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MONDO

Afghanistan, il femminismo liberale al servizio del potere – prima parte

Nella stampa italiana il secondo anniversario del ritorno al potere dei talebani è stato trattato quasi esclusivamente attraverso il filtro dei diritti delle donne. Una retorica che occulta la crisi umanitaria in corso e il ruolo delle politiche neocoloniali occidentali

Sant’Agostino ci ha insegnato che «lo scopo della guerra è costruire una pace migliore».

John A. Nagl, Presidente del Center for a New American Security, Per una guerra migliore in Afghanistan, discorso tenuto presso la Commissione Affari esteri del Senato degli Stati Uniti, 16 settembre 2009

Secondo il Programma alimentare mondiale in Afghanistan sono 18,9 milioni le persone in condizioni di insicurezza alimentare acuta. Secondo l’Unicef il 90% della popolazione è sull’orlo della povertà. Il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato che si tratta della più grave catastrofe umanitaria al mondo. Il 15 agosto, giorno dell’anniversario del ritorno al potere dei talebani, “Avvenire” titolava Kabul, vita negataIl grido delle donne ad Avvenire: Noi, disoccupate per forza. Ci hanno tolto identità, dignità e pure la speranza. “Repubblica”: Afghanistan, la teocrazia talebana ha cancellato le donne. Mai in Afghanistan un regime così cupo. “Domani”: I talebani distruggono il paese. Ma le donne afghane resistono; “Il Fatto Quotidiano” online: Due anni dopo, l’Afghanistan resta una macchia. Soprattutto per la violenza di genere.

La stampa italiana è stata dominata dalla questione delle libertà delle donne e dagli editti che vietano la presenza femminile nei luoghi di lavoro, dell’istruzione e in generale della vita pubblica – il rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani ha chiesto alla Corte penale internazionale se non sia in corso un crimine di persecuzione di genere. Il grado di dipendenza della crisi umanitaria dalla questione dei diritti delle donne varia. Su “Domani” Aldo Benassi scrive: «alla realizzazione di questa catastrofe umanitaria hanno concorso gli editti contro le donne emanati dall’Emirato Islamico dell’Afghanistan». “Repubblica” parla di una generica dimenticanza da parte dei paesi occidentali a cui «l’Afghanistan non interessa più». “La Stampa” fornisce alcuni dati che aiutano a spiegare in cosa consiste questa dimenticanza: «la maggior parte delle organizzazioni umanitarie internazionali ha sospeso i progetti di aiuto alla popolazione in cui molte persone locali lavoravano». Nella stessa direzione uno dei due articoli usciti su “Avvenire” a firma di Lucia Capuzzi, che nomina un «interrotto flusso di aiuti internazionali» e il congelamento dei fondi della Banca Centrale Afghana depositati a Washington. Aggiunge: «la popolazione è allo stremo».

Sempre su “La Stampa” Francesco Semprini chiude scrivendo: «Il mondo si divide tra chi rifiuta ogni riconoscimento o rapporto nei confronti dell’Emirato e chi invece ritiene che è necessario interloquire coi talebani poiché l’abbandono al loro destino potrebbe causare una seria minaccia e uno scenario simile a quello precedente all’11 settembre 2001».

L’unico quotidiano tra quelli presi in esame in cui da nessuna parte nei titoli compare la parola «donna» è “il manifesto”, con tre articoli usciti il 13 agosto a firma di Giuliano Battiston e Emanuele Giordana: Il mondo ha lasciato l’Afghanistan, l’unica resistenza è interna; Le divisioni interne ci sono ma l’Emirato sa stare a galla (intervista all’analista Antonio Giustozzi); La vendetta la paga la gente: l’80% degli afghani è povero. L’assenza della parola «donna» non significa che la questione dei diritti delle donne sia meno rilevante, tutt’altro. Piuttosto, la situazione in Afghanistan è articolata. A differenza di testate in cui il legame tra libertà delle donne e crisi umanitaria tende a essere assente o talmente evidente da non dover essere spiegato, l’approccio di Giordana e Battiston individua tre nuclei distinti che sono: la crisi economica del paese e le relazioni con la comunità internazionale, lo spostamento del potere interno da una componente più moderata a quella più conservatrice, infine il terreno dei diritti, che è il luogo in cui si articola la relazione tra i primi due nuclei. Ciò significa un ribaltamento nell’ordine della domanda: se Giordana si chiede «tutta colpa dei Talebani?», Battiston si sofferma su quanto sia contraddittorio che il disimpegno politico dei paesi occidentali «dall’Afghanistan retto dai Talebani» stia avvenendo «in nome dei diritti delle donne».

