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“Riparare il mondo” di Christian Raimo

Viviamo una normalità di malessere sociale generalizzato, raccontato come un problema psicologico individuale. In “Riparare il mondo” Christian Raimo fa a pezzi questa prospettiva e dice «abbiamo un dovere»: riappropriamoci della politica, con un percorso di pedagogia pubblica, e del processo di costruzione delle nostre vite e del mondo, a partire dall’ordinario

In una società che fa della visibilità la sua cifra, la capacità di vedere l’ordinario è un fatto eccezionale. In Riparare il Mondo (Laterza, pagine 135, euro 15) Christian Raimo non solo lo fa, e bene, ma fa del nostro ordinario il centro di un progetto politico. Raimo racconta il nostro presente, una normalità di malessere generalizzato e sociale, lo fa durante la pandemia, ma parte da lontano. Se descrive un punto di arrivo, dopo la fine della politica e l’avvento della società dell’io, indica una via di uscita, un futuro possibile, a partire da noi.

Siamo continuamente sollecitati a essere noi stessi, ci racconta, quando non solo di fatto questo ci è reso impossibile, ma siamo costretti a mettere in scena ciò che non siamo. Siamo una società del double-bind, del doppio legame, verrebbe da dire, usando il concetto dello psicologo Gregory Bateson, che lo individuò come base della schizofrenia: una incongruenza violentissima tra dire e fare, tra messaggio e realtà, tra richiesta e possibilità di soddisfarla.

Noi, come la ragazza che incontriamo nelle primissime pagine intervistata da Raimo, ci facciamo continuamente carico di questa violenza e del malessere sociale che ne deriva. Lei, un dottorato in Antropologia, tre lavori sottopagati e un affitto da pagare, spende la metà di quello che le serve per vivere in analisi. È quello che succede quando «persino le conseguenze etiche e sociali di un boicottaggio sociale deve prenderle in carico chi le subisce». Questa impossibilità esistenziale e questa violenza, oggi generalizzata, sociale, Raimo la smonta e la mette a fuoco, in tutte le sue sfaccettature, pagina dopo pagina, riprendendo e continuando le riflessioni di Mark Fisher, di Foster Wallace e di tanti e tante che già hanno scavato nel nostro ordinario per svelarne la violenza imposta: la sofferenza non è qualcosa di intimo da “risolvere” ma il sintomo di una normalità da combattere, innanzitutto raccontandola. Ed è quello che Raimo fa: doloroso, ma liberatorio.

Prestazioni, autopromozione, ricerca dell’autentico a tutti i costi, è il messaggio. Depressione, psicofarmaci, disagio psichico, sono la realtà. Bamboccioni, choosy, sfigati, è la narrazione imperante di questa frattura. «L’interrogativo più acuto che possiamo porci è perché questo disagio interiore non diventi coscienza di classe» – chiede Raimo sin dalle prime pagine. Perché «la distanza tra chi sfrutta e chi è sfruttato, oggi, passa tutta per un conflitto interiore. E a lungo andare questa scissione – che non diventa mai dialettica – crea una sorta di abitudine, una cronicizzazione del disagio». Se una coscienza di classe esiste, è narcotizzata e medicalizzata. La classe è diventata una comunità di traumatizzati che vive di counseling.

«Esisto solo se mi faccio vedere» è il messaggio. «Vogliamo che qualcuno veda, riconosca il nostro dolore» è la realtà. In mezzo, ci sono le occhiaie degli studenti che non dormono, divorati dall’ansia, con cui Raimo ogni giorno a scuola ha un dialogo, diretto e personale, mentre altri, che hanno paura di questi giovani, con cui non parlano e che non vedono, ne stigmatizzano i comportamenti dal chiuso delle redazioni. Mentre la politica è diventata spettacolo, una gara di tweet ed eventi inutili, mentre i sindaci annunciano la rigenerazione urbana con opere visibilissime di street-art su muri che cascano a pezzi, e gli influencer promuovono musei e cultura, il problema sarebbero i giovani. Nel mondo della visibilità a tutti i costi, il problema dei giovani, ci dice Raimo, è semplicemente quello di essere visti. A volte l’unico modo per farsi vedere è esagerare. O impersonare qualcuno che non si è, «personificare l’autenticità». O diventare vittima. «È la vittima stessa l’unico soggetto di diritti, degno di ascolto e portatore di verità: sentirsi vittima può essere l’unico modo per poter stare in una relazione, in una comunità», come già suggeriva Richard Sennet. Una vittimizzazione che, penso, in parte spiega la deriva identitaria di una certa sinistra, a partire da quella americana, frantumata tra molteplici richieste di riconoscimento di diritti particolari che hanno perduto una cornice collettiva di classe.

