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3 luglio 1849: muore la Repubblica Romana, nasce la sua Costituzione
Dal balcone del Palazzo Senatorio Giuseppe Galletti, presidente dell’assemblea costituente della Repubblica, proclama la Costituzione. È il punto politico più alto di quest’esperienza rivoluzionaria, prima che venga sconfitta dalla superiorità militare francese.
Nel pomeriggio del 3 luglio 1849 le truppe del corpo di spedizione francese al comando del generale Oudinot entrano in Roma dalle direttrici di Porta San Pancrazio e di Porta Portese, lungo cui sono stati portati gli attacchi principali che in un mese e poco più di cannoneggiamenti e di durissimi scontri hanno ridotto a cumuli di rovine le grandi ville del Gianicolo nelle quali i difensori della Repubblica si erano attestati (Villa Corsini, il Casino dei Quattro Venti, Villa Savorelli, il Vascello, e da ultimo il baluardo di Villa Spada); aperto larghe breccia nelle mura leonine; colpito in città numerosi edifici e causato vittime; e piegato infine l’Assemblea Costituente alla resa.
I combattimenti sono cessati il 1 luglio. Garibaldi ha già lasciato la città nella tarda serata del giorno successivo, con i resti della sua legione. Tenterà di raggiungere Venezia che ancora resiste, ma la sua avventura si concluderà nelle paludi di Comacchio con la tragica morte della moglie Anita e la fucilazione di numerosi suoi luogotenenti e seguaci, tra cui Ugo Bassi, Giovanni Livraghi e Angelo Brunetti, l’agitatore popolare conosciuto come Ciceruacchio, e i suoi figli. I triumviri eletti nell’aprile precedenti, Aurelio Saffi, Carlo Armellini e Giuseppe Mazzini si sono dimessi, non volendo sottoscrivere la resa. A quest’atto formale hanno provveduto Aurelio Saliceti, Alessandro Calandrelli e Livio Mariani, subentrati nella carica. Per Mazzini si è trattato e si tratterà dell’unica esperienza diretta di governo della sua pur lunga vicenda politica. Rimarrà in città indisturbato per dieci giorni, sino a quando il console americano non gli avrà procurato un passaporto inglese con un nome falso, e un passaggio in nave per la Francia.
Gli ospedali rigurgitano di feriti: molti moriranno di cancrena e di setticemia nei giorni successivi. Tra i caduti sul campo, numerosi gli alti ufficiali, come Luciano Manara, Goffredo Mameli e Angelo Masina; e i volontari provenienti da altre regioni italiane o da nazioni oppresse, come Ungheria e Polonia. Ciò a testimoniare dello slancio e della compattezza rivoluzionaria dei combattenti.
Del resto, la breve vita della “repubblica dei briganti” è stata tutta percorsa da uno spirito radicalmente sovvertitore: il gruppo di militanti repubblicani e mazziniani, molti giovani e giovanissimi, che le ha dato vita e si è posto alla sua testa, ha saputo avviare in breve tempo un programma di governo capace di scardinare le antiche istituzioni politiche, economiche e sociali del potere temporale, ponendo mano ai patrimoni ecclesiastici e alla manomorta fondiaria, ai sistemi di cambio delle valute, alle privative, ai lavori pubblici, riformando in senso democratico e popolare le istituzioni assistenziali, calmierando il costo degli affitti e di alcuni generi alimentari, permettendo la libertà di culto, di stampa, di pensiero e di associazione.
Un programma che vuole radicarsi nel contesto di una città povera o poverissima, priva di una qualunque borghesia imprenditoriale e mercantile e di un qualunque tessuto realmente produttivo, afflitta dai privilegi nobiliari e di casta. Quella della Repubblica Romana è dunque un’esperienza significativa nella storia del processo di unificazione italiana, giocata su un progetto politico e sociale direttamente ispirato da Mazzini e dai suoi assunti teorici: così rilevanti, malgrado tutto, nella definizione delle moderne dottrine europee per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato. Un tale spirito febbrilmente di incarnarsi in uno scritto costituzionale che vuole essere il più aperto e avanzato tra tutti quelli redatti nel corso dei vari moti e sommovimenti italiani a partire dall’anno precedente.
