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A proposito di Elettra Stimilli, Filosofia dei mezzi. Per una nuova politica dei corpi

In FIlosofia dei mezzi (Neri Pozza), Stimilli analizza il “mezzo” come strumento che instaura relazioni fra il soggetto e il mondo. Il mezzo nella filosofia e nel diritto e il mezzo come corpo, luogo di sfruttamento, riproduzione, resistenza e cura

Contrariamente a quello che è lecito supporre, intraprendere la lettura di un libro provenendo da un ambito disciplinare diverso da quello dell’autore o autrice non significa auspicare che i suoi contenuti siano alleggeriti al punto da renderli fruibili extra moenia. Anzi proprio laddove, come nello studio di Elettra Stimilli Filosofia dei mezzi. Per una nuova politica dei corpi, la riflessione è spinta a fondo sul pedale filosofico senza compiacenza alcuna per il lettore comune, il beneficio è maggiore proprio per chi filosofo non è e si trova al cospetto di un viaggio metafisico, un vero e proprio itinerarium mentis in medium.

Stimilli rovista nella dispensa dei concetti filosofici ed estrae dal doppio fondo di uno stipo braccato da utensili ben più ingombranti, quello che in realtà è il più utensile di tutti: il “mezzo”. Oggetto trattato molto distrattamente dal pensiero filosofico occidentale, il “mezzo” è restituito nelle pagine del libro alla sua specifica destinazione che lo assegna a svolgere, né più e né meno, la funzione di “tra” nel rapporto che il soggetto instaura col mondo. C’è da chiedersi come un compito così vitale sia stato vittima di una svista così clamorosa, soprattutto quando questo mezzo è quello che ci s’infonde addosso senza tollerare interferenza alcuna rispetto all’essere di ogni individuo.

Stiamo parlando del corpo, il mezzo per eccellenza che Stimilli elegge a luogo di resistenza massima alla postura servile che gli richiede la razionalità strumentale da un lato, così come alla conversione in lavoro assoggettato cui lo condanna il rapporto di capitale dall’altro.

La scuola di Francoforte è solo l’inevitabile innesco di un ragionamento che da Platone all’etica della cura, inforcando il pensiero di Spinoza, Hegel, Marx, Nietzsche, Weber e Benjamin, scandisce le tappe di una storia in sordina la cui scarsa visibilità è inversamente proporzionale all’importanza tanto per il discorso teoretico quanto per ogni diagnosi critica dei processi reali. Ecco allora che prendere le cose per il mezzo comporta un grande sforzo speculativo che significa eleggere il mezzo come regione primaria e immediata del “pensiero attivo”, mettendo finché possibile tra parentesi la dittatura binaria che fa capo all’intenzione e al fine. Il luogo del “tra” che il mezzo presidia sfugge a questa bipolarità, s’installa in un territorio autonomo dell’esperienza di cui il libro scandaglia peripezie tecniche e precipitati pratici. Abbiamo impiegato l’espressione “prendere le cose per il mezzo” che però non è dell’autrice, anche se avrebbe potuto tranquillamente esserlo, bensì di Deleuze che così descrive l’approccio alla realtà che caratterizza il pensiero di Foucault: c’è una prosa delle tecniche che merita di essere colta e descritta al suo livello di emersione, senza cercarne il senso a monte (l’intenzione degli attori) o a valle (gli obiettivi che perseguono). Foucault dichiarava infatti di non voler scrivere la storia dei re né quella dei popoli, ma di ciò che permette a questi due termini di stare uno di fronte all’altro: a una dogmatica delle essenze preferiva la fisica delle relazioni, isolando lo sguardo sulla microfisica del trait d’union. Su questo aspetto torneremo tra breve perché gli argomenti di Stimilli, anche se lei non se ne occupa, fanno improvvisamente balenare agli occhi del giurista il posto del diritto, popolato da una congerie di mezzi che non possono che stare in mezzo, cioè tra persone, cose, azioni e funzioni.

