ITALIA
«La misura è colma». Mobilitazione dello spettacolo in 21 città
Un corteo ha attraversato le strade del centro di Roma per chiedere un tavolo di trattativa interministeriale. Intanto, da Trieste a Catania, lungo tutta la penisola ci sono state proteste. Alcuni stabili occupati
La giornata
Sorpresi, i pochi turisti in piazza del Pantheon girano la testa di scatto. Alla sinistra del famoso tempio romano, situato nel pieno centro della capitale, passa un rumoroso corteo di professionisti e professioniste dello spettacolo, diretto verso Montecitorio. «Mario Draghi, dacce il tavolo / dacce il reddito», scandiscono sulla melodia del successo dei Queen Another One Bites the Dust.
La mobilitazione, che è iniziata alle ore 14 di ieri davanti al Teatro Argentina, è molto chiara rispetto ai propri obiettivi: «Il governo deve concedere un tavolo di trattative interministeriale per risolvere l’emergenza che coinvolge i lavoratori e le lavoratrici del settore culturale».
(foto di Ilaria Turini)
Si protesta in ventuno città italiane: Trieste, Cosenza, Catania, Bologna, Torino… a Milano viene occupato l’ex-Cinema Arti, a Napoli è bloccata la via che conduce al Teatro Mercadante. A Roma, da largo Argentina il corteo attraversa le strette strade di via dei Cestari e di via della Minerva, si snoda per piazza Capranica fino ad arrivare sotto al Parlamento.
Si susseguono interventi, slogan, urla e balli ma nessuno si affaccia “dalle stanze del potere”. «Oggi ci avete costretto a mettere in gioco i nostri corpi», dicono i e le manifestanti. «Dovete agire subito. La misura è colma».
La mobilitazione è convocata a un anno dal decreto ministeriale che ha imposto la chiusura di cinema, teatri, sale da concerto e luoghi culturali per via dell’emergenza pandemica. In questi dodici mesi, le uniche misure a sostegno di professionisti e professioniste del settore sono state i cosiddetti “ristori”, erogazioni saltuarie di aiuti, mentre nessuna ipotesi di riforma strutturale è stata messa in campo.
Al contrario, pare che il riconfermato Ministro per i Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini stia pensando a delle “riaperture”. «Ma è una falsa ripartenza», contestano dal microfono i membri del sindacato Clap-Camere del Lavoro Autonomo e Precario, fra i promotori della giornata. «Si può pensare a tornare al lavoro solo se sono garantiti i diritti e la sicurezza di tutte e tutti».
(foto di Ilaria Turini)
A Roma i e le manifestanti sono qualche centinaio, ma rappresentano centinaia di migliaia di persone sparse in tutto il paese che – con l’entrata in scena dell’emergenza pandemica – hanno difficoltà a pagare l’affitto, il mutuo, a sostenere insomma le normali spese per sopravvivere.
«Oggi siamo in piazza anche per ricordare Omar», dicono dal microfono riferendosi al quarantunenne imprenditore dello spettacolo che si è suicidato sabato scorso. «Ha scelto di compiere questo gesto estremo perché schiacciato dalle contingenze e abbandonato dallo stato».
Il decreto “Cura Italia” del marzo scorso lasciava infatti escluse varie categorie di professionisti, tra cui appunto impiegati e impiegate dello spettacolo che svolgevano l’attività in maniera intermittente.
«Un anno senza iniziative che per noi corrisponde a un anno senza reddito», precisa Giorgio di Potere al Popolo rivolgendosi alla piazza. «Ma ciò succede perché si continua a far prevalere la logica del “grande evento” sulle ragioni della cultura di prossimità. In questo senso, nessuna fiducia nel governo Draghi: siamo certi che cercherà di mantenere lo status-quo».
Eppure, i e le manifestanti si rimpallano la convinzione che “la normalità è il problema”. Lo si trova scritto sui cartelloni di protesta, detto in mezzo agli interventi dal microfono e urlato negli slogan. E – ricordano – “normalità” significa anche, se non innanzitutto, reiterazione delle stesse modalità e delle stesse nomine politiche.
Lo spiega molto bene alla piazza la sindacalista Fiom Eliana Como, molto attiva e combattiva nell’area bergamasca: «Cambiano i governi, ma Franceschini è sempre lì. Sembra il “re Sole” della cultura privata e mercificata. Anche la sua idea della Netflix della cultura va in questo senso. Fate bene a chiedere la rottura di queste logiche».
(foto di Ilaria Turini)
È chiaro, però, che il punto della protesta di ieri non è certo quello di proporre altri nomi. Al contrario, la richiesta del tavolo interministeriale vuole sottolineare come i problemi che riguardano lavoratori e lavoratrici dello spettacolo abbiano un carattere strutturale e complesso. La soluzione dunque non può venire da solo Ministero per i Beni e le Attività Culturali ma deve coinvolgere anche il piano del lavoro e dello sviluppo economico.
Una consapevolezza che, a un anno dallo scoppio della pandemia, sembra radicarsi in sempre più lavoratori e lavoratrici dello spettacolo: la giornata di ieri è stata promossa da 25 realtà sindacali e collettivi organizzati, tra cui, oltre al già citato Clap, Emergenza Continua, Adl Cobas e molti altri, ma ben presto ha aderito un totale di 80 sigle diverse. Resta da capire quanto invece si sia radicata presso i funzionari governativi.