(da commons.wikimedia.org)

La guerra economica

Innanzitutto il disimpegno, non una mera dimenticanza o un mero disinteresse da parte dell’Occidente, è una diminuzione degli aiuti umanitari del 25% rispetto all’anno scorso («le Nazioni unite a marzo chiedevano 4,6 miliardi di dollari. Ridotti a 3,3 a giugno». Da tenere a mente che questi sono i finanziamenti richiesti, non le cifre raggiunte: l’appello per raggiungere 4,6 miliardi è stato raggiunto al 6,4% – 294 milioni di dollari). Le Nazioni unite dichiaravano a giugno 2023 che sulla riduzione di aiuti avevano pesato le decisioni dell’Emirato di impedire alle donne afghane di lavorare per Ong straniere – cosa che rende dunque molto difficile raggiungere altre donne – ma ciò ancora non spiega perché dovrebbe esserci un legame causale tra gli editti che negano la libertà di donne e la crisi umanitaria già in corso prima dell’implementazione di queste limitazioni.

È in questo senso che la domanda che impone l’analisi fornita da “il manifesto” non riguarda in primo luogo la difficoltà che hanno le Ong ad assumere donne quanto le origini della crisi che rende gli aiuti necessari. Se per un verso, scrive Giordana, criticare i talebani è «un esercizio facile vista la natura del regime: negazione dei diritti di genere e della libertà di stampa, esclusione dal governo delle minoranze, esecuzioni capitali», un esercizio più complesso è «capire se anche i Paesi che hanno perso la guerra afghana non abbiano qualche responsabilità nella catastrofica situazione di un Paese sprofondato nella miseria e nella fame. Una piaga che va ben oltre le giuste accuse sui diritti ma che non sembra tener conto del primo dei diritti in assoluto: quello di potersi nutrire per sopravvivere».

Criticare i talebani già risulta più difficile se si tiene a mente che prima della ritirata dell’esercito statunitense da Kabul nel 2021 l’Afghanistan dipendeva al 75% da fondi per lo sviluppo (dunque non aiuti umanitari), sospesi con la ritirata delle forze statunitensi e alleate.

E che prima ancora i livelli di povertà in Afghanistan erano aumentati, non diminuiti, sotto la dominazione straniera – dal 36% di assoluta povertà nel 2010 al 54% nel 2018. Infine, il tracollo economico del 2021 in seguito al ritiro (una contrazione dell’economia secondo alcuni del 30-35%), è stato causato in larga parte dalle sanzioni volute dagli Stati Uniti: il congelamento delle riserve sovrane della Banca Centrale Afghana e il divieto di effettuare transazioni finanziarie con i talebani che il sistema bancario ha interpretato come un divieto che si applica a qualsiasi transazione. Misure che hanno significato l’indisponibilità di contante necessario alle stesse organizzazioni umanitarie che rimanevano nel paese – a oggi gli aiuti umanitari arrivano in forma di carichi di banconote via mare; la banca afghana non può stampare moneta. Nelle parole di Giordana una «vendetta consumata fredda» inflitta dalla comunità internazionale «per aver perso la guerra […] contro un esercito di straccioni in ciabatte e kalashnikov che ha ingannato analisti, spie e militari di alcuni tra gli eserciti più tecnologicamente avanzati del primo Mondo».

A due anni di distanza la riflessione avrebbe dovuto dunque riguardare il ruolo che queste sanzioni hanno svolto nel non mantenimento delle iniziali promesse fatte dai talebani in materia di diritti umani, nel compattamento del potere nelle mani del leader supremo e dell’ala più intransigente dei talebani – lo spostamento del potere da Kabul a Kandahar, dove risiede la guida suprema Hibatullah Akhundzada – e nell’estromissione dell’ala moderata che si era dimostrata più aperta al dialogo con l’Occidente1.

Secondo l’ultimo rapporto dell’ufficio di monitoraggio delle sanzioni dell’Onu, infatti, l’efficacia delle sanzioni è pressoché nulla. Niente fa credere che queste stiano avendo un impatto sulle decisioni prese dall’Emiro.

