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EUROPA

«A Valencia lo stato ha fallito»

Riportiamo i contributi più interessanti di un dialogo a più voci avvenuto con attiviste provenienti dalla zona di Valencia colpita dalla catastrofe del 29 ottobre 2024. Si è discusso di consumo di suolo, immaginari, mutuo aiuto e conflitto

Sabato 8 febbraio c’è stato una importante iniziativa a Roma presso Loa Acrobax organizzata dalla rete Reset.

Un gruppo di compagne di Valencia, della Koordinadora de Kolectivos Parke, sono venute in Italia per raccontare la tragedia della inondazione di fine ottobre e le reti di supporto e mutualismo che si sono attivate a seguito di quei fatti.

Il tour è stato organizzato all’interno del percorso “Verso gli stati generali della giustizia climatica e sociale” che si è costruito attorno al collettivo dei lavoratori di fabbrica GKN.

All’interno dell’iniziativa, oltre alle compagne da Valencia, erano presenti in collegamento Bologna for Climate Justice e in presenza reti romane attive nelle lotte ecologiste e contro il consumo di suolo.

Ci potete raccontare un po’ cosa è successo il 29 ottobre 2024?

Delegazione Valencia: La Dana (depressione atmosferica di alto livello) è un tipico fenomeno atmosferico autunnale a Valencia, dovuto allo scambio di aria tra il mare che è ancora caldo e l’aria fredda delle montagne che circondano la città. Il fenomeno causa spesso intense piogge autunnali, ma nel 2024 ci siamo trovati davanti a una versione straordinariamente violenta di un fenomeno naturale, aggravato dal cambiamento climatico. Durante la mattinata ha piovuto ininterrottamente nella zona montuosa circostante ma non a Valencia. Va detto che è stata erroneamente chiamata una alluvione, è stata invece una esondazione. Nel primo pomeriggio le dighe e i canali sono saltati e quindi è iniziata l’esondazione mentre si ingrossava la Rambla del Poyo, il canale che porta verso la città. Questo ha esondato alle 16.00. Alle 17.00 la Protezione Civile voleva dare l’allarme ma è gli stato impedito perché il Presidente della Comunità Valenciana, Carlos Mazón, era in un incontro – si dice a sfondo sessuale – finalizzato a dare ad una persona l’incarico del direzione del canale Tv locale, e non era reperibile. Si sono così aspettate tre ore e solo alle 20.00 è stato dato l’allarme. Per capire cosa è successo la Rambla del Poyo ha una capacità massima di 1800 mq di acqua, ed è arrivato ad avere 2300 mq di acqua per tre ore consecutive.

Quali sono state le responsabilità statali?

Tutta la storia è molto esemplare di uno stato che fallisce. Davanti a una catastrofe di questo tipo puoi solo dire che ha fallito: a livello di Comunità Valenciana, ma pure a livello di stato spagnolo. Un cortocircuito evidente non ha permesso che funzionasse la macchina amministrativa.

Sono stati colpiti due paesi conurbati alla città, ma non la città stessa. Sono morte 233 persone. Quattro persone sono tutt’oggi scomparse, ma ci sono tante persone non registrate o prive di documenti che sono morte o scomparse e non si sa nulla di loro. La questione razziale è sempre collegata alla questione climatica. Le proteste sono state fortissime fin dal primo giorno. Anche chi ha sempre votato a destra è convinta delle gravi responsabilità di Mazón e vuole che se ne vada.

Invece la risposta dal basso è stata immediata?

In quell’assenza di stato, la rete dei centri sociali dei paesi catalani ha permesso una attivazione dal basso. Siamo parte della rete di supporto mutuo DANA-Valencia, una rete attiva dal 30 ottobre, che include collettivi e centri sociali non solo nella città, ma anche nella regione. Questa rete è collegata poi ai paesi catalani, ossia Catalogna, Valencia e Isole Baleari. Ci si è attivati subito rispetto ai bisogni immediati, cibo e salute. A Valencia ci siamo coordinati con un altro centro sociale operando da punto logistico. Nel nostro ristorante abbiamo cucinato per 150/200 persone ogni giorno. Stiamo ora organizzando le brigate di solidarietà. Si è creata una solidarietà incredibile da tutta la Spagna. All’inizio la richiesta era interamente rispetto al cibo, ora si richiede aiuto su questioni elettriche, edili, idrauliche.

Il senso del nostro intervento non è solo dare una mano ma anche organizzare dei laboratori perché le persone possano autogestirsi anche in questa situazione difficile. Ad esempio, si sono fatti laboratori per ricostruire le facciate delle case con stucco e materiali ecologici. Non è stato solo aiuto in una forma di solidarietà classica ma anche un modo per creare legame sociale, tanto più tra una città e quartieri marginali e marginalizzati.