In questo, diviene anche un laboratorio nel quale si sperimentano nuove forme di diritti della persona e del cittadino, quali il suffragio universale maschile, una certa libertà di culto e un sistema giudiziario basato sull’abolizione della pena di morte – la Repubblica Romana è il secondo stato europeo, dopo l’altrettanto effimera Repubblica Toscana di Guerrazzi e Montanelli, ad adottare un simile provvedimento.
In ogni caso, la Repubblica è stata sin dall’inizio animata e sorretta da un largo consenso popolare: e dall’apporto e sostegno del volontarismo patriottico e rivoluzionario italiano ed europeo. Noto a tutti il ruolo politico e militare che hanno avuto nel corso della sua vicenda personaggi come Carlo Pisacane, Luciano Manara, Goffredo Mameli, Emilio Morosini, i fratelli Dandolo, Cristina di Belgiojoso. Per Garibaldi, è stata la prima grande campagna militare condotta in Italia alla testa di un esercito rivoluzionario: esperienza che, pur esaltata dalla retorica patriottica come una vera epopea, non è stata tuttavia priva di ombre, soprattutto sul piano di alcune decisioni strategiche prese in contrasto con il resto dell’apparato di comando militare della Repubblica e in netto spregio della dirigenza politica mazziniana. Garibaldi avrà a sostenere più volte, nel corso degli anni a venire, che la Repubblica si sarebbe salvata se gli fosse stato affidato il potere assoluto di una Dittatura – come poi avrà, inutilmente sul piano politico, nel corso della spedizione dei Mille. Per Mazzini invece è stato il solo e unico momento di impegno in una pratica di governo e di reggimento della cosa pubblica: nel corso del quale peraltro ha dato prova di grande moderazione e di tolleranza.
Certo, la breve vita della repubblica non è andata esente da contrasti interni anche duri. Tra le fazioni moderate e quelle democratiche numerosi sono stati gli scontri politici: Mazzini si è comunque sentito accusare di “comunismo” quando ha proposto di assegnare ai meno abbienti palazzi e case del patrimonio ecclesiastico espropriato. Le trattative con i francesi, condotte sul piano dell’equivoco e dell’inganno più o meno consapevole da Ferdinand De Lesseps, hanno ingenerato non poche ambigue illusioni tra alcuni esponenti dell’Assemblea. E sul piano strategico, il mancato accordo con l’insurrezione toscana di Montanelli e Guerrazzi, si è rivelato rovinoso in termini soprattutto di mancati aiuti militari.
Ma la città è rimasta comunque quasi sempre tranquilla e solidale, le manifestazioni patriottiche hanno avuto largo concorso di popolo; si sono segnalati pochissimi incidenti e quasi sotto silenzio sono passate le (non numerose) uccisioni di ecclesiastici da parte di una sorta di “corpo franco” acquartierato in Trastevere e comandato dal forlivese Callimaco Zambianchi. E soprattutto, il corpo politico e sociale della Repubblica è rimasto nel complesso compatto e saldo.
La Repubblica cade principalmente per la preponderanza delle armi francesi, in particolare l’artiglieria, e alla concomitante e altrettanto minacciosa invasione austriaca delle Romagne e delle Marche. Di questa saldezza e di questa compattezza, la prova definitiva sarà rappresentata dall’ultimo gesto, di ampio significato politico e ideale, di cui la Repubblica sarà capace, e che a noi qui interessa ricordare “al presente” in tutta la sua carica dispiegata di utopica, affascinante, concretissima irrealtà: la proclamazione dal balcone del Palazzo Senatorio, in Campidoglio, nel pomeriggio dello stesso 3 luglio, della predetta Costituzione e la sua lettura da parte del presidente dell’assemblea, Giuseppe Galletti, ai molti cittadini accorsi e alla schiera di attoniti soldati francesi che si vanno schierando sulla adiacente terrazza dell’Ara Coeli.