Non solo, il documento fa presente che già il rapporto precedente evidenziava la tendenza dei talebani a ignorare le richieste della comunità internazionale, una strategia che si è solo rinforzata. Se gli esperti delle Nazioni unite, come spiega Battiston, prevedevano che le «differenze tra le fazioni» sarebbero sfociate nel giro di due anni in un conflitto armato, il rapporto sostiene che la coesione interna sembra destinata a durare. Nonostante un certo dissenso interno alla leadership talebana, «le prospettive di cambiamento a breve e medio termine sono scarse». Soprattutto, «l’assenza di una strategia multilaterale concordata a livello internazionale su come affrontare i talebani e per quali obiettivi comuni ha permesso al regime di accelerare il consolidamento del potere e di rinnegare le sue promesse». Queste conclusioni, infine, che equiparano le sanzioni occidentali all’isolamento internazionale, non prendono in considerazione il ruolo della Cina, il più grande investitore in Afghanistan, con forti interessi nel settori minerario e petrolifero, che ha da poco nominato un nuovo ambasciatore.

(da commons.wikimedia.org)

I diritti negati: terreno per la contesa di potere

In un certo senso, le potenze occidentali sono state sconfitte per la seconda volta. Il non riconoscimento internazionale del regime è avvenuto credendo di poter usare lo standard dei diritti umani come leva per imporre prerequisiti al dialogo. La riflessione che è perlopiù assente nei media riguarda il fatto che questa strategia, che non ha portato ad alcun progresso a livello internazionale quando a chiedere il riconoscimento erano le forze più moderate, pare sia stata ritorta contro l’occidente dalle forze più conservatrici, che governano sfruttando lo stesso terreno simbolico scelto dalla comunità internazionale – nella misura in cui la libertà delle donne non era il fine ma il pretesto per l’invasione del paese; secondo Amnesty «il miglioramento della condizione delle donne afghane è stato usato come giustificazione dai leader mondiali che hanno guidato l’intervento militare».

In un report per l’ISPI, Battiston scrive:

«Oltre che come strumento di sabotaggio dei piani di riavvicinamento all’Occidente tentati dalla componente pragmatica dei Talebani, andrebbero lette in questa ottica anche alcune politiche discriminatorie verso le donne adottate dal leader Haibatullah Akhundaza. Le quali dividono gli alti esponenti dell’Emirato, ma legittimano la leadership e tengono unito il fronte dei militanti di medio-basso rango attorno alla presunzione di un “vero sistema islamico”. Riducendo così l’emorragia verso altri gruppi radicali, i quali non devono superare lo scoglio del passaggio dal jihad combattuto al jihad da ufficio, privo di un nemico riconoscibile».

Internamente, «il movimento dei Talebani è diviso, in particolare sull’istruzione per le ragazze». Si tratta di «un punto che molti osservatori, concentrati solo sul fronte militare, non hanno colto […] Le divisioni tra i Talebani vengono perlopiù tenute nascoste, ma alcune volte sono sfociate in botta e risposta pubblici tra esponenti delle diverse aree, oppure in decisioni e contro-decisioni, quei testacoda amministrativi che fanno apparire in superficie i dissidi nascosti. Il caso più emblematico è quello del 23 marzo 2022, quando il ministero dell’Istruzione ha annunciato la riapertura delle scuole superiori femminili, richiuse poche ore dopo».

La «sopraffazione dell’ala più radicale del movimento su quei rappresentanti più pragmatici e inclini al dialogo e al negoziato» mira a «consolidare l’indipendenza e l’autorità del nuovo ordine costituito, per cui l’Emirato islamico è sovrano se persegue l’autarchia assoluta».

L’autarchia deve essere intesa nella sua accezione economica e ideologica. Sotto il primo profilo l’Afghanistan oggi riesce a far affidamento su due miliardi circa di proventi che derivano principalmente da dazi doganali, con cui far funzionare l’apparato amministrativo. Si tratta di un’economia inesistente che riesce tuttavia a garantire la sopravvivenza di quella classe dirigente che le sanzioni dovevano colpire. Secondo l’ultimo rapporto della banca mondiale l’amministrazione è riuscita ad abbassare l’inflazione, garantire una valuta stabile, pagare gli stipendi. In questo senso l’autarchia appare come la volontà di uscire da un regime di dipendenza umanitaria strutturale dai paesi occidentali, con una strategia volta alla conservazione del potere che accetta di pagare il prezzo della crisi umanitaria.

