ROMA
Il Consiglio di Stato: San Giacomo in Augusta è e deve restare un ospedale
Annullata la chiusura dell’ospedale San Giacomo, avvenuta nel 2008, contro il volere dei cittadini e dell’erede del cardinale Salviati che lo aveva donato alla città purché restasse per sempre un ospedale pubblico. Si è messo fine al tentativo durato venti anni di “valorizzare” la struttura che dal medioevo è stata “l’ospedale dei poveri” per trasformarla in quello che la rendita finanziaria pretende
Il San Giacomo in Augusta, uno dei tre ospedali esistenti a Roma durante il medioevo, fu edificato dal cardinale Pietro Colonna per accogliere i malati incurabili che venivano rifiutati dal San Giovanni in Laterano e dal Santo Spirito. La stessa funzione fu confermata da papa Leone X agli inizi del Cinquecento: ricovero per malati incurabili senza distinzione di sesso o classe sociale.
Erano gli anni della pandemia europea di un male fino ad allora sconosciuto, il “morbo gallico” portato in Italia dalle truppe di Carlo VIII e c’era bisogno di posti dove curare i tantissimi che si ammalavano. Con bolla papale furono stabilite le regole dell’istituto definendo il San Giacomo «il primo degli ospedali dei poveri». A sostenere finanziariamente l’ospedale erano i lasciti e le donazioni di famiglie nobiliari e di religiosi.
Nella seconda metà del Cinquecento il cardinale Salviati affidò la ristrutturazione e l’ampliamento del complesso ad Antonio Sangallo il Giovane, mentre veniva edificata a fianco la chiesa di San Giacomo in Augusta dall’architetto Carlo Maderno.
Fu allora che il cardinale vincolò il complesso all’uso ospedaliero anche in futuro, donandolo con lascito testamentario alla città e dotandolo di un consistente fondo patrimoniale, per garantirne la sostenibilità futura.
Durante la pestilenza del Seicento il San Giacomo divenne lazzaretto, nell’Ottocento fu ampliato con una sezione per gli asfittici e fu rifugio per i volontari che combattevano per la Repubblica Romana. Nel 1870, insieme a tutti gli altri ospedali romani, entrò a far parte dell’Ente morale Pio Istituto Santo Spirito e Ospedali Riuniti, fino a quando nel 1978, con l’approvazione della legge che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, venne assegnato alla Asl di zona.
È all’inizio del nuovo millennio che inizia un’altra storia.
(immagine da commons.wikimedia.org)
Il primo a pensare di far quadrare i disastrati conti della sanità regionale, il cui deficit aveva superato la cifra stratosferica di 1,5 miliardi l’anno, vendendo gli ospedali è il presidente Storace. Con la Legge regionale n.3/2001 creò la società a prevalente capitale regionale San.Im. Spa , quale strumento per immettere liquidità nel sistema delle aziende sanitarie regionali e contribuire alla copertura dei disavanzi. A questa società furono venduti 56 ospedali laziali, tra cui il San Giacomo, per un totale di 1 miliardo e 949 milioni di Euro, prezzo giudicato da molti troppo basso.
Con le aziende venditrici furono stipulati contratti di locazione per 30 anni, sale and lease back, con vincolo di destinazione d’uso, per circa 90 milioni l’anno di cui due milioni per il San Giacomo.
Al termine della locazione era prevista un’opzione di riacquisto al prezzo simbolico di un euro. Il denaro necessario per l’operazione è stato raccolto attraverso la cessione dei crediti trentennali degli affitti delle Asl a un’altra azienda pubblica Cartesio srl, che ha emesso obbligazioni garantite dai titoli ricevuti, con tanto di derivato al seguito, prodotto da Unicredit, Bnl, JP Morgan e Dexia Crediop.
Dal 2002 al 2008 al San Giacomo, ancora in funzione, furono fatti lavori di ristrutturazione in un reparto alla volta, gli ultimi due, neurologia e day-hospital, furono ultimati nel luglio 2008, un mese prima della decisione di chiuderlo. L’Asl e la Regione Lazio hanno speso oltre 10 milioni di euro per questi lavori e per l’acquisto di strumenti radiologici. La chiusura fu stabilita con la legge di assestamento del bilancio della Regione Lazio n.14/2008 durante la presidenza di Piero Marrazzo.
