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1977. L’anno in cui a New York nacque il neoliberismo
New York, 1977. Il “Deuce”, il quartiere dove regnavano prostituzione, spaccio e piccola criminalità di strada viene ripulito e lascia spazio a quell’insieme di grattacieli e cartelloni pubblicitari luminosi che è il Times Square dei giorni nostri. Su Sky Atlantic si è da poco conclusa la seconda stagione di “The Deuce”, il nuovo show di David Simon che a partire dalle trasformazioni del mercato del sesso racconta la nascita del neoliberismo nella grande mela
I rumori babelici della strada metropolitana, uno sguardo al marciapiede guarnito dalla giusta quantità di pattume e sporcizia per renderci consapevoli che siamo nel mondo underground, poi la camera sale sul corpo di Candy (nella prima stagione prostituta di strada e ora ben inserita nel mondo del porno dove dirada sempre di più le apparizioni da attrice per trovare il suo posto dietro la macchina da presa) e ne segue la passeggiata sotto la neve fino al Club 366. Entra, le viene tolto il vistoso cappotto e sulle note di Let the Music Play attraversa la dancefloor e si siede al bancone dove, senza dover chiedere nulla, Vincent Martino la accoglie con il suo drink. Vincent, da brillante barista come tanti è ormai diventato gestore di locali “per tutti i gusti”, dal gay bar a quello che dà spazio a band e artisti emergenti. Qualsiasi cosa tocchi diventa the place to be. “Look at you” le dice, Candy risponde “Look at you. Look at us!”, “Who would have thought, right?”.
Sembra di essere in Soft City (1974), il romanzo di Jonathan Raban, nel quale l’autore glorifica la flessibilità e la malleabilità della città, pronta in qualsiasi momento ad adattarsi ai desideri e voleri dell’individuo: «Decidete chi siete, e la città assumerà nuovamente una forma fissa intorno a voi. Decidete che cos’è, e la vostra stessa identità sarà rivelata definita da una triangolazione. Le grandi città, a differenza dei villaggi e delle cittadine, sono per loro natura plastiche».
Di soft nella city di The Deuce (show televisivo creato da David Simon e George Pelecanos, di cui da qualche settimane è terminata la seconda stagione su Sky Atlantic) però non c’è proprio niente e l’anno scelto per ambientare la seconda stagione non ha nulla di casuale. È il 1977. Due anni prima New York è andata tecnicamente in bancarotta, quando le istituzioni finanziarie si rifiutarono di rinnovare il debito cittadino, per poi prendere il controllo del bilancio attraverso nuove istituzioni create ad hoc. Un’imponente ristrutturazione del debito portò a tagli selvaggi al pubblico impiego, ai servizi essenziali e un assalto ai sindacati municipali, attori fondamentali all’epoca. Gli anni dei conflitti urbani, che avevano portato a una ridistribuzione della ricchezza e a un’espansione del settore pubblico, furono non solo archiviati, ma sfruttati per la restaurazione del potere di classe da parte dell’élite e di quello che venne chiamato un “clima favorevole all’attività economica”. Una manciata d’anni dopo si aprì su scala internazionale la stagione neoliberista di cui New York fu uno dei germi fondativi.
In Breve Storia del Neoliberismo (2006), David Harvey vede una convergenza avvelenata tra le sperimentazioni sessuali, musicali e artistiche e la controrivoluzione dell’élite economica: «La «New York delirante» (per usare l’efficace definizione di Rem Koolhaas) cancellò la memoria collettiva della New York democratica. Le élite cittadine acconsentirono, anche se non senza lottare, alla richiesta di diversificazione degli stili di vita […]. New York divenne l’epicentro della sperimentazione culturale e intellettuale postmoderna. Nel frattempo i banchieri d’investimento ricostruivano l’economia della città intorno alle attività finanziarie, a quelle ausiliarie come i servizi legali e i media […] e al consumismo differenziato».