Sono a questo riguardo utili le critiche all’amministrazione statunitense, che pure provengono dai “falchi”: il governo instaurato e l’esercito che avrebbe dovuto combattere i talebani ad agosto del 2021 sono capitolati nel giro di due settimane perché non erano mai stati pensati per essere autonomi.

In secondo luogo l’autarchia si esprime sul piano simbolico scelto dagli Stati Uniti a seguito dell’11 settembre – esportazione della democrazia e liberazione delle donne – funzionale non solo a giustificare l’invasione militare di un paese straniero, ma anche a fare in modo che un conflitto, motivato da questioni relative alla sicurezza nazionale – terrorismo di al-Qaeda – ottenesse un finanziamento internazionale. Secondo il rapporto della International Crisis Group «I Paesi occidentali si sono concentrati sulla condizione delle donne afghane a partire dal 2001, quando i politici hanno usato questo problema per raccogliere consensi a favore dell’intervento militare in Afghanistan. […] I risultati sono stati contrastanti, ma nel complesso le donne e le ragazze hanno beneficiato di miglioramenti nel campo dell’istruzione, della salute e delle libertà. Queste riforme hanno in parte motivato l’insurrezione talebana, in quanto i militanti sono stati ispirati a combattere ciò che consideravano “ingegneria sociale” occidentale»2.

Il fatto che oggi l’Onu affermi che «la propria capacità di fornire assistenza alla popolazione è condizionata da fattori esterni, “in particolare dalle azioni delle autorità di fatto e dal sostegno dei Paesi donatori”» sembra essere la prosecuzione di una logica umanitaria di guerra che accorpa il tema delle libertà femminili alle cause della crisi umanitaria. Questa operazione rende molto confusa qualsiasi discussione sulle responsabilità che l’occidente ha sia nella negazione delle libertà femminili che nella crisi umanitaria in corso.

(foto di Lance Cpl. Brian Jones, da commons.wikimedia.org)

Le riserve della Banca Centrale Afghana

Il 15 febbraio 2022 la International Rescue Committee, che opera in migliaia di villaggi afghani dal 1988, affermava che la situazione catastrofica in cui versa in paese è causata principalmente dalle politiche della comunità internazionale: «Gli afghani hanno bisogno di qualcosa di più degli aiuti: hanno bisogno di un sistema bancario e di un’economia funzionanti […]. In questo momento, la popolazione afghana subisce la punizione delle politiche internazionali che costringono milioni di persone alla fame».

Ammontano a quasi 10 miliardi le riserve della Banca Centrale Afghana congelate da Washington. Secondo l’ex-governatore della Banca Centrale Afghana le riserve attualmente accessibili al paese si attestano tra lo 0.1 e lo 0.2%. 7 miliardi sono stati congelati dalla Federal Reserve Bank di New York, 2,1 da banche in Europa, presumibilmente in Polonia. A febbraio 2022 Save the Children affermava: «Qui il cibo non manca, i mercati sono pieni. Eppure i bambini muoiono di fame perché i loro genitori non possono permettersi di pagare il cibo. […] La verità è che gli aiuti umanitari possono fare fino a un certo punto. Questa è una crisi economica e ha bisogno di una soluzione economica». Secondo il Center for Economic and Policy Research le sanzioni sono una forma di «punizione collettiva». Se la guerra economica fosse riconosciuta come guerra queste azioni sarebbero sanzionate dalla Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili che all’articolo 33 vieta le pene collettive.

Nel 2022 Biden ha annunciato la creazione di un fondo in Svizzera in cui sono stati trasferiti 3,5 miliardi di dollari dei 7 congelati dagli USA a «beneficio delle persone afghane». Gli altri 3,5 miliardi di dollari dei 7 complessivi sono invece stati destinati al risarcimento delle vittime dell’11 settembre.

La somma è al momento oggetto di un ricorso dopo che un tribunale si è pronunciato contro la possibilità di usare le riserve afghane per rimborsare cittadini statunitensi, ma la creazione del fondo svizzero è stata presentata da Biden come un modo per mettere al sicuro almeno la metà della somma3. L’amministrazione dichiara di essere consapevole che «non esistono soluzioni facili per le sfide economiche dell’Afghanistan, esacerbate dalla presa di potere da parte dei Talebani», e sottolinea, come accade in pressoché tutti i documenti ufficiali, che gli Stati Uniti sono «il principale contribuente in termini di aiuti umanitari» – sebbene questa somma, come puntualizza Emanuele Giordana, non appartenga neanche al governo ma ai cittadini afghani e si tratti di una somma con cui «sarebbe possibile fare un commercio con l’estero ora ridotto al lumicino».