Chi si trova a meraviglia nel regno dei fini, più che in quello dei mezzi, è ovviamente Kant di cui Hegel riconosce il primo gesto di apertura alla storia. Tuttavia, secondo Stimilli, “Kant non identifica mai la storia con un processo lineare, un’evoluzione dalla natura alla cultura, com’è invece nel sistema hegeliano. Vi è un che di profondamente contingente nell’accordo delineato da Kant tra natura sensibile e facoltà umane, qualcosa che mina dall’interno la stessa signoria dell’uomo” (p. 81). Questo elemento della contingenza non solo rende meno ovvia la critica hegeliana a un universale formale e astratto quale sarebbe quello di Kant, ma proietta anche sotto un’altra luce la stessa visione kantiana di uno scopo finale veicolata dall’idea di progresso proprio all’Occidente. Può essere utile al riguardo andare a rivedere quello che dice il filosofo nel Conflitto delle facoltà quando ravvisa nell’”entusiasmo” generato dalla Rivoluzione francese il segno di un’universale disposizione morale dell’umanità verso il progresso, e così facendo ricava dalla storia una legge generale della conoscenza. Infatti, dinanzi all’interrogativo se esista un pro­gresso costante nel genere umano, Kant, contrariamente alla sua teoria della conoscenza, desume l’a priori da una situazione em­pirica. Il segno fenomenico che rinvia a una spiegazione valida nelle tre dimensioni temporali – signum rememorativum, demonstrativum e prognosticum, è accaduto, accade, accadrà – si trova in un ef­fetto immateriale scaturito dalla rivoluzione: quell’entusiasmo che contagia tutti e attesta la presenza di una legge storica universale (almeno per l’Occidente). In questo modo la ragione si struttura per intero nella storia, perché l’elemento della contingenza irrompe come fatto empirico concreto che diviene decisivo per acquisire una legge generale della storia.

Ecco allora che il segno-entusiasmo funziona in Kant come “mezzo” non per realizzare un fine, ma quale via d’accesso a una verità atemporale, cioè sottratta alla contingenza, che però non può darsi se non nella forma radicalmente sublunare di un evento particolare, quella rivoluzione francese che rappresenta l’epitome della lotta e dei rapporti di forza.   

L’intima politicità del mezzo che a conti fatti si agita nella riflessione di Kant trova nelle analisi di Walter Benjamin una caratterizzazione ancora più accentuata. Se la violenza, nei termini della tradizione giuridica, rappresenta ai suoi occhi il “mezzo” per la presa del potere, un mezzo politico per un fine giusto, il vero e proprio rovello teorico per Benjamin è riuscire a isolare i mezzi separandoli dalla loro soggezione ai fini e considerarli perciò in quel “tra” assoluto che è la regione dei “mezzi puri”. Un mezzo è puro quando favorisce, nei termini di Benjamin stesso, «la composizione non violenta dei conflitti», cosa che accade nella conversazione e prioritariamente ancora nella lingua, non un semplice mezzo di comunicazione ma «ciò attraverso cui ogni cosa si comunica», chiosa l’autrice (p. 99). Rispetto ai mezzi giuridici, che sono sottoposti a un «riconoscimento storico generale», i mezzi puri seguono finalità naturali, sono inscritti cioè nel campo aperto della «teleologia senza scopo finale». Tuttavia a questa posizione di Benjamin si potrebbe obiettare che la storia delle operazioni giuridiche è, sì, una storia di rimedi ai fatti “contingenti” che caratterizza la relazione col mondo delle cose e delle persone, ma tali rimedi non si fissano in un unico senso, né tantomeno in un Endzweck, in uno scopo finale come lo Stato in Hegel. La finalità che perseguono è sempre provvisoria e mai definitiva, giacché il loro impiego resta polivalente e orientabile in svariate direzioni, al di là dell’obiettivo occasionale per cui sono di volta in volta invocati. In altri termini anche le tecniche del diritto sono mezzi puri in quanto non vincolati a un rapporto causale con un fine specifico.  

Diverso è il discorso quando si osserva il rapporto del diritto col corpo, il “mezzo” che Stimilli intende riabilitare all’attenzione privilegiata della filosofia. Viene subito in mente il sacrificio che al corpo è stato inferto da quella nozione disincarnata per eccellenza che è il “soggetto di diritto”, entità puramente nominale che funge da centro formale d’imputazione di diritti e obblighi indipendentemente dalle caratteristiche concrete del soggetto a cui si riferiscono.

Ma si potrebbe pensare anche a una nozione assai più antica, che ci parla tuttavia in modo stringente: il venter della donna incinta nel diritto romano.

