ROMA
Costruire comunità a Tor Bella Monaca
Sesta puntata della rubrica Fuori Mercato: questa volta ci inoltriamo nel quartiere di Tor Bella Monaca, nella storia e nelle attività del decennale “Chentro” sociale della periferia est di Roma.
Il contesto socio-spaziale
“El Chentro Sociale Torbellamonaca” nasce nel settembre 1993, nella fase di espansione dei centri sociali a Roma, a partire dall’iniziativa di un gruppo di giovani abitanti del complesso R8 che decisero di occupare uno spazio comunale che si trovava, da molto tempo, in uno stato di semi abbandono.
Per incontrare chi da oltre vent’anni continua a costruire esperienze di mutualismo e di aggregazione sociale nel quartiere decidiamo di raggiungere lo spazio percorrendo la Casilina verso i Castelli Romani. Mentre ci si avvicina a Tor Bella Monaca le emozioni si fanno importanti e si assume un atteggiamento riverente.
Siamo davanti ad un quartiere di tutto rispetto: ventiduesimo Piano di Zona in attuazione del primo Piano di Edilizia Economica e Popolare di Roma (Legge 167 del 1962), Tor Bella Monaca ricopre una superficie di 188 ettari e annovera 3300 alloggi comunali, 13 scuole di vario livello e infrastrutture primarie atte ad accogliere un carico urbanistico previsto di 30 mila abitanti (per darvi un’idea, Urbino ha circa 15 mila abitanti e la Provincia di Enna 28 mila). Ottenuta la concessione edilizia nel 1980, il Consorzio di Tor Bella Monaca ha realizzato la propria impresa in soli tre anni. Per la costruzione ha fatto ricorso alle tecniche della prefabbricazione; la varietà tipologica si riconosce nella composizione di elementi di edilizia intensiva (torri, stecche, edifici in linea con corti aperte) disposti su una vasta superficie fondiaria in un rapporto tra costruito e spazio aperto assai diversificato; la cura del verde è in alcuni casi notevole, in altri manca di definizione: sono le aree dei servizi mai realizzati.
Proprio la forma architettonica, in un’odiosa quanto perversa relazione biunivoca tra provenienza e destino, è stata oggetto di attenzione dell’amministrazione comunale e capro espiatorio di tutti i guai del quartiere. Nel 2011 l’architetto neo tradizionalista Leon Krier venne incaricato dall’amministrazione del Sindaco Alemanno di comporre un masterplan per un Programma integrato di riqualificazione urbana (PRINT) che si occupasse una volta per tutte di far fuori il male e le sue brutture dal quartiere. La proposta prevedeva la demolizione dei “comparti residenziali di edilizia pubblica” e la ricostruzione di un diverso tessuto urbano ispirato ai criteri neo tradizionalisti con il supporto dei privati. Supporto che viene ripagato di fatto da un passaggio di proprietà: il suolo, liberato dall’edilizia attuale e del tutto ridisegnato, sarebbe stato poi occupato dall’edilizia privata. Il riferimento è ricostruire i rapporti di prossimità del quartiere di Garbatella. Peccato che tra i due contesti ci sia un salto di scala che li rende imparagonabili. Infatti basti pensare che per Tor Bella Monaca il progetto prevedeva l’ampliamento delle aree edificate da 77,7 ettari a 96,7 ettari, con un incremento previsto della popolazione, già in forze di circa 28 mila abitanti, di altri 16 mila per un totale di 44 mila.
Nella descrizione del progetto le aree investite dal nuovo tessuto edilizio sono definite come: «piccole aree libere esterne al quartiere» (Roma Capitale, 2010). In realtà, i numerosi ettari mancanti sono le aree di proprietà Vaselli che in cambio della partecipazione alla costruzione avrebbe potuto accumulare nuovo patrimonio immobiliare da vendere. Certo la sostituzione edilizia delle case popolari esistenti avrebbe contribuito a migliorare la bellezza del quartiere e a cacciarne via il male!
Peccato che il progetto non prevedesse l’incremento dei servizi e delle infrastrutture necessarie a sostenere il carico urbanistico aggravato; peccato anche che si sarebbe dovuto rinunciare alla proprietà pubblica del quartiere, del suolo e delle case. Peccato, ancora, che il progetto, sovrapposto alle preesistenze, avrebbe compreso con i suoi perimetri, per demolirli una volta per tutte, anche quegli spazi che oggi costituiscono riferimenti aggregativi per il quartiere non solo per le funzioni che contengono, ma per le qualità ambientali, sociali e culturali che producono. Ci si sarebbe trovati in un bel paradosso: alla ricerca del bello e all’insegna della riqualificazione fisica, si sarebbe distrutto il buono impegnato nella quotidiana battaglia per una esistenza degna, di comunità e solidale.
Ad oggi il rischio di questa demolizione sembra essere allontanato. Quello che ancora non sembra essere recuperato del tutto è il rispetto che l’amministrazione comunale dovrebbe alla qualità e alla quantità delle azioni che in molti e molte producono nel quartiere più stigmatizzato della città (in stretta compagnia con altri quartieri di edilizia economica e popolare) e che lo rendono, nonostante la scarsità di investimenti sul territorio, dovuti ai tagli dell’austerity, assai migliore e degno di essere abitato di quanto emerge dalla narrazione demoniaca tuttora dominante nella città.