Che quartieri sono quelli in cui c’è stata l’inondazione?

Sono paesi ora conurbati alla città, di estrazione popolare e operaia. Recentemente tanti compagni e compagne sono andate a vivere lì perché il costo della vita è diventato insostenibile in città. Le persone rimaste senza casa sono i primi rifugiati climatici di Europa, questo ci teniamo a sottolinearlo. Ancora oggi molte strade sono state ripulite ma nei quartieri più marginali siamo rimasti nella condizione post-inondazione.

Come è nato il vostro collettivo?

40 anni fa il quartiere era molto marginalizzato e povero. Era sporco e nessuno veniva a pulirlo. Un gruppo di persone lo pulì, andò al municipio e disse «dobbiamo essere pagate per questo». Si ottenne il finanziamento e da quello nacque una cooperativa che se ne occupa. Per molto tempo la cooperativa ha offerto lavoro per 6 mesi a turno per poi poter chiedere la disoccupazione. In questo modo si offriva uno stipendio diffuso a tante persone. Col tempo si comprese che c’era molto denaro pubblico che si poteva chiedere. Ci fu un grande dibattito se questi soldi si dovessero prendere o meno. Si decise che questo sarebbe stato il modo per organizzarci, prima con finanziamenti molto piccoli e poi più grandi. Siamo così riusciti ad avere un centro più grande con educatori pagati e molti materiali. Un vantaggio ma pure un maggiore controllo rispetto alle attività da parte dello stato.

Con la DANA abbiamo perso tutto, tranne il desiderio di continuare a rimanere nel quartiere. Ci siamo trovati di nuovo in strada, esattamente come avevamo iniziato.

Una riunione di quartiere per organizzarsi dopo l’inondazione

Bologna for Climate Justice: Anche nella nostra riflessione abbiamo sempre pensato che le lotte sociali e le lotte climatiche dovessero andare a braccetto. I ricchi si possono risollevare facilmente dai disastri, i poveri no.

L’Emilia Romagna è una delle regioni con il più alto consumo di suolo e con il più alto incremento. Questo fattore ha un ruolo enorme quando subisci tre alluvioni in un anno e mezzo. L’alluvione ha voluto dire case distrutte, fango, vite spezzate. Tante persone non sono potute tornare dove vivevano. Il mutualismo è stato il primo momento necessario, ma non siamo angeli, non siamo qui solo per consolare la gente. C’è un immaginario nuovo da costruire rispetto a questi disastri. Per questo il contatto con GKN e gli Stati Generali sono fondamentali. La storia di GKN ci dimostra che bisogna creare pratiche e immaginari che vadano oltre il mutualismo.

Un concetto su cui stiamo lavorando è rendere visiva la necessità di togliere asfalto. Uno dei modi per lottare contro le alluvioni è questo. L’asfalto chiude, sigilla il suolo e impedisce l’assorbimento di acqua e di CO2 che può fare la terra. L’asfalto è il simbolo di una società basata sul petrolio, sulla logistica, le macchine. Bisogna creare nuovi immaginari con nuove pratiche. Il mutualismo va inquadrato in un contesto in cui bisogna riprendersi qualcosa che ci hanno sottratto.

Rete Ecosistemica Roma: Quello che sta capitando è che il potere politico ed economico sta dichiarando guerra alla natura. La colpa di quanto è accaduto è stata data alla natura, ai canali non puliti, alle nutrie, ai topi. Il loro ragionamento è “fare la guerra al verde e alla natura” perché nel sistema capitalista non rendono. La speculazione e la rendita passano attraverso il cemento.

All’inizio di quest’anno la difesa degli spazi verdi ha implicato la critica alla gestione del cemento per via delle opere legate al giubileo. I cantieri sono stati fatti, nel migliore dei casi, per abbellire o, nel peggiore, per fare calare altro cemento. La narrazione prodotta dal giornalismo comodo al potere dice che a San Giovanni si combatterà il calore tramite schizzi d’acqua, quando per il restauro della storica piazza si è coperto di cemento quasi tutto il terreno e l’erba prima presenti.

Le cubature di cemento in città continuano. Difendere il verde non è solo un tema ecologista ma anche di salute in una città sempre più calda d’estate. Nel momento di massimo calore, le aree verdi sono le poche isole fresche. Chi non può permettersi il condizionatore ha bisogno di aree verdi.