Difficile non rammentare questo precedente quando si leggono le pagine che il libro dedica al parto, esempio lampante di rimozione del corpo nella cultura occidentale: «il valore sociale del parto resta legato più alla nascita e ai nascituri che non ai corpi che rendono possibile tutto questo» (p. 153).

Ebbene se da un lato è evidente la matrice aristotelica di questo modo di pensare – il maschio è il principio attivo e formativo, mentre la donna come principio passivo e materiale è capace di accogliere, nutrire e partorire – non va trascurato il contributo offerto dal diritto romano al consolidamento di una simile antropologia. Il venter fu infatti ideato come contenitore meramente istituzionale, astratto, affidato a un “curatore”, nel quale il corpo fisico della donna è solo una componente funzionale alla realizzazione dei diritti patrimoniali del nascituro, in maniera tale che se il neonato fosse nato postumo, cioè dopo la sopravvenuta morte del padre, potesse partecipare all’asse ereditario come se fosse un figlio già nato prima di quella scomparsa, visto che secondo il diritto civile è erede solo chi esiste al momento della morte del testatore. La fase riproduttiva del corpo della donna subisce perciò un’estrazione di senso che la trattiene nella forma astratta dei rapporti giuridici, con totale assorbimento del venter “naturale” in quello “istituzionale”.

Questa operazione del diritto romano, che toglie alla donna la soggettività su quel mezzo di sé che è il proprio corpo, riaffiora senza troppi infingimenti nelle legislazioni moderne sull’interruzione della gravidanza. In Italia la 194, al primo comma, vale la pena ricordarlo, indica la linea culturale che colloca in primis l’interesse istituzionale per il corpo della donna che, come sempre meno usa dire, si trova in stato per l’appunto interessante: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale ella maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».  

Corpo istituzionalizzato per interessi patrimoniali, corpo istituzionalizzato per interessi statali: in entrambi i casi il diritto ha contribuito non poco a incoraggiare questa strategia di espropriazione del corpo dalla sua legittima titolare, mostrando tuttavia come corpo e autodeterminazione sono le due facce inseparabili della medesima costituzione, che non è quella dei beni né quella della sovranità, bensì quella della libertà.

A questo va aggiunto un aspetto rilevante del dibattito contemporaneo che trova ampio spazio nel libro. L’attenzione istituzionale per il mezzo-corpo della donna come agente della riproduzione ha suscitato, com’è noto, prese di posizioni diverse: da un lato il femminismo marxista ha sottolineato come l’attività riproduttiva della donna sia essenzialmente un lavoro, evidenziandone lo sfruttamento che lo caratterizza, dall’altro importanti settori del femminismo americano hanno qualificato questa attività come una “cura”, elevandola addirittura a paradigma etico generale e alternativo al modello maschile. In entrambi i casi, sottolinea Stimilli, si perde di vista il processo contemporaneo di “femminilizzazione del lavoro”, sempre più assimilato ai tratti tipici della cura domestica: non riconosciuto, mal retribuito e senza diritti, cartina di tornasole dell’imperante economia neoliberale e del suo mercato del lavoro. La cura diventa allora un utile indicatore analitico che evidenzia i non secondari risvolti di potere e assoggettamento che sono del resto inscritti nella storia istituzionale della nozione. Il “cuore che arde” (cor urat, ci dice l’etimologia) nel segno dell’altruismo e dell’empatia è lo stesso muscolo che in nome della salvezza dell’anima autorizzava la chiesa a scandagliare e governare il profondo dell’animo umano. Non è così sicuro che la femminilizzazione del concetto sia sufficiente a sciogliere quelle ambiguità che Foucault aveva individuato nel potere pastorale. Quel Foucault che difficilmente avrebbe sottoscritto l’idea di una vulnerabilità strutturale dell’esistenza per sdoganare, senza alcun retropensiero, l’idea di una cura immune da tentazioni diverse dalla pura disposizione verso l’altro, come ad esempio è il modello teorizzato da Joan Tronto.