Infatti, Tor Bella Monaca nel tempo ha faticosamente gestito le difficoltà legate ad un alto tasso di povertà e disagio sociale, spazialmente così concentrati dalle miopi politiche pubbliche, che hanno composto negli anni lo stigma di un ghetto inattraversabile, sempre degno della cronaca nera. Inoltre, negli ultimi anni, i tagli ai servizi sociali imposti dall’austerity e dal patto di stabilità hanno prodotto nuovo danno e ulteriormente sollecitato presidi scolastici, sociali e sanitari ad un grande e intensissimo lavoro. La tensione sociale nel tempo non si è di certo alleggerita. Il quartiere negli anni si è comunque aperto all’attraversamento di organizzazioni sociali di abitanti, di strutture associative, religiose e non, e di centri sociali che si sono affiancati alle insufficienti e stressate strutture pubbliche esistenti, intercettando sempre nuovi bisogni. La ricchezza di questo tessuto sociale, preziosa ancora per nuove politiche urbane e per una progettazione condivisa della città non è stata sufficiente a cacciare indietro lo stigma della forma-ghetto: torri e stecche, e la loro grandezza, sembrano essere più interessanti della ricchezza sociale che questa parte di città produce e che vogliamo raccontare a partire dalla ventennale esperienza di occupazione, autogestione e creazione di comunità nella periferia romana.
La galleria fotografica:
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Il Chentro sociale
È all’interno di tale contesto urbano infatti che si trova “El Chentro Sociale Torbellamonaca”, che nei primi anni di occupazione ha svolto principalmente un ruolo di aggregazione sociale, produzione culturale e musicale. All’occupazione partecipa il gruppo storico di “writers di Torbellamonaca”, che aveva rapporti con i gruppi di altri quartieri: l’importanza dei writers nella cultura popolare delle periferie è significativa; per questo motivo il Chentro ha organizzato un evento internazionale (con artisti e writers sia dagli Stati Uniti, Seattle, New York, Chicago, che da varie parti d’Italia); in questa occasione lo stesso centro sociale, così come vari altri spazi del Municipio, venne ridipinto dagli artisti, affermando una nuova stagione di colori sui prefabbricati di grigio cemento.
Nel 1996 arriva la svolta: oltre alla necessità di creare spazi di aggregazione, il Chentro comincia ad occuparsi anche di altre questioni, relative alla vivibilità del quartiere, alla condizione giovanile, alla povertà, all’educazione e alla relazione con le scuole del quartiere con l’obiettivo di costruire socialità e progettualità comune tra gli abitanti di Tor Bella Monaca.
“Non è la gente che deve venire al centro sociale, ma il centro sociale che deve andare nel quartiere” ci dice Mario, quando ci racconta i ragionamenti che attraversarono lo spazio in quegli anni. Cominciano allora ad espandersi le attività del Chentro all’interno di quel quartiere che abbiamo delineato in breve per contestualizzare l’esperienza di occupazione in una periferia complessa come Tor Bella Monaca: le iniziative cominciarono ad essere svolte anche in spazi differenti, coinvolgendo e animando la sala cinema del municipio, le piazze, gli spazi pubblici recuperati dagli abitanti ad un uso comune contro lo stato di abbandono in cui versavano. Ma ancora oggi molti spazi pubblici continuano a trovarsi in questa condizione, in linea con le deboli politiche urbane del comune di Roma.
In effetti si può dire che a Tor bella Monaca: “Ci siamo ripresi gli spazi pubblici abbandonati per ridarli alla collettività” continua Mario, guidandoci tra i laboratori e gli spazi attorno al centro sociale, alcuni dei quali recuperati attraverso i fondi del progetto Urban, in modo da diventare luoghi di intervento e partecipazione attiva da parte degli abitanti.
I progetti nel quartiere
Il Chentro comincia già nel 1997 a lavorare con le scuole del quartiere, sia elementari che medie, e con le maestre dell’asilo nido, sperimentando iniziative di differente tipologia, fino al punto di costruirne alcune capaci di essere integrate nei Piano di Offerta Formativa sia del Liceo Amaldi, che di altre scuole ed aprendo poi una stagione di nuove e inedite collaborazioni con l’Università di Roma Tor Vergata e la ASL della zona.
Dopo la battaglia sulla delibera 26 (seguita alla resistenza attorno alla difesa del centro sociale La Torre) che segna la fase alta di lotta dei centri sociali per il riconoscimento degli spazi, nel pieno della crisi della rappresentanza politica ed istituzionale, attorno al 2005 il Chentro comincia ad interrogarsi sulle modalità attraverso le quali ri-costruire forme di comunità, in particolare in un’area di Roma così fortemente segnata da esclusione e povertà, ma molto ricca dal punto di vista della vita associativa che vede i propri abitanti come protagonisti.
