OPINIONI
A fianco della Spigolatrice di Sapri
Le polemiche sulla statua inaugurata la settimana scorsa sembrano non cogliere che il problema non sono le tette o le chiappe esposte, ma che queste continuino a rappresentare oggetti della morbosità machista
In questi giorni infuriano le polemiche sull’esposizione (letterale) de La spigolatrice di Sapri, ritratta nella statua inaugurata la settimana scorsa in posa ammiccante e desnuda, la cui notizia è stata diffusa con l’immagine delle autorità presenti all’evento. In molte hanno criticato la sessualizzazione della rappresentazione bronzea dell’immaginario dell’uomo medio eterocis di mezza età italiano condensata nella statua. La statua, in effetti, sembra essere messa lì a disposizione del primo omuncolo arrapato di passaggio, impressione confermata da una seconda foto, che sta circolando sui social, che ritrae un uomo italiano di mezza età che le palpa il culo rivendicando l’azione (direi in maniera estremamente coerente) come atto di virilità, e dimostrando che la realtà supera ampiamente le nostre più distopiche analisi intersezionali. Perché in questa vicenda, in effetti, ci stanno tutte le regole di base del manuale dell’intersezionalità: c’è lo sguardo bianco, coloniale, maschile, che si appiccica bavoso sul corpo della subalterna, povera, giovane, del sud.
Il dibattito social, come ormai accade sistematicamente, si è polarizzato tra due posizioni, entrambe derivanti dalla distorsione contenuta nel concetto ormai in voga della cancel culture: da un lato, quella contro la sessualizzazione dei corpi delle donne, che è arrivata a pretenderne l’abbattimento (le “donne del PD”, sic!); dall’altro la reazione a queste critiche che grida alla censura sessista (il sindaco di Sapri in persona), ideologica retrograda e di regime (rappresentata dal movimento femminista: Il Giornale, non fatemelo taggare), che utilizza il classico argomento: #ealloralestatuegreche?? Inutile dirlo, è lo stesso scultore che rivendica l’estetica della sua opera, volta a «rappresentare un ideale di donna, evocarne la fierezza, il risveglio di una coscienza, il tutto in un attimo di grande pathos» .
Come sappiamo però, la realtà sta nel modo in cui ne veniamo a conoscenza, e mi sembra che in questo caso ciò che parla di più non sono le provocanti forme con cui è stata rappresentata la Spigolatrice, ma l’immagine che ce ne arriva e il suo significato, e cioè la foto (quella istituzionale, non quella dell’omuncolo con la mano sul culo della statua, anche se ci sono poche differenze) come rappresentazione situata – che non c’entra con il “contesto”, concetto utilizzato dai benpensanti liberali per relativizzare e neutralizzare i conflitti storici, come vedremo dopo.
La foto, come sappiamo, rappresenta il momento della celebrazione di quella statua da parte delle Autorità del Paese, laddove “Paese” potrebbe essere una specie di metonimia per descrivere, a livello locale così come a quello nazionale, il provincialismo e il maschilismo da bar sport che pervade la nostra quotidianità: dal sindaco all’ex presidente di consiglio erano tutti presenti all’evento del giorno con le loro belle fasce tricolore, tutti uomini, tutti ghignanti di eccitazione cameratesca, tutti con gli occhi puntati sulle semi nudità della contadina di bronzo che in altri tempi probabilmente sarebbe stata la loro serva. Anzi, sono proprio lì a rappresentare il Paese che guarda la serva come oggetto alla propria disposizione sessuale, ed è un po’ questo è il punto, come scriveva in un post Facebook Carla Panico (ricercatrice storica all’Università di Coimbra). Sembrano le comparse di uno Z movie italiano anni 70 e invece sono quelli che governano, che prendono decisioni sulla salute e il lavoro nella pandemia, non serve soffermarsi sul punto, giusto?