Il Dipartimento di Stato americano ha descritto con più accuratezza di Biden la funzione di questo fondo svizzero, parlando dell’«utilizzo di certi fondi per il bene della popolazione afghana senza che ne beneficeranno i talebani». Secondo il comunicato stampa sul portale del governo svizzero, la somma «sarà utilizzata dalla fondazione per promuovere la stabilità macroeconomica dell’Afghanistan, ad esempio per onorare i debiti nei confronti delle organizzazioni internazionali o per importare elettricità. […] Il consiglio direttivo decide l’uso specifico dei fondi e garantisce che siano utilizzati nel migliore interesse del popolo afghano, che siano rispettati i regimi di sanzioni applicabili e che il denaro non vada a beneficio dei talebani».

Secondo un rapporto commissionato dal Congresso americano «la restituzione dei fondi rappresenta una priorità politica per i talebani, che hanno cercato di esercitare pressione sia a livello nazionale che internazionale per il rilascio dei fondi», con riferimento a manifestazioni tenutesi a Kabul e al fatto che la richiesta è stata sostenuta da Cina, Russia, Iran, Uzbekistan e Pakistan. A novembre 2021 con una lettera aperta al Congresso americano i talebani affermavano che la sfida principale del paese era la sicurezza finanziaria e che alla radice dei problemi economici c’era il congelamento delle riserve.

(foto di Staff Sgt. Russell Lee Klika, da commons.wikimedia.org)


Il consiglio direttivo del fondo è composto da un diplomatico svizzero, due economisti afghani e dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Svizzera che la presiede. Dalla sua creazione si sono susseguiti una serie di incontri tutti con esito negativo: alla Banca Centrale Afghana si chiede di implementare meccanismi di trasparenza, di contrasto al riciclaggio di denaro e al terrorismo. La banca dovrà inoltre dimostrare di essere «indipendente da influenze e interferenze politiche». A maggio un rapporto di SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) dichiarava che i risultati della prima valutazione a cui la banca aveva accettato di sottoporsi «non erano stati finalizzati». In un altro rapporto evidenzia il rischio elevato che i talebani «interferiscano» con le riserve ed esprime dunque dubbi sul fatto che queste riserve possano essere usate a fini umanitari.

È stato notato che le sanzioni imposte all’Afghanistan rappresentano un salto di scala nel meccanismo delle guerre economiche. Il fondo svizzero inaugura un modello di governo neocoloniale che disaggrega le funzioni dello stato afghano e sostituisce la banca centrale con il fondo che ne assume le funzioni. Dal momento che è tecnicamente impossibile per una banca centrale essere «indipendente da influenze e interferenze» da parte del governo, riconosciuto o meno, di cui è espressione, è evidente che il fondo è stato creato non per la restituzione delle riserve ma per agire come istituzione parallela a quella non riconosciuta.

Da un punto di vista giuridico proprio l’argomento umanitario contro le sanzioni – che sposta il fuoco sugli effetti negativi che queste hanno sulla popolazione – impedisce di cogliere il fatto che le guerre economiche neocoloniali, la cui arma principale sono le politiche monetarie statunitensi, mirano alla sovranità di un paese. Nel caso dell’Afghanistan di fatto impongono un governo parallelo a quello non riconosciuto internazionalmente.

È da tenere a mente che gli Stati Uniti hanno mantenuto attiva l’impalcatura istituzionale della Repubblica Islamica dell’Afghanistan terminata nel 2021, con le sue ambasciate nel mondo, il Chargé d’Affaires della missione permanente afghana alle Nazioni unite, non riconosciuto dall’Emirato, che si dice a favore del congelamento delle riserve. È con questo apparato parallelo e tutt’ora funzionante – detto in esilio nonostante la fuga delle massime autorità ad agosto 2021 – che può esprimersi con parere negativo l’ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan creato nel 2008, sollevando dubbi sulla possibilità che il governo USA possa usare i fondi che appartengono alla Banca Centrale Afghana per finanziare missioni umanitarie mirate ad alleviare la crisi che è stata causata dal blocco di questi stessi fondi.