Rispetto all’immaginario stiamo progettando anche noi azioni che parlino dell’importanza di riforestare e di togliere cemento. Dove manca il verde bisogna ricostruirlo. Non sarà quello a dare il fresco ma bisogna provocare l’immaginario e denunciare quanto non viene fatto.

In merito al Giubileo si è parlato parecchio del tema degli affitti come emblema di ingiustizia sociale, ma la cementificazione è pure un tema di giustizia sociale, perché impedisce l’accesso al verde per chi non ha la casa in montagna né il condizionatore.

Proprio per questi temi il 1 marzo ci sarà una manifestazione, questa volta diretta verso la regione Lazio, chiamata dalla rete che si è costruita nell’opposizione alle opere antiecologiche di Rocca e Gualtieri e che ha manifestato il 7 dicembre in Campidoglio.

Fridays for Future: Abbiamo lanciato da poco una nostra campagna a difesa del suolo. Proteggere il suolo è proteggere la biodiversità in città. Il suolo cattura CO2 e permette di ridurre il calore. Liberare il suolo dal cemento permette di respirare di più. Il comune sta approvando le nuove Norme Tecniche di Attuazione che regolano lo spazio urbano. Siamo preoccupati perché rischiano di tradursi in nuove colate di cemento. Nuovi metri cubi andranno a colpire sopratutto zone periferiche aumentando il consumo di suolo. Le zone fuori città dovrebbero essere le più tutelate e invece sono nell’interesse di speculatori e banche. Infatti, storicamente quando aree edificabili sono state destinate ad altro dal piano regolatore, ad esempio aree verdi, anziché compensare i proprietari per la “mancata edificazione”, questi sono stati “compensati” con dei crediti per cementificare altrove e questo ha creato un meccanismo a catena tuttora in corso, per cui a Roma esistono ancora molti metri cubi di cemento “virtuali” che rischiano di concretizzarsi.

Rete Ecosistemica Roma: Va detto che queste battaglie hanno influenzato la narrazione politica. Se oggi Gualtieri e Rocca fanno finta che la ristrutturazione di questi spazi pubblici tenga in considerazione le regole ecologiche è perché siamo riusciti a influenzare la narrazione. Non siamo riuscite a influenzare le scelte, come è evidente da quanto accade.

Una parrucchiera di strada post inondazione.

Delegazione Valencia: Tutto l’aiuto economico e sociale che è arrivato in città a seguito della DANA è perché continuiamo con lo stesso modello consumista, fatto di cemento e auto. Nulla suggerisce che ci possa essere un cambio nel modello di società. Ricordiamolo, il danno enorme a Valencia c’è stato per la quantità di macchine che sono presenti in città. Erano tutte strade trafficate quelle che si vedono nelle immagini. Tutto era pensato per le macchine e per la logistica, non per le persone.

Inoltre viviamo una frammentazione fisica tra la dimensione cittadina e la dimensione rurale che poi diventa una frammentazione mentale delle persone.

Spesso tra città e campagne non siamo connesse. Viviamo senza la consapevolezza di quanto tutto sia collegato. Viviamo senza pensare che dipendiamo dalle montagne e dalla natura che sta a 100 km. L’acqua è scesa dalle montagne a due passi da noi e abbiamo finto di non saperlo continuando la nostra vita normale.

Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma anche interno personale nel nostro modo di pensare, non solo da parte delle istituzioni.

Le politiche verdi dello stato valenciano si traducono in grandi produzioni di energia eolica e distese di pannelli fotovoltaici. Per fare questi ultimi taglieranno chilometri quadrati di vegetazione, mentre per le selve di mulini a vento metteranno in difficoltà la biodiversità. È quello il cambiamento che vogliamo?

Sta già arrivando il fondo per la ricostruzione?

Sì e noi abbiamo creato comitati locali di ricostruzione per vigilare sul denaro che arriva, perché non lo gestiscano le stesse persone che ci hanno portato a questa situazione. Se questi comitati funzioneranno non lo so, ma almeno si può provare a creare un cambio di paradigma. Non sarà facile perché sono già pronti a spartirsi i soldi.

Rispetto alla narrazione, a Valencia possiamo dire che abbiamo già vinto. Tutta la popolazione vuole le dimissioni del presidente, quanto accaduto quella notte è ben noto. Il problema ora non è la narrazione. Non sappiamo però se riusciremo a incidere. Ora siamo passati a una fase sociale più difficile da gestire. Dobbiamo rilanciare la lotta, ma l’organizzazione è stato un processo che ci ha richiesto anni. La catastrofe ha però accelerato i tempi e c’è bisogno di dare risposte più immediate.

Foto di copertina, Wikimedia Commons, foto nell’articolo Koordinadora de Kolectivos Parke

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