ITALIA
Affettività recluse
Le misure adottate dal governo in questi giorni hanno imposto uno stato di isolamento forzato che rischia di nascondere una serie di amare conseguenze. Di fronte all’esplosione di contraddizioni e conflitti, tanto negli ambiti domestici quanto in quelli carcerari, occorre ripensare il valore politico delle relazioni e degli affetti
«È per questo che Annunciazione tornerà qui dove tutti sanno chi è.
Anche se occupa il posto più basso di questa collettività qui ha sempre un ‘ruolo’ accettato da tutti … Anch’io, adesso fremo tanto d’uscire perché è un anno che sono dentro, ma dopo due o tre mesi di libertà nell’anonimato – libertà che ha il solo vantaggio d’essere lasciati a morire soli – so che mi riprenderà il desiderio di qui. Non c’è vita senza collettività, è cosa risaputa: qui ne hai la controprova, non c’è vita senza lo specchio degli altri … oh, ci hanno chiuse! Quando è stato? Non me ne sono accorta …»
(L’Università di Rebibbia – Goliarda Sapienza)
Il primo week end di emergenza nazionale è trascorso. In questi «strani giorni» (per citare un sempre amato Battiato) in cui il tempo sembra seguire un inusuale ritmo scandito a colpi di decreti, la mente appare come offuscata da una molteplicità di pensieri che confusamente (e nella maggior parte dei casi, in solitaria) cercano di attribuire un senso all’inedito presente che ci è toccato in sorte. Lo stato di isolamento forzato, definito in maniera progressivamente più stringente dal susseguirsi di norme straordinarie, implica la riduzione drastica – se non totale – di contatti sociali. Sappiamo bene però che dietro al dilagare del refrain #IoStoACasa (e chi una casa non ce l’ha?) si nascondono una serie di amare conseguenze che poco hanno a che fare con la «bellezza di ritrovare del tempo per sé». Da un lato, infatti, ci sono case caratterizzate da situazioni di violenza fisica, mentale e psicologica principalmente agita nei confronti di donne e ragazz*. Case in cui la convivenza forzata si trasforma in un vero e proprio incubo dal quale si vorrebbe solo fuggire. Situazioni incandescenti che, esacerbate dalla convivenza forzata, rischiano di esplodere. In questo senso, l’invito è quello di contattare la già esistente help-line telefonica per casi di violenza e stalking (il numero è 1522, a rispondere sono sempre operatrici specializzate).
Dall’altro lato, per chi vive in case dove si respira un clima migliore o per chi magari vive da sol*, la repentina stretta relazionale inizia a pesare non poco sulla complessità degli equilibri cognitivi ed emotivi. L’impossibilità di vedersi fuori dalle case, di incontrare e toccare altri corpi, di interagire vis a vis con gli affetti più cari, influenza enormemente la gestione del quotidiano. Ecco allora che si moltiplicano le strategie per rimanere “conness*” che, grazie al fiorire di strumenti virtuali, rendono possibili gli aperitivi su zoom, gli allenamenti su hangout, le cene in videoconferenza, nel nome di un diffuso desiderio di socialità che forse, in condizioni differenti, sarebbe percepito con meno urgenza. La consapevolezza di non poter autodeterminare la propria socialità, di non poter beneficiare – quando lo si desidera – dello sguardo complice dell’altr* significativo, sembra produrre un senso di forte spaesamento, inserendosi in un quadro di per sé già difficile. Lo “stare in relazione” – nelle molteplici e favolose forme in cui può manifestarsi – rappresenta infatti un elemento fondamentale per nutrire il proprio mondo interiore, nonché per condividere (nel senso letterale di “dividere tra”) i propri e gli altrui stati mentali. Fattori, questi, di grande rilevanza nella vita di tant*.
Considerando allora la consapevolezza (almeno per chi scrive) dell’importanza che le relazioni affettive hanno nella costruzione quotidiana della salute fisica e mentale – intesa non solo come assenza di sintomi e/o malattie ma come benessere complessivo[1] – non stupisce che proprio i legami affettivi vengano drasticamente normati, limitati, se non proprio impediti, all’interno degli istitutivi detentivi. E questo accade non solo in condizioni “emergenziali”, come abbiamo visto nell’ultima settimana, ma da sempre e in forma pensata e strutturata. Le persone che vivono in condizioni di detenzione possono infatti usufruire generalmente di soli sei colloqui al mese (per un totale di sei ore) e di due telefonate sempre mensili, per una durata massima di cinque minuti (una a settimana in determinati istituti).