Dopo quasi quattro ore di mobilitazione sotto Montecitorio, verso le 19 una delegazione è stata ricevuta dal Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico.
(Francesco Brusa)
«Nessuno si salva da solo»
Ascolta l’intervento di Emanuele De Luca, coordinatore di Clap:
Le voci
È stata una piazza colorata e festosa, nonostante non ci fosse proprio nulla da festeggiare e le buone notizie siano arrivate soltanto in tarda serata, sempre che tali possano definirsi un incontro con il Presidente della Camera, Roberto Fico, e la consegna allo stesso di un documento con le richieste presentate dalla Rete Intersindacale dei Professionist* Spettacolo e Cultura (Risp).
Proprio Risp, sigla nata dall’incontro tra ADL Cobas, CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario e Si Cobas, rientrava nel nutrito gruppo di organizzatori della giornata di ieri: la scelta della data non era affatto casuale, bensì fortemente simbolica.
Il 23 febbraio del 2020, infatti, si fermava completamente il mondo dello spettacolo: da quel momento niente teatri, niente concerti, niente cinema. A parte qualche eccezione e uno scorcio di normalità tra estate e autunno.
«Io sono un privilegiato: lavorando anche nell’audio-visivo dopo la riapertura ho ricominciato subito a lavorare», racconta l’attore Alessandro Pala, presente sin dall’inizio della manifestazione, davanti al Teatro Argentina: «Con lo spettacolo dal vivo però non lavoro praticamente da un anno, a parte prove».
(foto di Ilaria Turini)
Un paradosso, considerato che spesso i locali per lo spettacolo dal vivo garantiscono un’ampiezza adatta alle necessità di distanziamento, ma lo stesso non può dirsi per molti set e studi: «Per quanto riguarda il cinema, la televisione e persino il doppiaggio c’è un indotto economico che è molto maggiore rispetto al teatro. Infatti i set sono ripartiti e io stesso, come attore, ne ho usufruito», conferma Alessandro.
Ma l’attore non è l’unico artista, tra quelli presenti nella protesta che da largo di Torre Argentina si spostata a Montecitorio, a lamentare un trattamento ingiusto nei confronti del mondo dello spettacolo e della cultura. «I teatri sono stati duramente colpiti senza un motivo valido. Perché se altre attività, come gli aerei che possono viaggiare, sono ripartite, un teatro non può essere riaperto in sicurezza?», si domanda in maniera retorica Federica della Circofficina.
I membri del collettivo di artisti da strada, perlopiù circensi, si sono presentati alla manifestazione avvolti da sacchi neri, del tipo solitamente utilizzato per buttare la spazzatura.
«È stata un’idea lampo, però è un po’ come ci sentiamo: ci siamo guardati in faccia e abbiamo pensato che ci sentivamo spazzatura, come qualcosa che non serve più e va buttato».
Anche Claudia, danzatrice, ha sensazioni tutt’altro che positive dopo un anno di inattività forzata: «Si crede che così facendo si tuteli la salute, ma il risultato è invece opposto. Si favoriscono le malattie cardiovascolari e patologie psicologiche come depressione, istinti suicidi e voglia di drogarsi…». D’altronde il mondo della danza, pratica artistica al confine con l’attività atletica, risulta particolarmente colpito dal prolungato stop.
(foto di Ilaria Turini)
«La situazione sta arrivando al suo limite estremo: in primo luogo dal punto di vista economico e lavorativo, poi anche da quello mentale e fisico», sottolinea Jacopo Giarda, ballerino del Teatro dell’opera di Roma: «Perché un danzatore, proprio come un atleta, si deve allenare ogni giorno. Siamo dunque qui a chiedere una riapertura immediata. Sono state trovate soluzioni per altre attività commerciali, che sicuramente fanno girare l’economia, ma anche l’arte è un lavoro. Oltretutto socialmente utile».
Tra slogan contro Franceschini (chiamato dal palco «Re sole della cultura privatizzata»), striduli fischietti e tamburi improvvisati con coperchi e pentole, qualcuno però esprime dubbi concreti sull’opportunità di riaprire.
«Dobbiamo stare attenti quando si parla riapertura. Che non sia una falsa riapertura. Perché in piena pandemia, con le zone rosse, sarebbe comunque impossibile per la maggior parte delle compagnie private ripartire», analizza con lucidità Tania, aiuto-regista: «Si deve riaprire, si deve ripartire, d’accordo. Ma tutto il comparto deve essere messo in grado di lavorare, non solo i teatri pubblici. Come è successo invece nella falsa riapertura di giugno-ottobre dello scorso anno, che è servita solo a non elargire più fondi per quei quattro mesi, ma nessun teatro privato è ripartito».
(foto di Ilaria Turini)
Le incognite sono numerose, soprattutto con la terza ondata che minaccia di colpire a breve e la campagna vaccinale che procede a rilento. Ma dalla piazza romana (e dalle altre venti che hanno partecipato alla protesta in tutta Italia) è emersa prepotente «la necessità di rivendicare non solo il diritto al salario, al vivere e al lavoro, ma anche il diritto al desiderio, alla creatività, agli spazi, a ciò che è socialità». Parola di Graziella Bastelli, rappresentante del Coordinamento consultori delle donne e delle libere soggettività del Lazio di Non Una Di Meno.
Non avremmo saputo dirlo meglio.
(Nicolò Arpinati)
Immagine di copertina di Ilaria Turini