«Non faccio che chiedermi perché la condizione di sofferenza comune solo raramente abbia prodotto un atto di ribellione. E soprattutto, perché non è scattato un senso di fratellanza nella condivisione di una condizione materiale, sociale, simbolica, simile?» – chiede Raimo. Perché dopo le sconfitte politiche del passato, da ultimo quella del movimento dell’Onda, la nostra generazione, quella nata nella crisi, quella il cui vissuto è fatto di emergenze e catastrofi, di assenza di futuro e possibilità da una parte, di GIF, scrolling senza fondo ed eterna ripetizione del presente dall’altra, ha interiorizzato questa violenza? Perché il progetto di atomizzazione della società è riuscito, viene da rispondere. E infatti, scrive Raimo, «le disuguaglianze sono state considerate sempre più legittime, se non utili e funzionali al mantenimento stesso di sistemi sociali complessi». Il famoso There is no alternative. E mentre questa narrazione avanzava, mentre la meritocrazia diventava il mantra ufficiale di questa società, «nel frattempo hanno chiuso i battenti sotto i nostri occhi le palestre di uguaglianza, e siamo rimasti inerti. Le famiglie, le scuole, le università, le fabbriche, gli uffici, i partiti, i sindacati hanno rinnovato il loro modello educativo, scartando l’uguaglianza».

Parallelo a questo svuotamento di un modello educativo fondato sull’uguaglianza e all’impoverimento della scuola pubblica, l’adolescenza è diventata il target di un mercato in espansione. «Il rischio è che i ragazzi si ritrovino a leggere esclusivamente quello che è scritto, pensato, esistenzialmente risolto con la loro stessa lingua», scrive Raimo. Il mercato delle emozioni non ha risparmiato i più piccoli. Da quando le emozioni si imparano su libri sulle emozioni per bambini piuttosto che leggendo libri, storie, gialli, classici e romanzi? C’è tutto un mercato, pervasivo, sul «sottile incanto» dei bambini. Che non è molto diverso, né meno inquietante, di quello del sottile incanto degli adulti.

A proposito di emozioni, «quando le questioni collettive hanno iniziato a essere considerate dei temi cui approcciarsi con strumenti della psicologia e non con quelli della politica?». Una domanda che sembra riassumere il cuore di tutta la questione. Possiamo dare risposte individuali a questioni sociali? Quanto? Di nuovo, è il piano invertito della narrazione a svelare l’inganno: «Nel dibattito politico sono via via scomparsi vocaboli come coscienza/odio di classe, e hanno preso il campo termini come autostima e resilienza». L’odio di classe è stato sostituito da un concetto astratto, astorico, acritico e generico di odio, additato come il male della società nell’epoca della visibilità, qualsiasi sia il contesto, qualsiasi causa abbia.

Siamo insomma in una condizione permanente e astorica di incanto, ripetizione, vuoto, crisi, cronicità. Ma non è un lamento, quello di Raimo. Non è l’ennesima istantanea deprimente di una situazione senza sfondo, senza, storia, senza responsabilità. Ci sono tutti, i responsabili, ci sono le cause, ci sono i perché: dietro una «visione allarmistica di una crisi culturale» c’è infatti una precisa visione della cultura, quella dei padri, che ne escono malissimo, che ne escono sulle nostre spalle, un vero e proprio accollo.

E c’è una proposta: una pedagogia pubblica permanente, «un new deal culturale, un progetto di alfabetizzazione culturale su larga scala». È proprio a partire dal rifiuto di normalizzare il dolore con una lettura psicologica, invece di una politica, che diventa possibile raccontare l’ovvio: la nostra vita. Ri-politicizzarla, prendere sul serio i drammi della nostra quotidianità, per un progetto politico fondato su questa dimensione ordinaria, in cui i problemi sono solo apparentemente individuali. Contro la dittatura della visibilità, della performance, del risultato, c’è la politica, c’è la dimensione collettiva del nostro malessere e c’è la rabbia.

Abbiamo un dovere, scrive Raimo. Ripariamo il mondo. Anche perché «sembra di far parte dell’ultima generazione che potrà permetterselo». Non possiamo permetterci di non farlo. E, a dirla tutta, sta già accedendo, perché questa dimensione politica di «cura diffusa nelle relazioni invisibili» esiste già in tanti luoghi, nei quartieri di periferia, tra i soggetti fragili, a Roma, nel mondo, dove ci si riappropria di una possibilità di futuro.

 

Riparare il mondo verrà presentato mercoledì 7 ottobre alle 20.00 al Brancaleone (via Levanna 11)

Con l’autore interverranno  Annalisa Camilli (Internazionale) e Sarah Gainsforth (giornalista)

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