La violenza del carcere
Rispetto al carcere e alla detenzione occorre qui aprire un’imprescindibile parentesi. Il carcere rappresenta un’istituzione totale creata ad hoc con lo scopo di confermare e radicalizzare un’organizzazione sociale fondata su disuguaglianze e oppressioni. In tal senso, esso è immaginato e organizzato al fine di riprodurre ciclicamente se stesso attraverso un violento intreccio di fattori che si cela dietro l’insopportabile retorica legata al modello rieducativo e risocializzativo previsto dall’ordinamento penitenziario. Il carcere, come scrive anche Angela Davis assumendo una prospettiva abolizionista, è ormai considerato talmente “naturale” che l’idea di metterlo complessivamente in discussione risulta quasi impensabile. Per questo motivo, come la stessa autrice suggerisce, è necessario continuare a lottare per abbattere quelle gerarchie economiche e sociali che creano dominio e marginalizzazione e sulle quali si fonda l’istituzione penitenziaria.
Torniamo al momento presente e all’emergenza legata alla diffusione del Covid-19 anche all’interno delle carceri. All’incirca dieci giorni fa sono state disposte ulteriori restrizioni per le persone detenute al fine di contenere il possibile contagio del virus e di assicurare adeguati standard sanitari all’interno degli Istituti. Queste misure definivano la sospensione di tutti i colloqui e di tutte le attività formative, andando a intensificare la condizione di isolamento che già caratterizza ampiamente la vita delle persone detenute. Misure oltremodo ipocrite e ridicole: il sovraffollamento carcerario e le precarie condizioni igienico sanitarie presenti all’interno degli Istituti rappresentano elementi strutturali che, di per sé, devono essere considerati un rischio quotidiano per la salute delle persone che in carcere ci vivono. In più, il continuo entrare e uscire degli agenti di polizia penitenziaria appare come un lampante controsenso rispetto alle motivazioni con cui le misure sono state presentate.
A fronte, dunque, di una situazione già drammaticamente disumana, complicata da misure inaccettabili e da una comunicazione praticamente assente relativa a ciò che accade fuori (che ha chiaramente determinato forti preoccupazioni per i familiari delle persone recluse), le rivolte che si sono moltiplicate all’interno delle carceri sono state espressione di profonda dignità, nonché di volontà/bisogno di autodeterminazione per affermare il proprio diritto ad esistere e a resistere. L’incredibile forza che queste azioni di rivolta hanno mostrato ha di fatto costretto i media mainstream a parlare di carcere, come sempre in termini emergenziali e raccapriccianti. Quando però gli eventi hanno smesso di “fare notizia” i riflettori si sono spenti perché, tanto, a nessuno interessa sapere come mai 14 persone sono rimaste uccise durante le rivolte. Basta semplicemente derubricarle a morti per overdose e il capitolo si può ritenere chiuso. Ammesso e non concesso che questa ricostruzione sia da considerarsi “reale”, non c’è comunque alcun interesse a comprendere i reali motivi per cui, all’interno degli istituti, si faccia ricorso massiccio a metadone e psicofarmaci che tra l’altro, in assenza di una reale e complessiva “presa in carico” dei soggetti da parte dei servizi sociosanitari adeguati, produce esclusivamente effetti di controllo e disciplinamento delle persone che presentano problemi di dipendenza da sostanze o che riportano condizioni di sofferenza psichica.
E non importa nemmeno capire cosa succederà ora negli Istituti in termini di ritorsioni e richiami, o quanto verrà inasprita la gestione già autoritaria delle carceri, o per dove e con quali criteri verranno effettuati i trasferimenti delle persone recluse. Il tutto è banalmente ridotto a mero problema logistico e strutturale, provando il più possibile a silenziare e invisibilizzare le azioni di rivolta e le istanze a esse connesse. La potenza espressa dalle rivolte (sostenute dall’esterno dai familiari delle persone detenute e dai gruppi di solidali) ha di fatto costretto l’istituzione penitenziaria a rivedere le misure previste per il contenimento del virus. Al momento però solo in pochissimi istituti si pensa, ad esempio, della possibilità di utilizzare misure alternative o permessi prova; per non parlare delle istanze legate a indulto e amnistia.
Lavorando in maniera strutturale e sistematica alla depersonalizzazione, alla deumanizzazione e all’isolamento delle persone detenute (impedendo loro, tra le altre cose, di potersi “prendere cura” e di poterne ricevere da parte dei propri cari), il carcere si configura nei termini di una “vendetta dello Stato”. Lo Stato, in questo modo, non fa altro che assolvere se stesso garantendo la continua riproduzione di un’organizzazione sociale basata sull’oppressione. Ecco perché va tenuta alta l’attenzione sulle evoluzioni (o meglio involuzioni) che caratterizzeranno le prossime settimane, e non solo. Vogliamo che si faccia luce sulle dinamiche legate alle morti nel corso delle rivolte; vogliamo che vengano attuate delle reali misure per ridurre il numero delle persone detenute all’interno degli istituti; vogliamo che, nel frattempo, si lavori realmente nella direzione di indulto e amnistia. Perché quando l’emergenza Covid-19 sarà finita, le condizioni emergenziali in cui vivono le persone detenute continueranno a mostrare tutta la loro inaccettabile violenza.
[1] Vedi pag. 21 di “Abbiamo un piano” – Piano femminista contro la Violenza maschile sulle donne e violenza di genere – NonUnaDiMeno