Note

1Un rapporto della International Crisis Group ripercorre la breve storia delle relazioni tra comunità internazionale ed Emirato islamico evidenziando il ruolo che da subito hanno svolto i diritti delle donne. «Le ragazze e le donne hanno iniziato a perdere la loro libertà fin dai primi giorni della presa di potere dei talebani nell’agosto 2021. In risposta, almeno in parte, i Paesi occidentali hanno isolato il nuovo regime, tagliando gli aiuti allo sviluppo, congelando i beni e mantenendo le sanzioni. Queste misure hanno contribuito a una contrazione del 20% dell’economia afghana nel giro di pochi mesi, che a sua volta ha portato a una scarsità alimentare senza precedenti in tutto il Paese e al precipitare della povertà per milioni di persone». Secondo Jean-François Cautain, in passato alto funzionario dell’UE, oggi residente a Kabul, «inizialmente i talebani hanno mostrato moderazione nel rivolgersi alla comunità internazionale. Hanno parlato di amnistia generale, libertà di lavoro per le donne, istruzione per tutti e lotta al terrorismo. L’Occidente si è rifiutato di cogliere questa mano tesa. Al contrario, grazie alla sua posizione dominante sulla scena internazionale e approfittando del disordine causato dal ritorno dei talebani e dalle caotiche scene di evacuazione all’aeroporto di Kabul, l’Occidente ha risposto imponendo condizioni sul riconoscimento del governo talebano, sul blocco degli aiuti allo sviluppo (40% del PNL), sul congelamento dei beni della Banca Centrale dell’Afghanistan e sull’estensione delle sanzioni sulle transazioni finanziarie a tutto il Paese. Queste decisioni hanno messo in ginocchio l’economia afghana in poche settimane (…). Anche i talebani hanno una grande responsabilità in questa situazione di stallo (…). Il fallimento del loro approccio diplomatico iniziale con l’Occidente ha aperto la porta al ritorno di politiche coercitive inaccettabili per la comunità internazionale e per la grande maggioranza degli afghani».

2 Secondo lo stesso rapporto, a seguito del ritorno al potere dei talebani «i riflettori internazionali sembrano aver causato disagio tra gli integralisti talebani, con alti esponenti del movimento che esprimevano preoccupazione. Alcuni di loro si sono lamentati in privato che il loro Emirato islamico non sembrava molto diverso dalla Repubblica islamica, come si definiva il governo sostenuto dall’Occidente che avevano rovesciato. […] Si sono coalizzati attorno all’emiro di Kandahar e l’istruzione femminile è diventata il terreno di scontro con un’ala più flessibile del movimento, per lo più nei ministeri di Kabul. Non sappiamo cosa avvenga nelle riunioni dei talebani, ma ci sono resoconti di scambi sempre più tesi tra ministri e leader religiosi attorno alla questione dell’istruzione femminile che si è trasformata in un sostituto del dibattito sul carattere che deve avere il nuovo regime».

3 A febbraio del 2023 un giudice ha stabilito che la somma non può essere impiegata per risarcire le vittime dell’11 settembre perché la Banca Centrale Afghana è un’istituzione di un paese estero e gli stati stranieri godono dell’immunità dalla giurisdizione delle corti statunitensi. Ma l’argomento principale della sentenza ha come oggetto il non riconoscimento da parte degli Stati Uniti del governo dell’Afghanistan: un giudizio favorevole significherebbe il riconoscimento dei talebani – contro cui la causa è stata intentata – come governo legittimo dell’Afghanistan, cosa che non è di competenza di un tribunale. La somma, in verità, non è contesa tanto dai familiari delle vittime quanto dagli studi legali che li rappresentano. Secondo uno degli avvocati «La realtà è che il popolo afghano non si è opposto ai talebani… Sono responsabili delle condizioni in cui si trovano». In risposta, un’associazione costituita dai familiari, che si chiama Families for Peaceful Tomorrows, si batte per la restituzione della somma ai cittadini afghani in collaborazione con Unfreeze Afghanistan, un’organizzazione composta da donne afghane e statunitensi che chiede la restituzione delle riserve. Un comunicato ha festeggiato la prima sentenza, che è ora oggetto di ricorso da parte degli studi legali.

Immagine di copertina di Staff Sgt. Kylee Gardner, da commons.wikimedia.org