Se la cura è un passaggio essenziale per articolare discorsi di diversa estrazione sul tema del mezzo, è probabilmente verso la parte finale che il libro di Elettra Stimilli appaga appieno la curiosità del giurista, quando apre squarci invitanti sul pensiero antropologico francese del primo Novecento. La questione evocata sopra del diritto come mezzo tecnico, come congerie mediorum per parlare come i cameralistii tedeschi del Settecento, appare ora in tutta la sua complicità con la ricerca benjaminiana dei “mezzi puri”, anche se sotto un linguaggio diverso. Soffermandosi sulle tecniche del corpo analizzate prima da Marcel Mauss e poi da André Leroi-Gourhan, il libro trova il suo punto di sintesi ultima nelle posizioni che Gilbert Simondon sviluppa in Sul modo di esistenza degli oggetti tecnici. Nelle mani di Simondon, si vorrebbe quasi dire, il mezzo scopre l’essenza della sua tecnicità, in quanto non risulta «mai definitivamente compiuto e idealmente anteriore al suo divenire». Continua Stimilli arrivando al nocciolo del problema, che in realtà è tale forse più per la filosofia che per il diritto: «Ciò implica che la forma astratta dell’oggetto tecnico non esaurisca mai la sua realizzazione, né semplicemente lo preceda. Il mezzo risulta piuttosto dall’elaborazione di un sistema aperto di esigenze vitali, che convergono nella definizione di un’unità funzionale costantemente aperta» (p. 195). C’è da chiedersi cos’altro mai sia il diritto se non questo fascio multiforme di tecniche per definizione serve di tanti padroni e proprio per questo motivo sovrane nella loro autonomia di non divenirlo di uno solo. Solo il piano metadiscorsivo al linguaggio delle tecniche giuridiche ha inteso preconizzare che alla fine esse debbano obbedire a un padrone unico, sia questo il diritto naturale, una forma di giustizia ancorata a valori universali o più prosaicamente l’unità di un sistema, e non al divenire dei rapporti storici.

Si pensi, per citare un esempio accattivante del diritto romano, alla figura della successione giacente, cioè a quel mezzo che i giuristi di Roma avevano escogitato per far fronte all’evenienza che, morto il testatore e in attesa dell’accettazione dell’eredità da parte degli eredi, i beni ereditari non rimanessero privi di un titolare. In questo intertempo era l’eredità stessa a farsi soggetto e a autopossedere i beni di cui era composta. Non deve sorprendere se questa stessa tecnica, mutato il contesto e l’epoca, sia richiamata dai giuristi del XII secolo in un caso di scuola per far fronte a una situazione che non è più quella del diritto successorio, bensì di un monastero in cui, morti tutti i monaci, si trattava di capire a chi spettassero i beni appartenenti al monastero stesso. Non essendo stata ancora inventata la persona giuridica, alcuni pensarono che la forma tecnica dell’eredità giacente potesse essere funzionale a dispiegare le sue potenzialità anche in circostanze diverse da quelle per cui era stata pensata all’origine. Entrambe le situazioni, la successione senza eredi e il monastero, affrontavano infatti la necessità di garantire una continuità alle cose in assenza temporanea delle persone, il che spinse i più audaci a sostenere che così come nell’eredità giacente del diritto romano il patrimonio dell’eredità si auto-possedeva, analogamente i beni del monastero vuoto, finché non fosse arrivato almeno un nuovo monaco appartenevano alle mura dell’edificio.

In questo modo le tecniche del diritto accarezzano concretamente quell’idea di “mezzo puro” di cui predicano anche una caratteristica importante: la temporalità sospesa, oltre che l’indeterminatezza topologica.

Stando così le cose, le tecniche del diritto vanno considerate delle risorse, cioè dei mezzi che si esplorano e si sfruttano, per dirla con François Jullien e in questo modo non sottostanno alla divisione tra teoria e pratica, così come rifuggono un’appartenenza proprietaria. I mezzi del diritto non si consumano ma si rinnovano grazie a un potenziale che ne serba applicazioni inconoscibili a priori, il solo regime di storicità è quello del loro sviluppo. Davvero prezioso questo libro di Elettra Stimilli, il cui uso oltre lo steccato della sua disciplina dimostra a sua volta quanto il diritto, contro ogni miraggio autopoietico, per capirsi fino in fondo abbia vitale bisogno di uscire da sé.

Immagine di copertina: Foto di Benito Condemi de Felice via Flickr

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