali, assai più rozzi della leadership che trattava a Doha con gli americani e che ora governa. Capi bastone che ora vogliono conservarsi una fetta di potere locale nella tradizione afgana dei “signori della guerra”, che fondano il loro carisma sul controllo di fette di territorio e legami tribali.
L’altra scommessa è quella di riuscire a conciliare le anime stesse che compongono la leadership “erudita”, erroneamente paragonata a quella di vent’anni fa: una lotta interna tra i kahandarì forti soprattutto al Sud – i Talebani della prima ora fondatori del movimento – e personaggi che hanno costruito il loro potere altrove, come i “Talebani dell’Est”, guidati dalla famiglia Haqqani, cui fa capo l’attuale ministero dell’Interno.
Nuove alleanze
Ma vista da Est la vittoria talebana vuol dire anche altre quattro cose: l’apertura verso nuove alleanze (Cina, Russia), l’incognita dei rapporti con l’Iran (per ora buoni), la soddisfazione del paese dei puri che ha ora a Kabul un “governo amico”, del quale si sta servendo per negoziare in Pakistan con gli islamisti di casa che tanta ispirazione hanno tratto dai fratelli afghani. E infine la contrarietà di Delhi che nei governi Karzai e soprattutto Ghani aveva trovato un forte alleato contro il nemico per eccellenza: il Pakistan. Un nodo quest’ultimo gravido di pericoli che la fine della guerra afghana non ha sciolto e da cui provengono segnali preoccupanti.
Per tentare un bilancio della guerra e capire l’orientamento del governo italiano, le associazioni “46mo Parallelo” e “Afgana” hanno promosso a Trento il 14 dicembre un incontro pubblico con la viceministra Marina Sereni sui temi della cooperazione, dell’asilo e del sostegno alla società civile afgana.
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