Il Chentro si apre a nuove relazioni e collaborazioni: le esperienze dei campi di lavoro, attraverso progetti finanziati a livello europeo, e gli scambi con i movimenti popolari basche e irlandesi, così come con diversi movimenti in America Latina. Nasce così la riflessione attorno alla necessità di mettere al centro della costruzione di comunità i valori della partecipazione, dei diritti e della democrazia. Percorsi che si sono posti l’obiettivo di coinvolgere fin da subito i migranti presenti nel territorio, a partire dall’inclusione nei meccanismi di partecipazione e di lotta comune, per scardinare i confini che segnano la frammentazione sociale prodotta lungo la linea del colore.
Mario ammonisce: “La nostra idea di comunità non guarda alle provenienze, ma alla presenza su un territorio che condividiamo e viviamo nelle differenze, ma con le stesse esigenze e gli stessi bisogni”; la richiesta di diritti per una vita degna coinvolge tanto gli abitanti storici che i migranti, con un impegno sempre più forte per contrastare i processi di esclusione e il razzismo. “Cerchiamo invece di costruire relazioni sociali di comunità che coinvolgano generazioni e settori sociali differenti. Occorre rispettare e valorizzare le diversità” raccontano gli altri attivisti che incontriamo, “ed al tempo stesso rivendicare l’uso per tutti degli spazi pubblici abbandonati dal pubblico, per garantire a partire dalle lotte spazi, servizi e accesso agli abitanti”.
Le collaborazioni e le reti progettuali coinvolgono tanti diversi soggetti nel quartiere, dalla ludoteca “La Casa di Alice” delle donne dell’R5, all’associazione Eutopia, a Medicina Solidale, presidio medico e ambulatorio popolare dedicato in particolare ai migranti del quartiere nato dall’Università di Tor Vergata, all’associazione dei ragazzi del Parkour del VI municipio, alle diverse realtà culturali e musicali, ai diversi comitati di cittadini presenti fino alle realtà che si occupano dell’emergenza abitativa nel quartiere.
Il Chentro ha inoltre collaborato per un anno ad un progetto municipale contro la dispersione scolastica e contro l’esclusione dei cittadini rom, che ha portato diversi ragazzi e ragazze provenienti dal vicino campo rom a partecipare ad un progetto sperimentale di inclusione che prevedeva attività di laboratorio nello spazio sociale insieme ai bambini del quartiere. “Inclusione significa garantire casa, lavoro, forme di reddito, dignità” dicono gli attivisti dello spazio; “Certo, non potendo garantire tutti questi importanti elementi solo a partire dal nostro lavoro sociale, è difficile fare inclusione”; per questo motivo, ci spiegano, hanno voluto sperimentare questa possibilità partendo dai bambini. Dopo la scuola i bambini e le bambine rom partecipavano, assieme ad altri bambini del quartiere, ai laboratori e ai doposcuola che si svolgevano nello spazio. Assieme a questo percorso nasce anche la scuola popolare frequentata da decine di ragazzi e ragazze del quartiere, sempre più punto di riferimento educativo e culturale nel quartiere, a fronte del definanziamento delle sistema scolastico dell’ultimo decennio.
Davanti alla ciclofficina popolare “La Gabbia” ci sono decine di ragazzi e ragazze, girano in bici per il quartiere e scelgono di vivere quello spazio come un progetto comune, di scambio, autocostruzione, ma anche come parte di una educazione alla condivisione fuori dalle logiche di mercato. La ciclofficina popolare è nata nel 2009, dal movimento della Critical Mass, ed oggi viene frequentata da tantissime persone del quartiere, per costruire o riparare le bici, socializzare, vivere uno spazio di aggregazione e riciclo. A pochi metri si trova il Gruppo di acquisto solidale, partecipato da una ventina di famiglie in modo continuativo, e da molti altri in maniera occasionale: la garanzia di prodotti di qualità in base al km 0 ad un prezzo sostenibile rappresenta un altro aspetto molto importante del Chentro.
Accanto alla ciclofficina, il laboratorio di serigrafia e di writing, uno spazio artistico, i laboratori di hip-hop e le sale prove, ed infine il laboratorio di ceramica, a cui partecipano decine di persone del quartiere, e molte donne del Centro di Salute mentale che trovano così uno spazio, in accordo con l’ASL, in cui autogestire attività e partecipare ai mercati popolari, alla creazione artistica e alla condivisione di esperienze.
La ricchezza e l’importanza dell’autogestione in questo quartiere emerge dai racconti di chi incontriamo negli spazi del Chentro e del quartiere, in piazza Mengaroni, nella biblioteca autogestita del Cubo Libro fino alle strade adiacenti. La ricchezza e la vivacità di una esperienza importante da conoscere e raccontare, da frequentare e attraversare. Esperienza che nasce dalle pratiche di riappropriazione, partecipazione e autogestione che si produce quotidianamente nei territori di Roma, alternativa sia al privato dedito alla speculazione che al pubblico dedito ai tagli e allo smantellamento del welfare attraverso privatizzazioni. Una esperienza ricca e colorata, indifferente alla forma e appassionata al contenuto, presidio importante e assai radicato in questa triste città commissariata dal debito e dal malaffare.
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