Quando è stato chiuso l’ospedale aveva 170 posti letto di degenza, un pronto soccorso ed era l’unico nel centro storico attrezzato per il piano di emergenza per afflusso di feriti in caso di azioni terroristiche. Si sono ritrovati senza il loro presidio 25mila utenti che ne usufruivano ogni anno.
Da allora sui bilanci della Asl grava, oltre il costo dell’affitto, della custodia e della sorveglianza affidata a una società esterna, anche quello della manutenzione della struttura. Nel 2014 infatti è stato necessario intervenire per rifare parte del tetto di copertura.
L’impiego di tutte queste risorse finanziarie per mantenere una struttura chiusa da anni sono state segnalate anche nella relazione annuale della Corte dei Conti del 2009 «tutte queste sono criticità che devono far riflettere sulla opportunità di continuare a destinare risorse finanziarie aggiuntive, rispetto a quelle già necessariamente spese a suo tempo per mettere a norma l’edificio, senza che vi sia, neppure in prospettiva, un beneficio effettivo per l’utenza».
(immagine da commons.wikimedia.org)
I dati, registrati dall’Osservatorio sul debito della Regione Lazio, nel 2012 segnalano come 1 miliardo sui 10,7 miliardi di passività sia legato alla San.Im. Alla decisione della chiusura c’è stata una forte opposizione da parte degli utenti e del personale sanitario che lavorava nella struttura alla quale ha dato il suo appoggio Oliva Salviati erede del cardinale che l’aveva donato alla città imponendo che la destinazione a ospedale pubblico fosse mantenuta .
Il ricorso al Tar da lei presentato è stato respinto e per questo ha deciso di ricorrere in appello. Da allora le proteste non si sono mai fermate. Anche l’amministrazione Capitolina si è schierata per la riapertura dell’ospedale.
Intanto alla fine del 2017, attraverso l’emissione di Bond da parte della Regione Lazio, sono stati riacquistati 16 ospedali fra quelli ceduti da Storace, operazione che ha consentito di riportare nel bilancio regionale un valore patrimoniale superiore a 600 milioni di euro e risparmiare sugli oneri finanziari fino allora sostenuti.
Il San Giacomo però è rimasto ancora chiuso e trasferito nel fondo “i3-Regione Lazio” gestito da Invimit, del Ministero dell’Economia e della Finanza con l’obiettivo di essere venduto per 61 milioni di euro, poco più di 2 mila euro al metro quadro. Cosa diventerà l’ospedale dei poveri sarà il mercato a sceglierlo, visto che nella legge di bilancio è previsto il cambio di destinazione d’uso degli immobili da valorizzare.
Oggi arriva la sentenza del Consiglio di Stato al quale Oliva Salviati si era appellata. «Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza avversata, annulla gli atti impugnati».
Dunque la chiusura dell’ospedale, ha sentenziato il Consiglio di Stato, era illegittima e non era stata imposta, come sostiene la Regione, dal piano di rientro del 2007, che prevedeva la riorganizzazione e razionalizzazione della rete ospedaliera, né era stata richiesta per ripianare il disavanzo finanziario della sanità regionale, ma era stata una scelta autonoma dell’amministrazione regionale.
«Anche su un piano più generale, la regola costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione – recita la sentenza – non si può ritenere che possa legittimare lo smantellamento di un servizio pubblico ospedaliero in conseguenza della mera rilevata “inefficienza” di gestione e senza alcuna preventiva analisi ed adeguata motivazione in ordine alle cause e responsabilità dell’inefficienza, all’esame e ponderazione di eventuali strategie di superamento della crisi gestionale, alla valutazione dell’interesse pubblico e degli interessi degli assistiti nel territorio».
E conclude: «Alla luce delle considerazioni svolte, sussiste il denunciato vizio di eccesso di potere per sviamento e contraddittorietà, irragionevolezza e illogicità». Parole come pietre!
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