E in effetti non c’è contraddizione, tra le comparse degli Z movie e chi prende le decisioni sulle nostre vite: vi ricordate gli uomini che circondavano Trump quando ha firmato il suo primo atto presidenziale, il taglio dei finanziamenti ai centri per l’aborto? Tutti lì a farsi le seghe a vicenda. Come in questo caso. Mutatis mutandis, quella che vediamo è la stessa cultura dello stupro in versione branco. Cioè tutto sempre uguale a se stesso. Guardatela bene, questa foto, e comprenderete qual è il problema, che no, non sono le tette o le chiappe esposte alla mercé degli omuncoli, né la volontà di censurarli.
Il problema ovviamente è quello sguardo e la possibilità che continui, ancora, a definire ciò che vediamo. Che i nostri culi e le nostre tette continuino a rappresentare oggetti della morbosità machista che inferiorizza, colonizza, domina. Niente di nuovo. E dunque il problema non è censurare i nostri corpi, loro sono qui e resistono ogni giorno ai vostri sguardi, ognuna come sempre ne farà quello che vuole e si sente – ci si copre e ci si scopre a seconda di quello ci fa stare meglio. Il problema è che quella statua è lì e la Spigolatrice non ha potuto decidere come esserci. È lì esposta e ci chiama a prendere una posizione – che dovrebbe essere al suo fianco, dove saremmo state in ogni caso. Dunque parliamo anche della statua, e di che farne. E torniamo a un argomento cruciale: la cancel culture.
Perché tutto questo avviene proprio mentre il tema della rilevanza dei simboli e in particolare delle statue storiche torna ciclicamente al centro del dibattito, e quindi assume in sé un significato specifico, perché le statue dei colonizzatori nei paesi del Sudamerica sono state demolite da chi aveva ragione di volerlo fare, perché quella celebrazione simbolica significava la celebrazione simbolica del genocidio, dello stupro di massa, dello schiavismo ecc. E se a qualcun* che eredita e subisce le conseguenze della violenza razzista, maschile e coloniale non va bene vedere quelle statue che rappresentano il dominio e la violenza, va bene che le butti giù, se ce la fanno. Come va bene che altr* imbrattino quella di Montanelli: ognun* troverà il suo modo di agire il proprio conflitto. E va bene discuterne, perché vuol dire che queste azioni parlano a noi, e in base a chi riuscirà a ottenere egemonia, ad essere abbastanza forte da modificare le percezioni e i significati storici e tramandarli, le cose cambieranno o meno. Ma lo sappiamo già, è sempre stato così.
Chi parla di cancel culture (o politically correct) invece fa una mistificazione intollerabile, perché dà un colpo di spugna al conflitto, alle esperienze, alle lotte, alle ingiustizie e all’asimmetria di potere che c’è tra chi dovrebbe essere abbattuto (le statue dei colonizzatori) e chi lo abbatte, cioè chi ha agito e chi ha subito le ingiustizie e le violenze di cui sopra. Lo sguardo, ancora una volta, di chi sta ai piedi delle statue non è uguale e non ha lo stesso potere di definizione della realtà di chi ha dominato, piuttosto quella celebrazione della realtà la aggredisce, la critica, la decostruisce. È un conflitto appunto per la scrittura della realtà storica, che, come ci hanno insegnato i classici, è sempre appannaggio dei vincitori.
La differenza è che in questo caso la statua rappresenta una donna, appunto, subalterna, e abbatterla sarebbe come abbattere una sorella, che nella sua statua, o meglio, nello sguardo di chi la guarda, rivive la violenza coloniale, maschile, bianca eccetera che l’ha costruita e ce l’ha tramandata così. Sarebbe dunque un gesto letteralmente cieco, che non farebbe alcuna differenza tra lei e Cristoforo Colombo il genocida, tra lo sguardo dei vincitori e de* vint*. Un atto di una violenza inaudita. Piuttosto, come è successo alla statua della Violata, la scultura dedicata alle vittime di violenza di genere che Non una di meno Transterritoriale Marche ha “reso femminista”, lavoriamo perché le sue tette e il suo culo diventino i simboli della rivolta contro gli omuncoli del paese, perché è questo, piuttosto, il monumento osceno che deve essere abbattuto.