Il leitmotiv, messo in bocca a un corollario di personaggi tra i più diversi per classe sociale, razza e genere, ovvero “faccio quello che cazzo mi pare”, è solo un’ingenua illusione. Anche laddove un’emancipazione individuale effettivamente si realizza, qualcun altro e insieme lo stesso individuo ne pagano il prezzo.
In un dialogo con una regista che ammira, Candy è riconosciuta come collega di talento, ma le viene suggerito, se vuole aumentare la qualità dei film e dunque la propria visibilità, di smettere di usare le prostitute come attrici, perché hanno uno sguardo senza vita (“They are dead around the eyes”). Proprio quelle prostitute, come Candy, che nel porno vedono l’occasione più fattibile di uscire dalla strada e dalla costante violenza fisica di protettori e clienti, pur mantenendo il sesso come componente del proprio lavoro. O Larry Brown, pappone con ambizioni da attore, che riceve una serie di no dai registi, perché il mercato è formato in stragrande maggioranza da uomini bianchi. E questi non vogliono guardare i corpi sui quali fantasticano la propria capacità di possesso “violati” da un pene il doppio del loro. “It’s not racism, it’s economics”.
Questo è il discorso all’interno del quale si inserisce l’opera di David Simon (The Corner, The Wire, Generation Kill, Treme, Show Me a Hero): se chiudiamo a cono il nostro sguardo sulla parabola, buona o cattiva che sia, di un individuo, ci sembrerà insensata (o usando eufemismi tutt’altro che neutri, spontanea o casuale), come una prostituta che “non vuole” abbandonare il suo pappone a New York o un bambino che “si prende” una pallottola vacante a Baltimora Ovest. Peggio ancora sarebbe tentare di spiegarne i comportamenti con motivazioni esclusivamente individuali (che è poi la via indicata dall’ideologia neoliberale). Le relazioni tra decisioni e fenomeni a livelli macro, meso e micro non conoscono staticità e, soprattutto, sono profondamente asimmetriche.
In questo reticolo di relazioni, attriti e scontri quotidiani c’è sempre l’ombra di manovre organizzate dall’alto, come l’istituzione di un dipartimento ad hoc da parte della nuova giunta municipale per igienizzare il Deuce, area di perdizione, spaccio e criminalità. Con la giustificazione di rendere più sicura la zona e la promessa di rimpolpare le casse del dipartimento di polizia, viene messa in moto la macchina di “riqualificazione” che permetterà l’aumento di valore degli immobili e nuovi investimenti, sancendo un nuovo patto tra élite politica e finanziaria. Nasce qui quella bolgia di grattacieli e cartelloni pubblicitari luminosi che è il Times Square dei giorni nostri.
The Deuce non va però confusa con un’operazione-nostalgia, dove la vita di strada nella «New York delirante» viene romanticizzata e contrapposta alla fredda razionalità delle operazioni della ristretta cerchia di potere. I corpi che l’attraversano possono sparire in qualsiasi momento e con equivalente fredda razionalità si trasformano nelle chiacchiere di chi fino al giorno prima si sedeva allo stesso tavolo o sostava a due passi sullo stesso marciapiede. Anche se quest’ultima è probabilmente una freddezza diversa, quella di chi ha costantemente paura di essere il prossimo. Lottare per non essere John Doe o Jane Doe (i nomi usati solitamente nel gergo giuridico statunitense per indicare un cadavere la cui identità è sconosciuta). Per dirla con le parole di Ta-Nehisi Coates (Tra Me e il Mondo) «non siamo stati noi a progettare la strada. O a finanziarla. O a preservarla. Eppure eccomi lì, con l’incarico e la responsabilità, come tutti gli altri, di proteggere il mio corpo». Non si tratta di scegliere tra un sistema di sfruttamento e violenza e un altro, né di individuarne le rispettive caratteristiche, ma di guardare al groviglio di continuità e discontinuità che permette il rinnovamento della sua logica.